Quid novi?

Letteratura, musica e quello che mi interessa

 

AREA PERSONALE

 

OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________

I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________

Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

OPERE COMPLETE: POEMI

Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

Villa Gloria (di Cesare Pascarella)

XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)

Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)

Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)

Poesie romanesche (di Antonio Camilli)

Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)

Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

Quo Vadis (di Nino Ilari)

Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)

 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Febbraio 2015 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
            1
2 3 4 5 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15
16 17 18 19 20 21 22
23 24 25 26 27 28  
 
 

Messaggi del 25/02/2015

La Secchia Rapita 05-1

Post n°1286 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO QUINTO

ARGOMENTO

È preso Castelfranco: e con auspici
poco fausti a Bologna il Nunzio giunto,
de' Bolognesi e de' paesi amici
vede marciar l'esercito congiunto,
che 'l dí seguente addosso a gl'inimici
giunge improviso e di battaglia in punto.
E 'l Potta anch'ei da l'espugnate mura
tragge e schiera il suo campo a la pianura.

        1
Già il termine prescritto era passato,
né la piazza Nasidio ancor rendea,
da contrasegni e lettere avisato
che l'esercito amico uscir dovea.
Il Potta, che si vide esser gabbato,
ne consultò col Re vendetta rea:
e l'alba era ancor dubbia e 'l cielo oscuro,
quando assaltò da cento parti il muro.

        2
Rimasero i Tedeschi e i Cremonesi,
che da Bosio Duara eran guidati,
e la cavalleria de' Modanesi
con loro insegne a la campagna armati.
Il Potta avea de' suoi gli animi accesi
con premi utili insieme ed onorati;
promettendo a colui ch'era di loro
primo a salir, due mila scudi d'oro.

        3
Mille n'avea al secondo, e cinquecento
promessi al terzo: onde correa a salire
e a far di suo valore esperimento
stimulando ciascun la forza e l'ire.
Ma l'inimico in cosí gran spavento
si difendea con disperato ardire,
sicuro omai di non trovar mercede
dopo l'error de la mancata fede.

        4
Pioggia cadea da le merlate mura
di saette e di pietre aspra e mortale:
ma con sembianza intrepida e sicura
movea l'assalitor machine e scale.
I mangani al ferir maggior paura
facean da lunge e irreparabil male,
ché subito ch'alcun scopriva il busto,
mastro Pasquin te l'imbroccava giusto.

        5
Non credo ch'Archimede a Siracusa
facesse di costui prove piú leste.
Fra gli altri colpi suoi nota la Musa,
ch'un certo Bastian da Sant'Oreste,
sbracato, lo schernía sí come s'usa,
mostrandogli le parti poco oneste:
ed egli tosto gli aggiustò un quadrello
nel foro a pel de l'ultimo budello.

        6
Rinforzossi tre volte il fiero assalto
sottentrando a vicenda ordini e schiere;
e giú nel fosso e su nel muro ad alto
morti infiniti si vedean cadere;
quando il fiero Ramberto ergendo in alto
una scala, di man trasse a l'alfiere
l'insegna, e 'n tanto i suoi con le balestre
disgombravano i merli e le finestre.

        7
Sandrin Pedoca e Battistin Panzetta
e Luca Ponticel gli furo appresso:
fu morto il Ponticel d'una saetta
ch'uscí di man di Berlinghier dal Gesso;
ma Ramberto salito in su la vetta
si trovò incontro il capitano istesso,
ch'armato d'una ronca era venuto
correndo in quella parte a dare aiuto.

        8
Tosto ch'ei può fermar tra' merli il piede
pianta l'insegna, e oppone il forte scudo
a Nasidio, che l'urta e che lo fiede
con la ronca a due man d'un colpo crudo.
L'aspra percossa ogni riparo eccede,
l'armi distrugge, e lascia il braccio ignudo
e ferito a Ramberto, e 'l cor ripieno
di furor e di rabbia e di veleno.

        9
A Nasidio s'avventa, e con le braccia
pria ne la gola, indi ne' fianchi il cigne;
Nasidio ratto anch'ei seco s'abbraccia,
lascia la ronca, e al paragon si strigne:
l'uno di qua, l'altro di là procaccia
d'atterrare il nemico e lo sospigne:
gli avviticchia le gambe e lo raggira,
or l'urta a destra, or a sinistra il tira.

        10
Grida Nasidio che 'l guerrier sia preso,
o quivi in braccio a lui di vita casso;
egli di rabbia e di furore acceso,
l'alza su 'l petto e tira in dietro il passo,
e su l'orlo del muro il tien sospeso,
indi si lancia a precipizio a basso:
Giesú chiama per aria in suo sussidio
il discendente del famoso Ovidio.

        11
Giú ne la fossa in loco assai profondo
giaceva a piè de l'assalite mura
una gran massa di pantano immondo
e di fracido stabbio e di bruttura:
quivi caddero entrambo, e andaro al fondo,
e d'abito mutati e di figura
tornar senz'altro danno a rivedere
l'almo splendor de le celesti sfere.

        12
E di nuovo correan per azzuffarsi,
come due verri d'ira e d'odio ardenti
corron ne la belletta ad affrontarsi
con dispettosi grifi e torti denti:
ma i soldati potteschi intorno sparsi
furon lor sopra a quel fier atto intenti,
e da le man del vincitore altero
trasser Nasidio vivo e prigioniero.

        13
Fu condotto Nasidio innanzi al Potta,
che lo fece castrar subitamente
per ricordanza de la fede rotta
e per esempio a la futura gente;
ed a la cima del gran naso a un'otta
con un filo d'acciar fatto rovente
gli fe' attaccare i testimoni freschi
de' mal sortiti suoi tiri furbeschi.

        14
La bandiera fra tanto era spiegata
che Ramberto al salir trasse con esso,
da Battistino e da Sandrin guardata,
e da molti altri che saliro appresso;
ma contesa in quel luogo era l'entrata
da l'inimico stuol sí folto e spesso,
che quivi si facea tutta la guerra,
né si potea calar giú ne la terra.

        15
Ed ecco in su la fossa al gran Voluce
improvisa apparir la Dea d'Amore
chiusa d'un nembo d'or, cinta di luce,
ed infiammargli a la battaglia il core;
preso gli mostra il miserabil duce,
e l'inimico stuol pien di terrore
tutto rivolto a la bandiera alzata,
e la vicina porta abbandonata.

        16
Al magnanimo cor basta sol questo,
e l'usato valor dentro raccende:
volge lo sguardo a' suoi soldati presto,
e seco il fior de' piú lodati prende:
corre a la porta, e ne' compagni è desto
emulo ardor ch'a gli animi s'apprende;
onde Folco, Attolino e Bagarotto
corrono anch'essi, e fanno a gli altri motto.

        17
Egli infiammato di feroce sdegno
sta su la soglia minacciando morte,
e con una bipenne il duro legno
percuote, e risonar fa l'alte porte;
mettono gli altri un ariete a segno,
e 'l sospingon con impeto sí forte,
che già l'imposte e le bandelle sono
tutte allentate, e ne rimbomba il suono.

        18
Quei pochi, ch'ivi in guardia eran fermati,
lanciano sassi e mettono puntelli,
e di paura afflitti e sconcacati
vanno mirando a questi buchi e a quelli;
ma dal fiero cozzar rotti e spezzati
già cadono le spranghe e i chiavistelli,
e Voluce da i gangheri a fracasso
getta la porta tutt'a un tempo a basso.

        19
Come al cader di quella sacra avviene,
ch'ad ogni cinque lustri apre il gran Padre,
quando la gente di lontan se 'n viene
a Roma a riverir l'antica madre;
che non giovan le sbarre e le catene
a trattener le peregrine squadre
ch'inondano a diluvio, e chi s'arresta
lo soffoga la turba e lo calpesta:

        20
tale al cader de le nemiche porte,
l'impetuosa turba inonda e passa;
e di pianto, d'orror, di sangue e morte
ogni cosa al passar confusa lassa:
il feroce e l'imbelle ad una sorte
cade, ogn'incontro il vincitor fracassa:
fugge il vinto e s'appiatta, o l'armi cede
e s'inginocchia a domandar mercede:

        21
ma non trova mercé né cortesia,
e in van s'inchina e in van la vita chiede:
Il Potta vuol che Castelfranco sia
esempio eterno a non mancar di fede.
furore ha luogo, ogni pietà s'oblía,
veggonsi in ogni parte incendi e prede:
e cade in poca cenere un Castello,
di cui non era in Lombardia il piú bello.

        22
E già su le ruine il vincitore
dal lungo faticar stanco sedea,
quand'ecco di lontan s'udí un romore
che rimbombar d'intorno il pian facea:
venía il campo nemico a gran furore,
che 'l periglio de' suoi già inteso avea:
ed era quel che la foresta e i lidi
fea risonar di trombe e corni e gridi.

        23
Musa, tu che cantasti i fatti egregi
del re de' topi e de le rane antiche,
sí che ne sono ancor fioriti i fregi
là per le piagge d'Elicona apriche,
tu dimmi i nomi e la possanza e i pregi
de le superbe nazion nemiche,
ch'uniron l'armi a danno ed a ruina
de la città de la salciccia fina.

        24
Poscia che gli apparecchi e la contesa
di Bologna la Fama intorno sparse,
trasse il desío di cosí degna impresa
quattordici città seco ad armarse.
Tremò l'Imperio e invigorí la Chiesa,
sentí l'Italia in freddo giel cangiarse;
e credo che 'l Soldan de' Mammalucchi
ne mandasse ragguaglio al re de' cucchi.

        25
Il Papa, ch'era padre e protettore
de la parte de' Guelfi e de la Chiesa,
avendo udito in Francia il gran romore
e la cagion di sí crudel contesa,
per aggiungere a' suoi fede e valore,
spedí subito nunzio a quell'impresa
da Vienna un suo domestico prelato
che monsignor Querenghi era nomato.

        26
Questi era in varie lingue uom principale
poeta singular tosco e latino,
grand'orator, filosofo morale,
e tutto a mente avea sant'Agostino:
ma il Papa non lo fece cardinale
ché 'n sospetto gli entrò di ghibellino
dopo ch'ei ritornò di nunziatura
e perdé la fatica e la ventura.

        27
Nocquegli ancora i' esser padovano
suddito d'Ezzelin, bench'innocente,
non volendo il Pontefice romano
aver fede ad alcun di quella gente:
ma certo ei fu prelato e cortigiano,
fra gli altri in quell'età molto eminente:
e da lo sprezzo d'uom sí saggio e prode
il Papa non ritrasse alcuna lode.

        28
Egli partí da Vienna in su le poste,
e nel passar de l'Alpi a un ponte rotto,
il perfido caval per certe coste
lasciò cadersi, e non gli fece motto:
anzi da discortese e bestia d'oste,
stava di sopra e monsignor di sotto,
onde la nunziatura indi levata
con mal augurio fu mezzo spallata.

        29
Quivi ei montò in lettiga, e seguitando
con una spalla fuor d'architettura,
giunse a punto a Bologna il giorno quando
l'esercito uscía fuora a la ventura:
si fe' porre il rocchetto, in arrivando,
da don Santi, e salí sopra le mura;
dove a l'uscir de la città le schiere
chinavano a' suoi piè lance e bandiere.

        30
Et egli con la man sovra i campioni
de l'amica assemblea, tutto cortese
trinciava certe benedizioni,
che pigliavano un miglio di paese.
Quando la gente vide quei crocioni,
subito le ginocchia in terra stese,
gridando: - Viva il Papa e Bonsignore,
e muora Federico Imperadore. -

        31
Ma perché la man destra avea fasciata
e gli benedicea con la mancina,
fu scritto al Papa ch'egli avea mandata
una persona marcia ghibellina.
Or basta, in ordinanza usciva armata
la gente; e prima fu la perugina,
tre mila, che mandati avea la Chiesa
col capitan Paulucci a quell'impresa.

        32
Questi di cortegian fatto soldato
disertò gli Ugonotti e i Calvinisti,
fe' vermiglia la Schelda, indi passato
in Francia guerreggiò co' Navarristi;
navigò nel Danubio; e al fin voltato
in occidente a piú sublimi acquisti,
fra i monti Pirenei passò in Ispagna,
e riportò per mar guanti d'Ocagna.

        33
L'armatura dorata e rilucente
con sopraveste avea cangiante e varia,
e camminava sí leggiadramente,
che parea ch'ei ballasse una canaria:
disperata guidava e altera gente,
che la fortuna amica e la contraria
egualmente disprezza, e si diletta
sol di sangue, di morte e di vendetta.

 
 
 

Il Meo Patacca 08-2

Post n°1285 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Dove a un gran foco è più adattato il posto,
Dove le strade non so' gnente strette;
Nè il vicinato a' danni è sottoposto,
S'uno spazio assai granne s'intramette,
Tre botti, e ritte e pare, stanno accosto,
E un'altra, ritta pur, su ce se mette;
Acciò la fiamma sbarlanzà se pozzi,
Ne i larghi se ne fan più montarozzi.

In te le piazze, in pubrico ridotto,
In piccolo una cosa somigliante,
I regazzi, giocanno in sette o in otto,
Fan coll'ossi di persiche all'istante:
Tre di questi li mettono de sotto,
E un'altro sopra, e 'l popolo birbante,
Pe' conformarzi coll'antichi detti,
Lo ciama el gioco delli castelletti.

Una botte a più botti sopraposta.
Non è sforgio da tutti, e a parlà ciaro,
Chalche cosetta 'sta faccenna costa,
Nè ponno molti spenne 'sto denaro.
Però chi giù le spiana, e chi l'imposta,
Chi tre, chi quattro, chi ne mette un paro;
Brusciano l'artiggiani poverelli
Barili, barilozzi, e caratelli.

La festa principal, che dà la mossa
All'altre feste focareccie è quella,
Ch'ordinò la Città, che ha già commossa
Furia di gente, per annà a vedella.
Spunta piccolo foco, e poi s'ingrossa,
E fa na spampanata, che è assai bella;
È cosa vecchia in Roma, et ha gran fama
Per tutto, e la Girandola si ciama.

Ma perchè fatte han da vederzi prima
L'altre comparze, non conviè che ancora
Parli di questa, che fratanto in cima
Lasso del loco, in dove si lavora.
Pronta mò mò ritornerà la rima
A dir se come è fatta; ma per hora
Seguita a racconta co' i su' strambotti,
Il negozio dei lumi e delle botti.

Già s'è appicciato tutto l'appicciabbile,
E cominza una festa assai plausibbile,
L'illuminà, par cosa impraticabbile,
La Città tutta, e pur quest'è visibbile.
Ecco una luccicata memorabbile,
Che più d'un ciaro dì fatta è godibbile,
L'istesso sol ce se potrìa confonnere,
E però con raggion, s'annò a rasconnere.

È gustoso il vedè per aria alzarsi
El foco delle botti, allor che sbocca
Dalla parte di sopra, e assai slargarzi,
Nell'uscir dal recinto della bocca.
Si spanne, e folto poi va ad aguzzarzi
Quanto più sù, di svolicchià gli tocca,
Di fiamme il gruppo un monticel somiglia,
Che largo è abbasso, e in cima s'ossottiglia.

Mentre le botti son mezz'abbrusciate,
E da una parte cascareccie stanno,
Con un diluvio di saioccolate,
Vanno i regazzi a tozzolarle vanno.
Accompagnano a rocci le fischiate,
E danno gusto alla brigata danno,
E di saioccolarle mai non lasciano,
Sin che giù non traccollano, e si sfasciano.

O allora sì, che strillazzà si sente,
Sguazzanno in tel baccano la plebbaglia;
Chi gira intorno, e chi assai più valente
Verzo il foco con impeto si scaglia;
Zompa da parte a parte, e francamente,
Poi ritorna, e rizompa, e mai non sbaglia,
Perchè 'ste prove molto ben sa falle,
De salta su le fiamme, e non toccalle.

Ma poi c'è chalched'uno un po' marmotto,
Che pretenne mostrà la su' bravura;
Benchè habbia 'na vitaccia da fagotto,
Pur s'arrisica a fa' 'sta zompatura.
Si vede a mal partito poi ridotto,
Perchè slarganno el passo, la misura
Giusta non piglia, e libero non scampa
Dal foco, e ci urta almen con una zampa.

Di questo alla fangosa, ecco s'attacca
Il tritume del foco, e in fuggir via,
Colui, col piede stesso assai n'acciacca,
E più apparisce la su' goffarìa.
Resce alla fine, i piedi sbatte, e stacca
I carboncelli accesi, e partirìa
Pe' vergogna; ma resta, perchè vede,
Che l'istesso a molt'altri ancor succede.

Quanto più ponno li regazzi fischiano
Allora quanno 'sti gaglioffi ammascano,
Che zompà gnente sanno, e pur s'arrischiano
Et a farzi sbeffà gonzi ce cascano.
Fanno come i merlotti, che s'invischiano;
I bravi et i poltroni allor s'infrascano,
Prauso a quelli si fa, che ci riescono,
Contro chi sbaglia, le fischiate crescono.

Poi si da 'l sacco ai già cascati avanzi,
Et ecco nova buglia in campo scappa;
Chi verzo el foco va, chi curre innanzi,
Chi rubba i cerchi, e chi le doghe aggrappa.
Currono in furia e fan ch'ogn'un si scanzi,
Perchè, s'a urtarli chalched'uno incappa,
Nel moto, il foco piglia vento e intanto
Può sul grugno schizzà di chi gl'è accanto.

Parte al fine 'sta gente rompicolla,
E cert'altra ne viè, ma adascia adascia,
S'accosta allora, che non c'è più folla,
Cercanno l'util suo, che non è pascia.
Quella de zompi solo si satolla,
Ma questa poi se porta via la brascia
E n'impe un scallaletto o una padella,
La smorza in casa, e ne fa carbonella.

L'abbruscio delle botti, ecco è fornito,
Et ecco tutto il popolo rivolto
A uno spasso maggior, ch'è già ammannito:
Ch'è più sfavante assai, che piace molto.
Si fa nell'Alto, e assai famoso è 'l sito,
Fu quì Adriano Imperator sepolto,
E da lui prese il nome, e poi bel bello
Lo perze, oggi ciamannose Castello.

Di Fortezza real, giusto ha la foggia,
Sta in mezzo il Maschio, ch'è massiccio e tonno,
C'è in cima, in faccia al popolo una loggia,
In dove più perzone star ci ponno;
La soldatesca nei terrazzi alloggia,
Giù abbasso, e assai casuppole ce sonno,
E c'è loco scuperto, e cuperchiato
Più d'un cortile, e c'è insinenta un prato.

'Sto spazio così granne, viè rinchiuso
Da ben terrapienati muraglioni.
Le case matte pur ci son, per uso
Di chi sta in sentinella nei cantoni.
Aggiustati a i lor posti, e sotto e suso,
Stanno le colombrine et i cannoni,
Sventolicchiano in alto li stennardi",
C'è il ponte levatoro, e i baloardi.

Di lanternoni in giro, il Maschio è pieno,
Ha la loggia di torcie il su' filaro,
E con questo gran lume in ciel sereno
Par che voglian le stelle, annar del paro.
Piantati i mortaletti in sul terreno,
Ch'è drento, già cominzano lo sparo;
Fan botte, a darne giusto il paragone,
Più d'un moschetto, e meno d'un cannone.

Fatto di bronzo o ferro è il mortaletto,
Grosso, corto, assai greve, e materiale,
E voto in mezzo, e come un boccaletto,
Ma senza panza, è da per tutto uguale;
Verzo il fonno da fianco c'è un buscietto,
E de fora, el su' manico badiale;
Questo puro è massiccio e grossolano,
E largo è quanto ce può entra una mano.

Così facil si renne a maneggiallo,
Ritto si posa in terra, e ci vuò doppo
Un che pratico sia pe' caricallo,
Che faccenna non è da falla un pioppo;
Di polvere si rimpe, e bigna fallo,
Perchè più strepitoso sia Io schioppo;
A forza di mazzate, e con gran stento,
Di legno un tappo se gli caccia drento.

Di questi già, fatta se n'è una spasa
Nel prato, e accanto al buscio piccinino,
Dove asciucca è la terra, e d'erba è rasa,
Di polvere si mette un montoncino;
Quanno è 'l tempo, e la gente esce de casa,
Pe' fa' verzo Castello el suo camino,
Col miccio in su una canna, come è l'uso,
Dà foco il bombardiero, e volta il muso.

Et ecco 'sta sparata fa la spia,
Ch'hora mai poco è 'l tempo, che ce resta,
E che ogni cosa in ordine già stia,
Pe' fa' della Girannola la festa;
Ecco si spara allor l'artigliarìa,
Ecco de prescia el selcio si calpesta
Dal popolo, ch'il loco a piglià viene,
Dove 'ste cose pò vedè più bene.

Strade, piazze, finestre, e loggie, e tetti
Son già rempite d'affollate genti;
Dove c'è più bel posto, e folti e stretti
Molti da molti son urtati e spenti:
Perchè poi senza tedio ogn'uno aspetti,
Si fa 'na sorte di trattenimenti,
Che se pò mette tra le cose belle,
Et è lo sparo delle pignattelle.

Di queste, ogn'una ha forma d'una palla,
Di canavaccio assai calcata, e dura,
Drento si mette prima d'inserralla,
Di polvere e di solfo una mistura.
C'è uno stuppino poi, per appiccialla,
Che quanno bruscia un bel pezzetto dura;
Ma foco ancor non se glie dà, che prima
Metterla bigna, a un certo coso in cima.

Sparata in man, farìa de' brutti scrizzi,
E però allor propio nisciun la tocca,
Ma perchè da sè stessa il volo addrizzi,
Sta d'un canal di bronzo in su la bocca.
Acciò in aria con impeto poi schizzi,
De sotto ha un mortaletto che la scocca,
In quel canale c'è una porticella
Giù abbasso, e il mortaletto entra per quella.

Ha quest'ordegno nome di Mortaro,
Bench'à un mezzo cannon sia somigliante;
Sta in su voltato, acciò in tel fa' lo sparo
Dritta la palla sbigni via frullante.
Se ne smaltisce un mezzo centinaro,
Una in tempo dall'altra un pò distante;
Allo stuppin de sopra, in primo loco,
Poi sotto, al mortaletto, si dà foco.

Sbalza questo la palla, e giusto quanno
Schizza lei dal mortaro, fa una botta
Forzi più d'un moschetto, e in su volanno,
Striscia di foco fa, gnente interrotta;
Va in alto assai, poi giù precipitanno
Torna, e appunto com'un quanno borbotta,
Fa uno strepito fa sommesso e roco,
Che cresce più, quanto più cala il foco.

Se nel cascà a drittura, a caso piomba
Su chalche tettarello, lo sfragassa,
S'è debbole, perchè pesa che spiomba,
E talvolta il soffitto ancor trapassa;
Pe' le stanze lo strepito ribomba,
E quel male che pò, di far non lassa;
Chi ci abbita, assai granne ha la paura,
E se c'è danno rimedià procura.

Mentre che su le loggie si racconta,
Qual casa habbia patita la burrasca,
Un'altra pignattella ecco s'affronta,
Che sopra il ciel d'una carrozza casca.
Chi c'è drento, in un attimo giù smonta,
Ch'a restà fermo lì, non gli ricasca;
Il caso è vero che si manna in zurla,
Ma in realtà non è cosa da burla.

E puro strilli, e schiamazzate a josa
Si sentono, e fischiate a 'ste perzone,
Ma si fa buglia più ridicolosa,
Se casca tra le femmine pedone:
Allor sì, che si spazza la calcosa,
Chi strepita, chi fugge, in un portone
Chi si salva, chi drento a 'na bottega,
Chi per entracce il bottegaro prega.

È cosa a fè da strabilià, che spesso
Al popolo, che quanno fa del chiasso,
Gli pare giusto di sguazzà, l'istesso
Suo pericolo ancor serve di spasso;
Accosì propio gli succede adesso,
Che non sa dove assicuràne il passo
Pe' scampa da 'sto foco in aria mosso,
Pur vuò sciala col precipizio addosso.

Nova striscia fra tanto in alto s'alza
D'un'altra pignattella, che de botto
Casca in tel fiume, e sopra l'acque sbalza,
E poi pel peso ch'ha, va un pezzo sotto;
Per la forza del foco si rialza,
E allor sul ponte in quantità ridotto
El popolo a vedè sta con diletto,
Su l'acque, arder il foco un bel pezzetto.

 
 
 

Il Trecentonovelle 31-33

Post n°1284 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA  XXXI

Due ambasciadori di Casentino sono mandati al vescovo Guido d'Arezzo; dimenticano ciò che è stato commesso, e quello che 'l vescovo dice loro, e come tornati hanno grande onore per aver ben fatto.

Se lo passato ambasciadore ampliava il suo dire, o la sua rettorica per bere il vino, in questa mostrerrò come due ambasciadori per lo bere d'un buon vino, come che non fossono di gran memoria, ma quella cotanta che aveano quasi perderono.
Quando il vescovo Guido signoreggiava Arezzo, si creò per li Comuni di Casentino due ambasciadori, per mandare a lui addomandando certe cose. Ed essendo fatta loro la commessione di quello che aveano a narrare, una sera al tardi ebbono il comandamento di essere mossi la mattina. Di che tornati la sera a casa loro, acconciarono loro bisacce, e la mattina si mossono per andare al loro viaggio imposto. Ed essendo camminati parecchie miglia, disse l'uno all'altro:
- Hai tu a mente la commessione che ci fu fatta?
Rispose l'altro che non gliene ricordava.
Disse l'altro:
- O io stava a tua fidanza.
E quelli rispose:
- E io stava alla tua.
L'un guata l'altro, dicendo:
- Noi abbiàn pur ben fatto! O come faremo?
Dice l'uno:
- Or ecco, noi saremo tosto a desinare all'albergo, e là ci ristrigneremo insieme, non potrà essere che non ci torni la memoria.
Disse l'altro:
- Ben di' -; e cavalcando e trasognando pervennono a terza all'albergo dove doveano desinare, e pensando e ripensando, insino che furono per andare a tavola, giammai non se ne poterono ricordare.
Andati a desinare, essendo a mensa, fu dato loro d'uno finissimo vino. Gli ambasciadori, a cui piacea piú il vino che avere tenuta a mente la commessione, si comincia ad attaccare al vetro; e béi e ribei, cionca e ricionca, quando ebbono desinato, non che si ricordassino della loro ambasciata ma e' non sapeano dove si fossono, e andarono a dormire. Dormito che ebbono una pezza, si destaron tutti intronati. Disse l'uno all'altro:
- Ricorditi tu ancora del fatto nostro?
Disse l'altro:
- Non so io; a me ricorda che 'l vino dell'oste è il migliore vino che io beessi mai; e poi ch'io desinai, non mi sono mai risentito, se non ora; e ora appena so dove io mi sia.
Disse l'altro:
- Altrettale te la dico; ben, come faremo? che diremo?
Brievemente disse l'uno:
- Stiànci qui tutto dí oggi; e istanotte (ché sai che la notte assottiglia il pensiero) non potrà essere che non ce ne ricordi.
E accordaronsi a questo; e ivi stettono tutto quel giorno, ritrovandosi spesso co' loro pensieri nella Torre a Vinacciano. La sera essendo a cena e adoperandosi piú il vetro che 'l legname, cenato che ebbono, appena intendea l'uno l'altro. Andaronsi al letto, e tutta notte russorono come porci. La mattina levatisi, disse l'uno:
- Che faremo?
Rispose l'altro:
- Mal che Dio ci dia, ché poi che istanotte non m'è ricordato d'alcuna cosa, non penso me ne ricordi mai.
Disse l'altro:
- Alle guagnele, che noi bene stiamo, che io non so quello che si sia, o se fosse quel vino, o altro, che mai non dormi' cosí fiso, sanza potermi mai destare, come io ho dormito istanotte in questo albergo.
- Che diavol vuol dir questo? - disse l'altro. -
Saliamo a cavallo, e andiamo con Dio; forse tra via pur ce ne ricorderemo.
E cosí si partirono, dicendo per la via spesso l'uno all'altro:
- Ricorditi tu?
E l'altro dice:
- No, io.
- Né io.
Giunsono a questo modo in Arezzo, e andorono all'albergo; dove spesso tirandosi da parte, con le mani alle gote, in una camera, non poterono mai ricordarsene. Dice l'uno, quasi alla disperata:
- Andiamo, Dio ci aiuti.
Dice l'altro:
- O che diremo, che non sappiamo che?
Rispose quelli:
- Qui non dee rimanere la cosa.
Misonsi alla ventura, e andorono al vescovo; e giugnendo dove era, feciono la reverenzia, e in quella si stavano senza venire ad altro. Il vescovo, come uomo che era da molto, si levò e andò verso costoro, e pigliandoli per la mano, disse:
- Voi siate li ben venuti, figliuoli miei; che novelle avete voi?
L'uno guata l'altro:
- Di' tu.
- Di' tu.
E nessuno dicea. Alla fine disse l'uno:
- Messer lo vescovo, noi siamo mandati ambasciadori dinanzi alla vostra signoria da quelli vostri servidori di Casentino, ed eglino che ci mandano, e noi che siamo mandati, siamo uomeni assai materiali; e ci feciono la commessione da sera in fretta; come che la cosa sia, o e' non ce la seppono dire, o noi non l'abbiamo saputa intendere. Preghianvi teneramente che quelli Comuni e uomeni vi siano raccomandati, che morti siano egli a ghiadi che ci mandorono, e noi che ci venimmo.
Il vescovo saggio mise loro la mano in su le spalle, e disse:
- Or andate, e dite a quelli miei figliuoli, che ogni cosa che mi sia possibile nel loro bene, sempre intendo di fare. E perché da quinci innanzi non si diano spesa in mandare ambasciadori, ognora che vogliono alcuna cosa, mi scrivino, e io per lettera risponderò loro.
E cosí pigliando commiato, si partirono.
Ed essendo nel cammino, disse l'uno all'altro:
- Guardiamo che e' non c'intervenga al tornare, come all'andare.
Disse l'altro:
- O che abbiamo noi a tenere a mente?
Disse l'altro:
- E però si vuol pensare, però che noi averemo a dire quello che noi esponemmo, e quello che ci fu risposto. Però che s'e' nostri di Casentino sapessono come dimenticammo la loro commessione, e tornassimo dinanzi da loro come smemorati, non che ci mandassono mai per ambasciadori, ma mai offizio non ci darebbono.
Disse l'altro, che era piú malizioso:
- Lascia questo pensiero a me. Io dirò che sposto che avemo l'ambasciata dinanzi al vescovo, che egli graziosamente in tutto e per tutto s'offerse essere sempre presto a ogni loro bene, e per maggiore amore disse che per meno spesa ogni volta che avessono bisogno di lui, per loro pace e riposo scrivessero una semplice lettera, e lasciassono stare le 'mbasciate.
Disse l'altro:
- Tu hai ben pensato; cavalchiamo pur forte, che giunghiamo a buon'ora al vino che tu sai.
E cosí spronando, giunsono all'albergo, e giunto un fante loro alla staffa, non domandorono dell'oste, né come avea da desinare, ma alla prima parola domandorono quello che era di quel vino.
Disse il fante:
- Migliore che mai.
E quivi s'armorono la seconda volta non meno della prima, e innanzi che si partissono, però che molti muscioni erano del paese tratti, il vino venne al basso, e levossi la botte. Gli ambasciadori dolenti di ciò la levorono anco ellino, e giunsono a chi gli avea mandati, tenendo meglio a mente la bugia che aveano composta che non feciono la verità di prima, dicendo che dinanzi al vescovo aveano fatto cosí bella aringhiera, e dando ad intendere che l'uno fosse stato Tulio e l'altro Quintiliano, e' furono molto commendati, e da indi innanzi ebbono molti officii, che le piú volte erano o sindachi, o massai.
Oh quanto interviene spesso, e non pur de' pari di questi omicciatti, ma de' molto maggiori di loro, che sono tutto dí mandati per ambasciadori, che delle cose che avvengono hanno a fare quello che 'l Soldano in Francia; e scrivono e dicono che per dí e per notte mai non hanno posato, ma sempre con grande sollecitudine hanno adoperato, e tutta è stata loro fattura; che attagliono e intervengono, ed eglino seranno molte volte con quel sentimento che un ceppo; e fiano commendati da chi gli ha mandati, e premiati con grandissimi officii e con altri guiderdoni perché li piú si partono dal vero e spezialmente quando per essere loro creduto se ne veggiono seguire vantaggio.


NOVELLA XXXII

Uno frate predicatore in una terra toscana, di quaresima predicando, veggendo che a lui udire non andava persona, truova modo con dire che mostrerrà che l'usura non è peccato, che fa concorrere molta gente a lui e abbandonare gli altri.

Meglio seppe comporre una sua favola uno frate, del quale parlerò in questo capitolo, che non seppono comporre la loro gli ambasciadori di Casentino. Però che in una terra delle grandi di Toscana, predicandosi nel tempo di quaresima, come è d'usanza, in piú luoghi, uno frate predicatore veggendo che agli altri che predicavono, come spesso interviene, andava molta gente, e a lui quasi non andava persona, disse uno mercoledí mattina in pergamo:
- Signori, egli è buona pezza che io ho veduto tutti gli teologhi e predicatori in un grande errore; e questo è ch'egli hanno predicato che 'l prestare sia usura e grandissimo peccato, e che tutti i prestatori vanno a dannazione. E io per quello che io posso comprendere, e che io ho trovato, ho veduto che 'l prestare non è peccato. E acciò che voi non crediate che io dica da beffe, o che io faccia stremi argomenti di loica, io vi dico ch'egli è tutto il contrario di questo, ch'egli hanno sempre predicato. E perché non crediate che io dica favole, perché la materia è grande, se io averò il tempo, io ne predicherò domenica mattina; e se io non avesse il tempo, un altro dí che mi venga a taglio, sí che ne anderete contenti, e fuori d'ogni errore.
La gente udendo questo, chi mormora di qua, e chi borboglia di là. Finita la predica, escono della chiesa; la boce va qua e là; ciascuno pensa: "Che vuol dire questo?" Gli prestatori stanno lieti, e gli accattatori tristi; e tale non avea prestato, che comincia a prestare. Chi dice: "Costui dee essere un valentissimo uomo"; e chi dice che dee essere una pecora; questo non si disse mai piú.
E in brieve tutta la terra aspettava la domenica mattina, la quale, venuta che fu, come li popoli son sempre vaghi di cose nuove, tutti corsono a pigliare luogo, e gli altri predicatori poterono predicare alle panche. Costui avea prima gli uditori sí radi che dall'uno all'altro avea parecchie braccia; ora v'erano sí stretti che affogava l'un l'altro; e questo era quello che elli avea desiderato. Giugnendo il frate in pergamo, e detta l'Avemaria, per non guastare la sua predicazione, propuose sopra l'Evangelio, e disse:
- Io dirò prima certe cose morali; poi dirò la storia dell'Evangelio; e ultimamente alcune parti a nostro ammaestramento, come la materia richiede, e dopo questo dirò dell'usura, come io vi promisi di dire.
E predicando per grande spazio questo valentre frate, mise gran tempo su le parti dell'Evangelio; e venendo a quella dell'usura, era molto tarda l'ora, però che era passata terza, e ciò avea fatto in prova per tranquillare la gente. Di che disse:
- Signori, questo Evangelio mi ha ingannato in questa mattina, però che egli è di grande sustanzia, e la midolla sua è profonda, come avete udito, e sono per questo sí trascorso oltre che in questa mattina non avrei tempo di dire quello che io v'ho promesso; ma abbiate pazienzia, ché in queste mattine che verranno non serà sí lungo il predicare; e quando mi vedrò il tempo, io ve ne predicherò, che mi pare mill'anni, per trarvi di questo errore.
E cosí gli pasceo d'oggi in domane insino all'altra domenica, nella quale concorse maggior populo che prima. Essendo salito in pergamo e avendo predicato, disse:
- Signori, io so che la cagione che tanta moltitudine è qui è solo per udire quello che piú volte v'ho detto, cioè del prestare. Di che io mi vi scuso, ché io sono stato un poco riscaldato di febbre; e pertanto m'abbiate stamane per iscusato; ma il tal dí venite, e se Dio mi farà grazia, ve ne predicherò.
E ora facendo una scusa, e ora un'altra, tutta Quaresima fece venire gente a sé, tenendoli sospesi insino a domenica d'olivo. Allora disse:
- Io vi ho promesso tante volte di dire la tal cosa che io non voglio trapassare questa mattina che io non vi dica ciò che io v'ho promesso. Voi sapete, signori, che la carità è accetta a Dio, quanta altra virtú che sia, o piú. E la carità non è altro che sovvenire al prossimo, e 'l prestare è sovvenimento; adunque, dico che 'l prestare si può fare, e ch'egli è licito; e ancora piú, che chi presta, merita. Ma dove sta il peccato, e dove è? Il peccato è nel riscuotere; e però il prestare, e non riscuotere, non che sia peccato, ma egli è grandissima mercè, ed essere accetto a Dio. E ancora dico piú che 'l riscuotere si può fare con modo, che non che sia peccato, ma è grandissima carità. Verbigrazia, uno presta a un altro fiorini cento, riscuote a certo dí li fiorini cento, e non piú; questo prestare e questo riscuotere è licito, e molto piace a Dio, e ancora piacerebbe piú, se per via d'amore o di carità non si riscotessono, ma liberamente si lasciassono al debitore. Sicché avete che l'usura sta nel riscuotere piú che la vera sorta, però che 'l peccato nel tenimento non sta ne' fiorini cento, ma sta in quello che si dà piú che la vera sorta; e questa piccola quantità fa perdere tutta la carità che serebbe ne' fiorini cento, e ancora il servigio e bene che averebbe fatto al buon uomo che gli accattoe, e torna in cosa inlicita e di restituzione. E però conchiudendo, fratelli miei, io vi dico e affermo che 'l prestare non è peccato, ma il gran peccato è il riscuotere oltre la vera sorta; e con questo ve ne andate, e gagliardamente prestate, ché sicuramente potete prestare per lo modo che ho predicato; e guardatevi di riscuotere, e cosí facendo serete figliuoli del vostro padre, qui in coelis est.
E fece la confessione, la quale non fu né intesa né udita per lo grande mormorío e bisbigliare che vi era; e chi facea grandissime risa, dicendo:
- Questi ce n'ha ben fatto una, e tutta quaresima ci siamo venuti per udire questa predica, e istamane ci venimmo che non era dí. Deh morto sie egli a ghiado, che dee essere uno ciurmatore.
Chi stiamazza di qua e chi di là, piú giorni per la terra non si disse altro. Questo frate poté essere uno valentre uomo, però che egli avea mostrato, o voluto mostrare al populo, quanto era leggiero, e che correano piú tosto alle frasche e alle cose nuove che a quelle della Santa Scrittura; e ancora andavano volentieri a udire chi dicesse cose secondo gli appetiti loro.
Corse a questa predica prestatori, e chi avea voglia di prestare; e questi rimasono scherniti come meritavano; come ch'egli hanno preso tanto del campo che da loro hanno fatto un concetto, che Dio non veggia e non intenda, e hanno battezzata l'usura in diversi nomi, come dono di tempo, merito, interesso, cambio, civanza, baroccolo, ritrangola e molti altri nomi: le quali cose sono grandissimo errore, però che l'usura sta nell'opera e non nel nome.


NOVELLA XXXIII

Lo vescovo Marino scomunica messer Dolcibene, e ricomunicandolo poi, dando della mazzuola troppo forte, messer Dolcibene si leva, e cacciandolsi sotto, gli dà di molte busse.

Come il frate predicatore nella passata novella fece scherne di un gran populo, cosí in questa parve che messer Dolcibene volesse fare la vendetta contra un vescovo.
Essendo adunque costui arrivato in una terra de' Malatesti in Romagna, uno vescovo Marino, o per eccesso commesso per lui, o per averne diletto, l'avea scomunicato o fatto vista. E di ciò avendone piú di que' signori gran diletto, questo vescovo, non volendolo ricomunicare, il tenea accannato, ed elli avea gran bisogno di ritornare a Firenze, e cercava la ricomunica. Avvenne che alcuno de' signori, come aveano ordinato, li disse:
- Io ho tanto fatto col vescovo che ti ricomunicherà; fa' che tu sia domattina nella cotal chiesa, ed elli farà verso te quello che fia da fare.
Ed elli disse di farlo.
E 'l signore, che avea ordinato che 'l vescovo gli desse che gli dolesse, andò anco là la mattina, e non parea suo fatto, standosi nel coro. E messer Dolcibene giunse nel detto luogo per accozzarsi con lui. E in quell'ora era entrato il vescovo in una cappella, e aspettava che l'amico andasse a lui, e 'l signore disse a messer Dolcibene:
- Il vescovo è là: va', spàcciati.
Ed elli cosí andò; e giunto che fu nel luogo dinanzi dal vescovo, ponendosi inginocchione; e 'l vescovo, che avea un buono camato in mano, fatta che gli ebbe la confessione sopra il capo, disse:
- Di', Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam.
E quelli dicendolo piú volte, come si fa; e 'l vescovo menando la bacchetta che parea che facesse una sua vendetta; come dice: "Di', Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam "; e mena la mazza; e messer Dolcibene si leva, e pigliando il vescovo, e dicendo a un tratto: "Et secundum magnam multitudinem pugnorum "; e darli, e cacciarselo sotto, fu tutt'uno.
E quando gli ha dato quanto volle, corre nel grembo del signore, che era presso, e tutto avea veduto. La famiglia del vescovo correndogli drieto per pigliarlo, il signore mostrandosi turbato disse:
- Menatelo a casa mia, ché questa punizione voglio fare io.
E questo disse per consolare il vescovo e levarlo dalle sua mani. Mandatone messer Dolcibene preso, e 'l signore si accostò al vescovo, dicendo:
- Come sta questa cosa?
E 'l vescovo rispose:
- Per Corpus Christi, quod cacavit eum Sathana.
E cosí forbottato il vescovo si tornò al vescovado, e messer Dolcibene stette rimbucato piú dí. E in fine il signore diede ad intendere al vescovo che gli avea fatto dare tanta colla che forse mai non serebbe sano delle braccia; e feceli mettere uno sciugatoio al collo, e allenzare il braccio; e 'l vescovo per questo parea tutto aumiliato. E forse in capo d'otto dí messer Dolcibene, avvisandone il signore, e dovendo dire il vescovo una messa piana, essendo alla chiesa il signore da parte, andò alla detta messa quasi in sul celebrare, e fattosi innanzi quanto poteo, prendendo il vescovo il corpo di Cristo, e messer Dolcibene esce:
- Né mica disse istamane cotestui il paternostro di san Giuliano.
Il vescovo, sentendo questo diavolo ivi, e udendo il motto, avendo il calice nelle mani, gli venne sí fatte risa, che fu presso che 'l calice non gli cadde di mano. E detta la messa, che già messer Dolcibene s'era partito col signore, gli perdonò quella medesima mattina, e fu poi sí grande suo amico che appena il vescovo sapea vivere sanza lui. E 'l signore vidde andare questo fatto come egli avea voglia, e rimase contento.
E cosí una pensa il ghiotto, un'altra il tavernaio. Il vescovo s'avvisò di mazzicare, e non fece ragione d'essere ingoffato, come avete udito. E forse, perché fosse vescovo, avea bisogno di disciplina, come messer Dolcibene. E non si dee ancora, né da beffa, né da dovero, aspreggiare uno peccatore, quando viene a contrizione, però che nelle cose sacre non si vuole scherzare; ché per menare la bacchetta oltre al debito modo, n'acquistò un bene gli sta che mai non gli venne meno.

 
 
 

La Secchia Rapita 04-2

Post n°1283 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

        35
Spiccasi al fine, e là dove difende
il nemico l'uscita, entrar procaccia:
la testa a Furio da la Coccia fende
e nel ventre a Vivian la spada caccia:
il primo avea il cervel fuor di calende
e l'altro era un fanton lungo sei braccia,
l'un nemicizia avea col sol d'agosto
e l'altro rincaría le calde arrosto.

        36
Ferí dopo costor, con vario evento,
due Gemignani, l'Erri e 'l Baciliero:
ne l'umbilico l'un subito spento
cadè, tocco d'un colpo assai leggiero:
l'altro, ch'un'ernia avea piena di vento
né potea camminar senza 'l braghiero,
ferito d'una punta in quella parte,
esalò il vento e si sanò contr'arte.

        37
Giunto alfin dove l'ultima bandiera
Forcierolo Alberghetti avea fermata,
come che cinta sia di gente fiera
la sforza, e quindi a' suoi trova l'entrata;
né s'accorge che lascia la sua schiera
tra i nemici rinchiusa e abbandonata.
In tanto il conte avea di San Donnino
sentito il fiero suon del mattutino.

        38
Questi era de' Reggiani il generale,
grande di Febo e di Bellona amico,
e stava componendo un madrigale
quand'arrivò l'esercito nemico.
Reggio non ebbe mai suggetto eguale
o nel tempo moderno o ne l'antico,
né di lui piú stimato in pace e 'n guerra;
ed era consiglier di Salinguerra.

        39
Di Salinguerra il poderoso dico
che tenne già Ferrara e Francolino,
fin che fu poi dal Papa suo nemico
sospinto fuor del nobile domíno,
e tornò a ripigliar lo scettro antico
il seme del superbo Aldobrandino:
Si trova in somma scritto in varie carte,
che 'l conte era grand'uomo in ogni parte.

        40
Tosto ch'ode il romor, chiede da bere
a Livio suo scudiero e l'armi chiede;
e beve in fretta, e poi volge il bicchiere
sopra la sottocoppa in su col piede:
s'adatta i braccialetti e le gambiere;
s'affaccia a la finestra; e guarda e vede
a quel romor, senza notizia averne,
saltar di casa ognun con le lanterne.

        41
Già avea l'usbergo, e subito s'allaccia
l'elmo con piume candide di struzzo;
cigne la spada e 'l forte scudo imbraccia,
e monta sopra un nobile andaluzzo.
Gli portava dinanzi una rondaccia
e una balestra il sordo Malaguzzo,
era stizzato e gli sapeva male
di non aver finito il madrigale.

        42
Giunto a la porta e udito il gran fracasso
montò subitamente in su le mura,
e mirò intorno e vide giú nel basso
d'armi coperto il ponte e la pianura,
vide i nemici aver serrato il passo
e de' soldati suoi l'aspra ventura,
onde pieno d'angoscia e di dispetto
sospirò forte e si percosse il petto.

        43
E quivi a canto a lui fatti passare
due mila balestrier ch'in campo avea,
cominciò l'inimico a saettare
che cacciarlo di luogo ei si credea.
Come suol rifuggir l'onda e tornare
fremendo nel furor de la marea,
cosí fremea ondeggiando e i forti scudi
opponea l'inimico a i colpi crudi.

        44
Ma non partiva e non mutava loco:
e 'n tanto l'alba uscía de l'oriente,
le cui guancie di rose al sol di foco
mirando il ciel ne divenia lucente.
Gherardo rinfrescò la gente un poco
mutandola a' quartieri, e al dí nascente
dal fosso a basso e da la rocca d'alto
diede principio a un furibondo assalto.

        45
De la rocca Bertoldo ebbe l'assunto;
Giberto a manca man, Gherardo a destra.
Vedesi il conte a mal partito giunto,
ch'eran finiti il pane e la minestra:
pur mise anch'egli i suoi soldati in punto,
e Bertoldo dicea da una finestra:
- Ah! Reggianelli, gente da dozzina,
l'unghie vi resteran ne la rapina. -

        46
Dove la rocca giú nel pian scendea,
de la piazza era il conte a la difesa:
e sbarrato di travi il passo avea,
facendo quivi i suoi nobil contesa.
Gherardo a destra man forte stringea,
Giberto facea machine da offesa,
mangani e scale, e empía con sorda guerra
la fossa in tanto di fascine e terra.

        47
Durò il crudele assalto infino a nona,
sin che stancârsi e intiepidiron l'ire.
Il saggio conte i suoi non abbandona;
ma non avea che dargli a digerire.
Ne la rocca serrata avean l'annona
i terrazzani al primo suo apparire,
e tanti denti in su l'entrar di botto
distrusser ciò che v'era e crudo e cotto.

        48
Cerca di qua, cerca di là, né trova
cosa da farvi un minimo disegno:
sbadiglian tutti e fan crocette a prova,
e l'appetito lor cresce lo sdegno.
Fatta avean quivi una chiesetta nova
certi frati di quei dal piè di legno:
il conte al guardian chiese rimedio
per liberarsi dal crudele assedio.

        49
Cominciò il frate a dir che Dio adirato
volea il popol reggiano or gastigare:
il conte ch'era mezzo disperato
- Padre, dicea, non stato a predicare,
ma cercate rimedio al nostre stato,
ch'è notte e non abbiam di che cenare:
fateci uscir di queste mura in pace,
e predicate poi quanto vi piace. -

        50
Il frate uscí a trattar subito fuora,
e ritornò con l'ultima risposta:
che se i Reggiani andar voleano allora,
lasciasser l'armi e andassero a lor posta.
Alcuni non volean piú far dimora,
ma gli altri si ridean de la proposta,
e dicean che con l'armi era da uscire,
o da pugnar con l'armi o da morire.

        51
Onde forzato fu di ritornare
il frate al campo, e 'l conte a lui converso:
- Padre, dicea, vi voglio accompagnare,
datemi una gonella da converso. -
Il frate gliene fece una portare
ricamata di brodo azzurro e perso,
ch'era del cuoco: e 'l conte se la pose,
e tutto nel capuccio si nascose:

        52
e rivoltato a' suoi disse ch'ei giva
a procurar anch'ei sorte migliore;
ma se 'l nemico altier non s'ammolliva,
tentato avría di rimaner di fuore;
e che con nuova gente ei s'offeriva
di tornare in soccorso in fra poche ore,
pur ch'a lor desse il cor di mantenerse
un giorno ancor ne le fortune avverse.

        53
In suo luogo lasciò Guido Canossa,
e non prese arme, fuor ch'una squarcina
che nascondea quella vestaccia grossa,
con un giacco di maglia garzerina.
Ritrovaron Gherardo in su la fossa,
che facea fabricar per la mattina
contra la porta una sbarrata grande
che chiudeva per fronte e da le bande.

        54
Quando Gherardo vide il guardiano,
gli venne incontro; e 'l frate gli dicea,
che troppo duro al popolo reggiano
il partito proposto esser parea;
ch'egli voleva uscir con l'armi in mano,
e che nel resto a lui si rimettea.
Gherardo entrò in furor quand'udí questo
e disse al frate: - Padre, io vi protesto

        55
che vo' far nuovi patti e vo' che lassi
l'armi e l'insegne e quanto egli ha da guerra,
e ch'in farsetto e sotto un'asta passi
a l'uscir de la porta de la terra.
Cosí vi giuro, e non perdete i passi
a tornar, se 'l partito non si serra;
perché vi aggiugnerò pene piú gravi,
come son degni i lor eccessi pravi. -

        56
Il conte, che tenea l'orecchie intente
dicendo: - A fé non mi ci coglierai, -
s'incominciò a scostar segretamente,
fin che si ritrovò lontano assai.
Pregava il guardian molt'umilmente,
ma non poté spuntar Gherardo mai:
onde tornò dolente al suo camino,
senz'altra inchiesta far di fra' Stoppino.

        57
Poiché tornò confuso e sbigottito
da la fiera risposta il guardiano,
e narrò il tutto e che se n'era gito
il conte e già poteva esser lontano;
si consultò s'era miglior partito
il ritorno aspettar del capitano,
o pur co l'armi al ciel notturno e scuro
tentar d'uscir de l'infelice muro.

        58
Tutti lodâr che s'aspettasse il conte;
ma quando poi s'andò ben calculando
ch'ei non poteva aver le genti pronte
prima che il nuovo sol fosse ito in bando,
si torser tutti e rincrespâr la fronte,
dicendo che volean morir pugnando:
onde Guido d'uscir fatto disegno,
fe' stare in punto ognun co l'armi a segno.

        59
Ma da la rocca diè Bertoldo aviso
a Gherardo ch'usasse estrema cura,
che mostrava il nemico a l'improviso
voler co l'armi uscir di quelle mura.
Preparossi Gherardo; e su l'aviso
fé stare i suoi soldati, e l'aria scura
rallumò con facelle e pece ardente;
e le sbarre piantò subitamente.

        60
Ed ecco aprir la porta e a un tempo stesso
de gli affamati il grido e le percosse:
ma ne le sbarre urtar ch'erano appresso;
e 'l rauco suono e l'impeto arrestosse:
Gherardo avea per fianco e 'n fronte messo
vari strumenti di tremende posse:
e a colpi di saette e pietre e dardi
stese quivi i piú arditi e piú gagliardi.

        61
Ed egli armato a piè con una mazza
corse a le sbarre, e a tanti diè la morte,
che se non ritraea la turba pazza
in dietro il piede e non chiudea le porte,
perduta quella notte era la razza
de' soldati da Reggio in dura sorte.
Fu de' primi a cader Guido Canossa
in preda a i lucci di quell'empia fossa.

        62
Ma l'ardito Foresto urta il destriero,
dove vede la sbarra esser piú bassa;
e tratto disperato il brando fiero
contra Gherardo, il fère a un tempo e passa,
e dovunque al passar drizza il sentiero,
de l'alto suo valor vestigi lassa;
fin ch'in sicura parte al fine arriva,
e i suoi d'aiuto e di speranza priva.

        63
L'esercito reggian, fatto sicuro
che la forza adoprar gli valea poco,
e veggendo il nemico in volt'oscuro
scuoter la porta e domandar del foco,
in fretta rimandò fuora del muro
il guardian, ch'ebbe a fatica loco
d'impetrar da Gherardo alcun partito,
ch'era già inviperato e infellonito.

        64
Al fin l'ultimo ottenne, e fu giurato
con giunta, che chiunque a l'osteria
con modanese alcun fosse alloggiato
di quello stuol che di Rubiera uscía,
a trargli per onor fosse ubbligato
scarpe o stivali o s'altro in piedi avía;
indi fu aperto un picciolo sportello,
d'onde uscivano i vinti in giubberello.

        65
Marte, che la sembianza ancor tenea
di Scalandron, per onorar la festa,
stando a la picca, ove al passar dovea
chinar il vinto la superba testa,
dava a ciascun, nel trapassar che fea
sotto quell'asta, un scappellotto a sesta:
cosí fino a l'aurora ad uno ad uno
andò passando il popolo digiuno.

        66
Poi che tutti passâr, Marte disparve
lasciand'ognun di meraviglia muto.
Stupiva il vincitor che le sue larve
conoscer non avea prima saputo:
stupiva il vinto, poi che 'l sole apparve
cinto di luce, e che si fu avveduto
con onta sua che le picchiate ladre
a tutti fatte avean le teste quadre.

        67
Sotto Rubiera si trattenne alquanto
Gherardo, e riposar le genti feo,
onorando quel dí sacrato al Santo
Apostolo divin Bartolomeo;
e de le spoglie de' nemici in tanto
su la riva di Secchia alzò un trofeo,
quando volgendo il sol dal mezzo giorno
eccoti un messaggier sonando un corno;

        68
e narra ch'attaccata è la battaglia
tra il Re de' Sardi e le città nemiche,
ch'in campo conducean tanta canaglia
che non ha tante mosche Apuglia o spiche;
e lo prega d'aiuto, e che gli caglia
del gran periglio de le schiere amiche.
Trenta peli di rabbia allor strapposse
Gherardo, e bestemmiando il campo mosse.

Fine del Canto quarto

 
 
 

Il Meo Patacca 08-1

Post n°1282 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO OTTAVO

ARGOMENTO

Ordina MEO più bella assai la festa,
Per quanno la conferma sia venuta
Della vittoria, et al venir di questa
Mostrò 'l saper della sua mente acuta:
In opera mette quel ch'hebbe in testa,
Prima fu la girandola veduta,
Poi fochi, e luminari, e custodita
Fu da lui Tolla, giovane smarrita.

Benchè la scorza notte in ciampanelle
Dato havesser le genti, e fatto chenne,
Sino che luccicorno in ciel le stelle
Intente a gustosissime faccenne,
Poco si riposorno, e cortarelle
Fecero le dormite, e quanno venne
El giorno ciaro, san ciarire el sonno;
Perchè non vonno più dormì, non vonno.

S'arrizzano, si vestono, e assai presti
Van su le porte a chiacchiarà l'artisti,
S'alzan puro i signori, e quelli, e questi
Così contenti mai non furno visti.
Del fatto si discurre, e lesti lesti
In te le piazze vanno i novellisti,
Pare a chalch'un di loro, che non basti
Un sol curriero, e quì si viè a i contrasti.

C'è perzona che dice: "È una gran nova
Questa che venne, et è nova sì grande,
Che può credersi appena, e la riprova
Prima aspettar si deve da più bande.
Non c'è raggione ancora, che mi mova
A dar fede a un avviso, che si spande
Così de notte, e spesso in ascoltarle,
Paion vere le nove, e poi son ciarle".

Gli risponne uno sgherro: "Oh ve che coccia!
Bigna, che 'sta vittoria gli dispiaccia,
Però, così ostinato s'incapoccia,
E 'l su' penzier da sè mai non discaccia.
Questa sorte de gente non si scoccia,
Se non con daglie sganassoni in faccia.
Se mò costui di qua, non se l'alliccia,
El grugno a fè da me se gli stropiccia.

Una Nova, ch'è pubrica, e che scurre
Pe' tutta la città, non sarà vera?
A non volè dar credito, che accurre,
A quello, che si sa sin da ierzera?
A di' la verità l'ha da ridurre
Forza sol di sgrugnoni, e be' m'ha cera
D'havè un cervello storto, e assai balzàno
E ciama pugni, un miglio da lontano".

Così dicenno te glie va alla vita,
E alle lanterne piglia già la mira,
Ma l'intrattiè la gente, che lì unita,
Stava a sentine, e l'altro si ritira;
S'intramezzano molti, e viè impedita
La sgrugnonata, e allor colui rispira
E perchè cerca di sfuggir le risse,
Così la scusa fa di quel che disse.

"Che mi dispiaccia la vittoria havuta,
Non lo credete nò, siete in errore,
E il non haverla subbito creduta,
Non fu malignità, ma fu timore.
Quando una cosa non s'è ben saputa,
E molto si desidera, tiè un core
Fra l'incertezze, e come ognor succede,
Ciò, che si spera assai, poco si crede".

Co' 'sto parla quel tale si difese:
E certo, ch'a proposito rispose.
La gente, ch'era lì, che tutto intese,
A placarzi lo sgherro allor dispose.
Lui si pacificò, nè più pretese
Di volè fa' smargiassarìe foiose;
Senz'altro repricà, la bocca chiuse,
E pe' bone accettò le fatte scuse.

Così fornì la cosa, ma, è ben vero,
Ch'in altri lochi pur, ci fu da dire;
Più d'uno hebbe 'l medesimo penziero,
Di volerzi di ciò meglio ciarire.
Intanto s'aspettò novo curriero,
E questi furno, con un pò d'ardire,
Suspetti no di savii cittadini,
Ma sofisticarie di dottorini.

MEO però la gran nova ha per sicura,
E par, ch'a lui la sigurtà ne facci
Il cor, ch'è tutto allegro, e già procura
D'ammannì Feste, Carri, e Focaracci.
Pe' poi venire a 'sta manifattura,
Bigna, ch'altra pecunia si procacci,
Che quella, ch'abbuscò non la vuò spenne:
Stima, che giusto sia, l'annarla a renne.

Ma prima vuò vede, se pò riuscigli
Una botta da mastro; che sarìa
Un colpo bello assai, che poi servigli,
Pe' fa' cose maiuscole potrìa.
Vuò annà da chi già fece l'ovo, e digli
Con garbata e gentil rasciammerìa
Se rivuò le monete, o pur se queste
L'ha da impiegà, pe' celebra le feste.

Pe' dar principio all'opera, va in giro,
Et a restituir, quel ch'hebbe in dono
Prontissimo si mostra, e 'sto riggiro,
È civile, onorato, e c'è del bono.
Così, co' 'sta drittura fa un bel tiro,
Perchè li gnori, che garbati sono
Non vonno già, s'animo granne ha MEO,
Ch'in cortesia li vinca un huom plebèo.

Chi glie li dona, e chi gli dà licenza,
Che se li sfrusci co' li sgherri sui,
Chi dice, ch'a ste cose più non penza,
E che ne faccia quel che pare a lui.
Non ci fu, chi mostrasse renitenza
Alla proposta fatta da costui;
Tutti cortesi, altro a cercà non stettero,
Ma gli lasciorno in man quel che gli dettero.

Dà però MEO parola, e ce s'impegna,
Che pe' le feste e machine tamante,
Ch'in te le strade e piazze far disegna,
Tutto ci spenderà, sino a un spicciante.
Pare a quelli pare cosa assai degna
'Sta nobbile penzata, e più contante
Dette chalch'uno dette, acciò più cose
Si potessero fàne, e più scialose.

PATACCA el core allegrezzà si sente,
E fa co' i generosi Maiorenghi,
Cirimonie a bizzeffe, e par che in mente
Di gran penzieri un cumulo gli venghi.
Ritrovannose in man tanto valsente,
Stima, che farzi onore gli convenghi;
Già disegnanno va col su' ciarvello,
De fa' vede più d'un crapiccio bello.

Ma perchè molte cose si figura,
E il modo poi non sa, come si fanno,
Nè mai studiante fu d'architettura,
Si vuò informà da quelli, che ne sanno.
E li trova, e gli parla, et a drittura
Li mena là dove le piazze stanno,
E le strade famose, e qui con loro,
Gran cose inventa, e gl'ordina il lavoro.

Poi se l'intenne con li bottegari,
Che stanno lì vicino, e li richiede,
Che molti, e crapicciosi luminari,
Quanno el tempo sarà, faccino vede.
Vorrìa, che si sentissero più spari
Di razzi, e cacafochi, e gli concede,
Che se chalch'uno, machine e figure
Vuò fàne a spese sue, le facci pure.

Dati già tutti l'ordini, s'aspetta
Della vittoria la conferma, e arriva
Più d'un curriero e più d'una staffetta,
E ciarisce chi al ver non consentiva;
Pericolo non c'è, che più si metta
La cosa in dubbio da chi prima ardiva
Far lo svogliato a credere, se trova
Che vera, anzi verissima è la nova.

Vie alfin la prima et aspettata sera,
Ch'alle pubriche feste già destina
La città stessa, che la notte intiera,
Durorno, pe' insinenta alla mattina.
Et ecco ogni finestra, ogni ringhiera,
Mignani e loggie, hanno gran lumi, e inzino
Delle botteghe l'alti tavolati
So' in cima, attorno attorno, illuminati.

Altri son lanternoni, e questi el fonno '
Hanno di greta cotta, et è grossetto,
Giusto come una ruzzica rotonno,
Attorniato da un orlo, alto un pochetto.
Propio in tel mezzo poi, puro c'è tonno,
Da piantà la cannela, un buscio stretto,
Di carta un foglio la tiè attorno cinta,
L'arme dei vincitor c'è su dipinta.

S'appiccia allora il moccolo, ch'è drento,
E la luce de fora trasparisce;
Non fa gran sforgio 'sto luccicamento,
Che la carta un po' grossa l'impedisce;
Perchè poi faccia più trasparimento
S'ugne quella coll'oglio, e comparisce
Il luccicor più chiaro, e ben disporli
Cerca delle finestre, ogn'un, su l'orli.

Altri poi, che riluciono più uniti,
Son certi graziosissimi lumini
Fatti di terra, e d'oglio son rempiti,
E drento a certi incavi hanno i stuppini;
In lunghe file son distribuiti,
Come fussero tanti lucernini,
E danno gusto, messi tutti a un paro,
Sbarluccicanno con un lume chiaro.

Si fanno poi d'apprausi alti schiamazzi,
In tel vede magnifiche spalliere
Di torcie accese, innanzi alli palazzi,
Due pe' finestra, e molte alle renghiere.
Stanno qui sotto poveri regazzi
E colando la cera a più potere,
Di cartone larghissimi cartocci
Tengono in mano, perchè lì poi gocci.

Là dove chalche machina si fece
Su tirata con corde e con girelle,
Stan di lumini e lanternoni invece
Sopra travi piantati assai padelle.
Piene son di bitume e grasso e pece,
E fanno ardenno fiaccole assai belle.
Le piazze, benchè larghe, impon di lume,
La fiamma sventolicchia, e fa gran fume.

Certi vasi di terra frabbicati
Stanno in alto con foglie naturali,
Dove ce son merangoli attaccati,
In prima veri, e adesso artifiziali;
Questi per mezzo furno già spaccati,
Poi voti, e ricongiunti in modi tali,
Che l'occhio non s'accorge dell'inganno,
E fuori che la coccia, altro non hanno.

Ne tiè molti ogni vaso, e un lumiccino
Ce sta in serrato, e questo assai traspare,
Perchè la coccia è assottigliata inzino
Che non si sfonna, e che può intiera stare.
Più d'un, che passa, quanno gl'è vicino
Si ferma, e non si può capacitare
Che quella, che vede sia coccia vera,
Ma li stima merangoli di cera.

D'iventà cose nove ogn'un procura,
Acciò la bizzarrìa sempre più cresca;
Coloro, al par d'ogn'altro, n'han premura,
Che vendono in bottega l'acqua fresca;
Tengon garaffe in mostra d'acqua pura,
Tinta di color roscio, e par che n'esca,
Perchè c'è dreto il lume, uno splendore,
Che apparisce di foco, et è un colore.

La vista ce patisce, e se sbarbaglia,
E pur dà gusto dà 'sto patimento;
È poi scialo maggior della marmaglia,
Delle botti vedè l'abbrusciamento;
Queste son piene di fascine e paglia,
Acciò 'l foco s'appicci in t'un momento!
Son vecchie e muffe, e i fonni più non hanno,
Posano in su tre sassi, e ritte stanno.

Si fa a posta si fa 'sta pò d'alzata,
Quanto che sotto pozza entrà una mano,
Pe' poterce da' foco, e accommodata
Una dall'altra sta poco lontano.
In dove hanno i palazzi la facciata,
Innanzi alli portoni, a mano, a mano,
Quanno pare che il giorno ormai s'annotti,
Filastrocche si fanno de 'ste botti.

 
 
 

Veritas veritatum

Post n°1281 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Era tanto che non scrivevo frasi latine, antichi aforismi.

Ecco un antico aforisma, fresco fresco, appena creato.

Se proprio volessimo cavillare, pignoleggiare, potremmo sostituire le parole "qualcuno non serve" con "quasi tutti non servono". Vabbè, dai, il concetto vale anche così, crogioliamoci in una ventata di ottimismo.

 

 
 
 

Il Trecentonovelle 26-30

Post n°1280 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA XXVI

Bartolino farsettaio fiorentino, trovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo, e col maestro Dino da Olena, insegna loro trarre il sangue, ecc.

La dottrina che seguita non fu meno maestrevole che quella di messer Dolcibene, la quale usoe Bartolino farsettaio, trovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo e con maestro Dino da Olena, ragionando d'assai cose da diletto con loro, però che come fossono scienziati, erano non meno piacevoli che Bartolino. Fra l'altre cose che costui disse a questi due medici, fu che gli domandò se sapeano come si traea il sangue al peto. Udendo li due valentri uomeni questo, cominciano ad entrare nelle risa per sí fatta forma che quasi rispondere non poteano; pur in fine dissono che no, ma che volentieri l'apparerebbono.
Disse Bartolino:
- Che volete che vi costi?
Disse il maestro Tommaso:
- Voglio che ogni volta che tu avrai male, esser tenuto di medicarti in dono.
E 'l maestro Dino disse che gli volea essere obbligato che ogni volta si volesse far fare uno farsetto non farlo mai fare per altra mano che per la sua.
Disse Bartolino allora:
- E io sono contento; state attenti, e io ve lo mostreroe testeso.
E subito fece un peto nell'acqua del bagno, il quale immantenente gorgogliando venne a galla e fece una vescica. E Bartolino come vide la vescica:
- Ora vi converrebbe avere la saettuzza e darvi entro
Quanti ne avea nel bagno, delle risa furono presso che affogati, e li medici piú che gli altri.
Io scrittore non so qual fosse meglio, o quello che promissono questi medici a Bartolino, o quello che Bartolino insegnò loro. Come che fosse, onestamente Bartolino riprese l'arte loro, che tanto ne sanno molti quanto Bartolino ne 'nsegnò loro, o meno.


NOVELLA XXVII

Marchese Obizzo da Esti comanda al Gonnella buffone che subito vada via, e non debba stare sul suo terreno; e quello che segue.

Il Gonnella piacevole buffone, o uomo di corte che vogliamo dire, mostrò al marchese da Ferrara non meno che Bartolino. Però che avendo il detto buffone commessa alcuna cosa piccola contro al marchese Obizzo, o per avere diletto di lui, gli comandò espressamente che sul suo terreno non dovesse stare; ché se vi stesse, gli farebbe tagliare la testa. Di che il Gonnella, nuovo come egli era, se ne andò a Bologna, e là accattoe una carretta, e su vi misse terreno di quello de' Bolognesi, e detto e accordatosi col guidatore della carretta del pregio, vi salí suso e ritornò in su questa carretta dinanzi al marchese Obizzo. Il quale, veggendo venire il Gonnella in sí fatta maniera, si maravigliò e disse:
- Gonnella, io t'ho detto che tu non debba stare sul mio terreno, e tu mi vieni su una carretta dinanzi. Che vuol dire questo? ha' mi tu per cosí dappoco?
E disse a' famigli suoi che 'l pigliassono a furore.
Disse il Gonnella:
- Signor mio, ascoltatemi per Dio, e fatemi ragione, facendomi impiccare per la gola, se io ho fallato.
Il signore, volonteroso d'udirlo, che ben pensava qualche nuova ragione dirsi per lui, disse:
- Aspettate un poco, tanto che dica ciò che vuole.
Allora il Gonnella disse:
- Signore, voi mi comandaste che io non stesse sul vostro terreno; di che io me ne andai subito a Bologna, e misi su questa carretta terreno bolognese, e su quello sono stato e al presente sono, e non sul vostro, né sul ferrarese.
Il marchese, udendo costui, con gran sollazzo patí questa ragione, dicendo:
- Gonnella, tu se' una falsa gonnella e con tanti colori e sí diversi che non mi vale né ingegno né arte contro alla tua malizia: sta' ove tu vuogli, ch'io te la do per vinta.
E con questa piacevole astuzia rimase a Ferrara, e rimandò la carretta a Bologna, e 'l marchese l'ebbe per da piú che prima.
E cosí con una nuova legge che niuno dottore giammai seppe allegare, il Gonnella allegò sí che a ragione il marchese non seppe contraddire, e 'l Gonnella ne guadagnò una roba.


NOVELLA  XXVIII

Ser Tinaccio prete da Castello mette a dormire con una sua figliuola uno giovene, credendo sia femina, e 'l bel trastullo che n'avviene.

Piú nuova e piú archimiata mostra fece colui che si mostrò in questa novella essere femina, ed era uomo. Venendo alla novella, nel mio tempo fu prete d'una chiesa a Castello, contado di Firenze, uno che ebbe nome ser Tinaccio, il quale essendo già vecchio, avea tenuto ne' passati tempi, o per amica o per nimica, una bella giovane dal Borgo Ognissanti, e avea avuto di lei una fanciulla, la quale nel detto tempo era bellissima e da marito: e la fama era per tutto che la nipote del prete era una bella cosa.
Stava non troppo di lungi a questa uno giovane, del cui nome e famiglia voglio tacere, il quale, avendo piú volte veduta questa fanciulla, ed essendone innamorato, pensò una sottile malizia per essere con lei, e venneli fatto. Una sera di tempo piovoso, essendo ben tardi, costui si vestí come una forese, e soggolato che s'ebbe, si mise paglia e panni in seno, facendo vista d'essere pregna e d'avere il corpo a gola, e andossene alla chiesa per addomandare la confessione, come fanno le donne quando sono presso al partorire. Giunta che fu alla chiesa, era presso a un'ora di notte, picchiò la porta, e venendo il cherico ad aprire, domandò del prete. Il cherico disse:
- Elli portò poc'ora fa la comunione a uno, e tornerà tosto.
La donna grossa disse:
- Ohimè, trista, ch'io sono tutta trambasciata.
E forbendosi spesso il viso con uno sciugatoio, piú per non essere conosciuto che per sudore che avesse sul volto, si pose con grande affanno a sedere dicendo:
- Io l'aspetterò, ché per la gravezza del corpo non ci potrei tornare; e anco, se Dio facesse altro di me, non mi vorrei indugiare.
Disse il cherico:
- Sia con la buon'ora.
Cosí aspettando, il prete giunse a un'ora di notte. Il popolo suo era grande: avea assai populane che non le conoscea. Come la vide al barlume, la donna archimiata con grande ambascia, e asciugandosi il viso, gli disse che l'avea aspettato, e l'accidente il perché. E 'l prete la cominciò a confessare. La maschia donna, com'era, fece la confessione ben lunga, acciò che la notte sopravvenisse bene. Fatta la confessione, la donna cominciò a sospirare, dicendo:
- Trista, ove n'andrò oggimai istasera?
Ser Tinaccio disse:
- E' serebbe una sciocchezza; egli è notte buia e pioveggina e par che sia per piovere piú forte; non andate altrove: statevi stasera con la mia fanciulla, e domattina per tempo ve n'anderete.
Come la maschia donna udí questo, gli parve essere a buon punto di quello che desiderava; e avendo l'appetito a quello che 'l prete dicea, disse:
- Padre mio, io farò come voi mi consigliate, però che io sono sí affannata per la venuta che io non credo che io potesse andare cento passi sanza gran pericolo, e 'l tempo è cattivo e la notte è, sí che io farò come voi dite. Ma d'una cosa vi prego, che se 'l mio marito dicesse nulla, che voi mi scusiate.
Il prete disse:
- Lasciate fare a me
E andata alla cucina, come il prete la invioe, cenò con la sua fanciulla, spesso adoprando lo sciugatoio al viso per celare la faccia.
Cenato che ebbono, se ne andorono al letto in una camera, che altro che uno assito non v'avea in mezzo da quella di ser Tinaccio. Era quasi sul primo sonno che 'l giovane donna cominciò a toccar le mammelle alla fanciulla, e la fanciulla già avea dormito un pezzo; e 'l prete s'udía russare forte; pur accostandosi la donna grossa alla fanciulla, e la fanciulla, sentendo chi per lei si levava, comincia a chiamare ser Tinaccio, dicendo:
- Egli è maschio.
Piú di tre volte il chiamò pria che si svegliassi; alla quarta:
- O ser Tinaccio, egli è maschio.
E ser Tinaccio tutto dormiglioso dice:
- Che di' tu?
- Dico ch'egli è maschio.
Ser Tinaccio, avvisandosi che la buona donna avesse fatto il fanciullo, dicea:
- Aiutalo, aiutalo, figliuola mia.
Piú volte seguí la fanciulla:
- Ser Tinaccio, o ser Tinaccio, io vi dico ch'egli è maschio.
E quelli rispondea:
- Aiutalo, figliuola mia, aiutalo, che sie benedetta.
Stracco ser Tinaccio, come vinto dal sonno si raddormentoe, e la fanciulla ancora stracca e dalla donna grossa e dal sonno, e ancora parendoli che 'l prete la confortasse ad aiutare quello di cui ella dicea, il meglio che poteo si passò quella notte. E presso all'alba, avendo il giovene adempiuto quanto volle il suo desiderio, manifestandosi a lei, che già sanza mandorle s'era domesticata, e chi egli era, e come acceso del suo amore s'era fatto femina, solo per essere con lei come con quella che piú che altra cosa amava, e per arra, levatosi, in sul partire gli donò denari che aveva allato, profferendoli ciò che avea essere suo; ed ancora ordinò per li tempi avvenire come spesso si trovassono insieme; e fatto questo con molti baci e abbracciamenti pigliò commiato, dicendo:
- Quando ser Tinaccio ti domanderà "che è della donna grossa", dirai: "Ella fece istanotte un fanciul maschio, quando io vi chiamava, e istamane per tempo col detto fanciullo s'andò con Dio".
Partitosi la donna grossa, e lasciata la paglia, che portò in seno, nel saccone di ser Tinaccio; il detto ser Tinaccio, levandosi, andò verso la camera della fanciulla, e disse:
- Che mala ventura è stata questa istanotte, che tu non mi hai lasciato dormire? Tutta notte ser Tinaccio, ser Tinaccio : ben, che è stato?
Disse la fanciulla:
- Quella donna fece un bel fanciul maschio.
- O dove è?
Disse la fanciulla:
- Istamane per tempissimo, credo piú per vergogna che per altro, se n'andò col fanciullo.
Disse ser Tinaccio:
- Deh dagli la mala pasqua, ché tanto s'indugiano che poi vanno pisciando li figliuoli qua e là. Se io la potrò riconoscere, o sapere chi sia il marito, ché dee essere un tristo, io gli dirò una gran villania.
Disse la fanciulla:
- Voi farete molto bene, ché anco me non ha ella lasciato dormire in tutta notte.
E cosí finí questa cosa, ché da quell'ora innanzi non bisognò troppo archimia a congiugnere li pianeti, che spesso poi per li tempi si trovorono insieme; e 'l prete ebbe di quelle derrate che danno altrui. Cosí, poiché non si può far vendetta sopra le loro mogli, intervenisse a tutti gli altri, o sopra le nipote, o sopra le figliuole, come fu questa, simile inganno, che per certo e' fu bene uno de' maggiori e de' piú rilevati che mai si udisse.
E credo che 'l giovene facesse piccolo peccato a fallire contro a coloro che, sotto la coverta della religione, commettono tanti falli tutto dí contro alle cose altrui.


NOVELLA XXIX

Uno cavaliero di Francia, essendo piccolo e grasso, andando per ambasciadore innanzi a papa Bonifazio, nell'inginocchiare gli vien fatto un peto, e con un bel motto ramenda il difetto.

Io uscirò ora alquanto di quelle materie e inganni ragionati di sopra, e verrò a uno piacevole motto che uno cavaliere francesco gittò dinanzi a papa Bonifazio ottavo.
Uno cavaliere valente di Francia fu mandato per ambasciador con alcun altro dinanzi a papa Bonifazio, che avea nome messer Ghiriberto, il quale era bassetto di sua persona, e pieno e grasso quanto potea. E giunto il dí che costui dovea sporre questa ambasciata, come uomo non usato a simil faccenda, domandò alcuno che reverenzia si costumava fare quando un suo pari andava dinanzi al Papa. Fugli detto che convenía che s'inginocchiasse tre volte per la tal forma. Essendo il cavaliere di tutto informato, andò il dí medesimo dinanzi al Papa per disporre l'ambasciata; e volendo fare destramente piú che non potea la sua persona, s'inginocchiò la prima volta; come che gli fosse fatica, pur n'uscío; venendo alla seconda inginocchiazione, la fatica della prima aggiugnendosi con la seconda, e 'l volere fare presto e non potere, lo costrinse a far sí che la parte di sotto si fe' sentire. El cavaliere, veggendo esser vituperato, subito soccorse, dandosi delle mani nell'anche, dicendo:
- Lascia parlare moi, che mala mescianza vi don Doi.
Papa Bonifazio, che ogni cosa avea sentito, e ancora il piacevole motto dello ambasciadore, disse:
- Dite ciò che voi volete, che io v'intenderò bene.
E giugnendo appiè del Santo Padre, con grande sollazzo il ricevette; ed elli seguío la sua ambasciata, e per averla sposta con due bocche ebbe meglio dal Papa ciò che domandò.
Molto fu da gradire il tostano rimedio di questo cavaliero, il quale, sentendosi contra il suo volere caduto in tal vergogna, subito ricorse a quello, ché altro rimedio non vi era, né piú piacevole. Altri scientifichi uomeni già sono stati, che dicendo una ambasciata dinanzi al Papa, sanza che caso sia occorso loro di vergogna, sono cascati, non sappiendo perché, in sí fatta maniera che sono penati una gran pezza a ritornare in loro.


NOVELLA XXX

Tre ambasciadori cavalieri sanesi e uno scudiere vanno al Papa. Fanno dicitore lo scudiere, e la cagione perché, e quello che con piacere ne seguío.

Non fu meno coraggioso questo ambasciadore sanese a dire arditamente la sua ambasciata dinanzi al Papa, che fosse il cavaliero di Francia.
Fu in Siena al tempo di Gregorio papa decimo ordinato di mandarli una solenne ambasciata, ed elessono tre cavalieri e uno che non era cavaliere, il quale era il migliore dicitore di Siena, quando tre o quattro volte avesse bevuto d'un buon vino prima che disponesse l'ambasciata: e non beendo per lo modo detto, non averebbe saputo dire una gobbola. E questa condizione, o natura, a me scrittore mi pare che fosse delle strane e delle diverse che mai s'udissono.
Mossonsi questi quattro ambasciadori sanesi, e andarono a Corte: ed essendo la mattina che doveano sporre l'ambasciata, tiratisi da parte all'albergo, cominciò a dire alcuno de' cavalieri:
- Chi dirà?
Disse uno di loro:
- Cioè? E chi nol sa chi dee dire? dica il tale.
Costui si cominciò a difendere, che non era cavaliere; e che, dicendo egli, era fare vergogna agli altri compagni ambasciadori, che erano cavalieri; e quella per niun modo volea fare.
Brievemente, e' si poteo ben dire di Berta e di Bernardo, che costui pinto da' tre convenne che fosse il dicitore. E col modo usato fu mandato per lo migliore vino della terra e per li confetti. Beúto che n'ebbe il dicitore tre volte, andorono a disporre l'ambasciata, la quale fu per lo scudiere tanto ben disposta, quanto altra che disponesse mai. Fatto questo, ed essendo per quella mattina dal papa licenziati, tornorono all'albergo. Ed essendo alquanto ristretti insieme, disse il dicitore a' cavalieri:
- Io non so se io dissi bene, e a vostro modo.
Dissono li cavalieri:
- Per certo tu dicesti meglio che tu dicessi mai.
Rispose il dicitore e presto:
- Per lo santo sangue di Dio, che se io avesse beúto un altro tratto io gli averei dato nel viso.
Quanto li cavalieri del detto di questo loro compagno risono, non si potrebbe dire. E 'l dicitore mostrò che, chi non ha cuore, lasciando ogni temerità, giammai non può ben dire.
E cosí è veramente, che 'l dicitore, quando parla, conviene che sia sicuro e coraggioso, però che 'l dire sempre manca per lo timore; e chi è ben pronto e ardito dinanzi al sommo pontefice, rade volte o non mai avviene che dinanzi ad ogni signore non dica arditamente.

 
 
 

La Secchia Rapita 04-1

Post n°1279 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO QUARTO

ARGOMENTO

Mentre dal Potta Castelfranco è stretto,
Rubiera assalta il popolo reggiano.
Parte dal campo a quell'impresa eletto
Gherardo, e se ne va notturno e piano.
Muove assalto a la terra, onde costretto
da la fame si parte il capitano.
Cadono i valorosi; e gli altri a patto
fan de la vita lor vile riscatto.


        1
Poiché fu sorto in su la destra riva,
si fermò il campo e s'ordinâr le schiere;
ne gli usberghi lucenti il sol feriva
e ne traeva fuor lampi e lumiere:
un venticel che di ponente usciva
facea ondeggiar le piume e le bandiere:
e per le rive intorno e per le valli
romoreggiava il ciel d'armi e cavalli.

        2
Il Potta, ch'era un uom molto eloquente
e solito a salir spesso in ringhiera,
montato sopra un argine eminente
che divideva i campi e la riviera,
cinto di capitani e nobil gente,
co 'l capo disarmato e la montiera,
cosí parlava al popolo feroce
con magnanimi gesti e altera voce:

        3
- O vero seme del valor latino,
ben aveste l'altrier da Federico
un privilegio in foglio pecorino,
che vi ridona il territorio antico
che terminava già sopra 'l Lavino:
ma il donativo suo non vale un fico,
se con quest'armi che portiamo a canto
non ne pigliamo noi possesso in tanto.

        4
Sol Castelfranco ne può far inciampo,
ché rinforzato è di presidio grosso;
ma non avrà da noi riparo o scampo,
se con tant'armi gli giugniamo addosso:
quivi noi fermeremo il nostro campo
contra 'l nemico che non s'è ancor mosso;
e potremo goder sicuri e lieti
de' beni altrui, finché fortuna il vieti.

        5
Tutte nostre saran senza sospetti
queste ricche campagne e questi armenti;
la salciccia, i capponi e i tortelletti
da casa ci verran cotti e bollenti,
e dormiremo in quegli stessi letti
dove ora dormon le nemiche genti:
il Re giungerà in campo innanzi sera,
ché già scesa dal monte è la sua schiera.

        6
Ma che piú vi trattengo o forti? Andiamo
a trar di bizzaria questi capocchi,
leviamgli Castelfranco; e poi vediamo
ciò che faran con quel fuscel ne gli occhi,
ricco di preda è quel castel, io bramo
ch'ognun ne goda, a ciaschedun ne tocchi;
io per me certo non ne vo' un quattrino,
e dono la mia parte al piú meschino. -

        7
Cosí dicendo il fiero campo mosse
con tanta fretta a la segnata impresa,
che l'inimico a pena a tempo armosse,
per correr de le mura a la difesa.
Subito intorno fur cinte le fosse,
e adattate le macchine da offesa:
al primo colpo d'un trabucco vasto
fu arrandellato un asino col basto.

        8
La machina mural da sé rimove
con impeto sí fier quella bestiaccia,
che la solleva in aria, e in piazza dove
piú turba avea dentro il castel la caccia.
Trasecolaron quelle genti nove
tutte, e l'un l'altro si miraro in faccia
con le guance di neve e 'l cor di gelo,
ch'un asino cader vider dal cielo.

        9
Era con molti armati in quel presidio
un capitan di poca matematica
di Casa Bonason, detto Nasidio
perch'avea un naso contro la prammatica:
questi temendo un general eccidio,
subito co' Potteschi attaccò pratica
d'uscir di quel castel con la sua gente
se non avea soccorso il dí seguente.

        10
Fermato il patto, il Re giunse la sera
con trombe e fuochi e segni d'allegrezza;
ma il dí seguente una novella fiera
converse tutto il dolce in amarezza:
venne correndo un messo da Rubiera
ch'aiuto richiedea con gran prestezza
contra il popol reggian, ch'a quella terra
mossa la notte avea improvisa guerra.

        11
Il popolo reggian col modanese
professava odio antico e nemicizia,
e avea contra di lui col bolognese
piú volte unita già la sua milizia;
ora, dissimulando il tempo attese,
e per mostrar la solita nequizia,
passato che fu il Re, spinse a' suoi danni
seimila fra soldati e saccomanni.

        12
Il Re tosto chiamar fece a consiglio
tutti gli eroi de la città del Potta;
e poi ch'ebbe narrato il gran periglio
ove quella fortezza era ridotta,
rivolse a destra mano il nobil ciglio,
dove sedea l'onor di casa Scotta:
ed ei, poiché fu sorto e si compose
la barba con la man, sputò e rispose:

        13
- A voi, signor, come piú degno, tocca
sceglier fra questi un capitano in fretta,
che vada a liberar l'oppressa rocca
e a far su quegli audaci aspra vendetta. -
Volea piú dir, ma no 'l lasciò la bocca
aprir, che si levò da la panchetta
e saltò in mezzo il conte di Culagna
dicendo: - V'andrò io, chi m'accompagna? -

        14
Maravigliando il Re si volse e disse:
- Chi è costui sí ardito e baldanzoso? -
Il Potta si guardò ch'ei no 'l sentisse,
e disse: - Questi è un matto glorioso. -
Il Re, che avea disio che si spedisse
a quella impresa un capitan famoso,
rimise quella eletta al Potta stesso
che conosceva ognun meglio da presso.

        15
Il Potta, che sapea che i Parmegiani
eran nemici a la tedescheria,
e ch'era un accoppiar co' gatti i cani
se gli uni e gli altri insieme a un tempo unía;
disegnò di mandar contra i Reggiani
gli aiuti che da Parma in campo avía
Giberto da Correggio allor guidati,
tremila a piedi e mille in sella armati.

        16
Ma il carico sovran diede a Gherardo
con cinquemila fanti e quella schiera
ch'avea Bertoldo sotto il suo stendardo
condotta da Marzaglia e da Rubiera.
Ripassò il ponte il cavalier gagliardo;
ma non giunse a Marzaglia innanzi sera,
quivi ebbe nuova de la terra presa,
ma che la rocca ancor facea difesa.

        17
Stettero in dubbio i cavalier del Potta
se passavano allor quella riviera,
o s'attendean che fulminata e rotta
fosse dal novo sol l'aria già nera.
Ed ecco apparve lor su 'l fiume allotta
Marte, che presa la sembianza fiera
di Scalandrone da Bismanta avea,
bandito e capitan di gente rea;

        18
e inalzando una face in su la sponda
che 'l varco indi vicin tutto scopriva,
fe' sí che tragittò di là da l'onda
subito il campo a la sinistra riva.
Spirava il vento e dibattea la fronda
sí ch'a fatica il calpestio s'udiva.
A i capitani allor Marte feroce
volgea lo sguardo e la terribil voce;

        19
e dicea lor: - Venite meco, o forti,
ché gl'inimici or vi do vinti e presi,
mentre che ne la terra i male accorti
son quasi tutti a depredar intesi,
aspettando che 'l messo annunzio porti
che si sian quelli de la rocca resi,
dove a l'assedio in su la fossa armato
Foresto Fontanella hanno lasciato.

        20
Io la perfidia lor patir non posso,
e vengo a vendicarla ora con voi;
se lor giugniamo a l'improviso addosso,
che potran far, se fosser tutti eroi?
Gira, Gherardo, tu a sinistra il fosso,
e chiudi il passo co' soldati tuoi,
ch'io Giberto e Bertoldo a piè del ponte
condurrò cheti a l'inimico a fronte. -

        21
Cosí parlava, e Scalandrone il fiero
creduto fu da ognun ch'era presente.
Gherardo a manca man tenne il sentiero,
Giberto a destra al lato di ponente,
e su gli elmi inalzar fe' per cimiero
un segno bianco a tutta la sua gente,
ché già la squadra udia del Fontanella
cantar non lungi la Rossina bella .

        22
Passavan cheti e taciturni avanti
senza ronde scontrar né sentinelle,
quando cessaro a l'improviso i canti
e i gridi e gli urli andar fino a le stelle;
i cavalli lasciaro addietro i fanti
allora, e Marte accese due facelle,
e illuminò cosí l'aer d'intorno
che parve senza sol nascere il giorno.

        23
Foresto, che venir sopra si vede
gli stendardi di Parma e di Rubiera,
si lascia dietro anch'ei la gente a piede;
e passa armato innanzi a la sua schiera.
Marte rimira e Scalandrone il crede,
sprona il cavallo e abbassa la visiera;
e 'l coglie a punto al mezo de la pancia,
ma non sente piegar né urtar la lancia.

        24
Marte a l'incontro al trapassar percosse
in guisa lui d'un colpo sopramano
che gli abbruciò la barba e 'l viso cosse,
e non parve mai piú fedel cristiano:
ei se la bebbe, e subito scontrosse
con Bertoldo, ch'avea disteso al piano
col braghiero in due pezzi Anselmo Arlotto,
grande alchimista e in medicina dotto.

        25
Ruppero l'aste a quell'incontro fiero,
e con le spade incominciâr la guerra.
L'animoso Foresto avea un destriero
che non trovava paragone in terra,
generoso di cor, pronto e leggero;
e se un'antica cronica non erra,
fu de la razza di quel buon Frontino,
fatto immortal da Monsignor Turpino.

        26
Bertoldo avea piú forza e piú fierezza,
ed era di statura assai maggiore:
Foresto avea piú grazia e piú destrezza,
picciolo il corpo e grand'era 'l valore.
Ma l'uno e l'altro fa di sua prodezza
mostra al nemico e di suo eccelso core;
e la terra è già tinta e inorridita
di sangue e di bragiole e maglia trita.

        27
Giberto intanto avea rotta la lancia
nel ventre a Gambatorta Scarlattino,
e col troncon fatta crepar la pancia
d'un fiero colpo a Stevanel Rossino;
quando tolse una scure a Testarancia
figliuol di Filippon da San Donnino,
e con essa a due man fe' tal ruina,
che tolse il vanto a quei de la tonnina.

        28
Uccise Braghetton da Bibianello
ch'un tempo a Roma fece il cortigiano;
e 'l nome v'intagliò co lo scarpello
sotto Montecavallo a manca mano;
avea la pancia come un carratello
e avría bevuta la città d'Albano,
né mai chiedeva a Dio nel suo pregare,
se non che convertisse in vino il mare.

        29
Gli divise la pancia il colpo fiero
e una borrachia ch'a l'arcione avea:
cadeano il sangue e 'l vin sopra 'l sentiero,
e 'l misero del vin piú si dolea.
l'alma ch'usciva fuor col sangue nero
al vapor di quel vin si ritraea:
e lieta abbandonava il corpo grasso,
credendo andar fra le delizie a spasso.

        30
Uccise dopo questi Alceo d'Ormondo
protonotario e camerier d'onore
ne la corte papal, capo del mondo
e di piú cavalier conte e dottore;
e 'l miser Baccarin da San Secondo
che de le pappardelle era inventore
morto lasciò con gli altri male accorti
sotto Rubiera ad ingrassar quegli orti.

        31
Prospero d'Albinea, Feltrin Casola,
Marco Denaglia, Brun da Mozzatella,
Berto da Rondinara, Andrea Scaiola,
Stefano Zobli, Gian da Torricella,
Guglielmo da la Latta e Pier Mazzola
dal feroce guerrier tratti di sella,
con Ugo Brama e Gian Matteo Scaruffa
tutti rimaser morti in quella zuffa.

        32
A i colpi de la forza di Giberto
gira gli occhi Foresto; e i suoi soldati
vede da la battaglia al campo aperto
fuggir chi qua chi là tutti sbandati:
e temendo restar quivi diserto,
ché cinto si vedea da tutti i lati,
volge a Bertoldo ed una punta abbassa,
e gli uccide il cavallo e 'n terra il lassa:

        33
e dove i suoi fuggían da la battaglia
spronando quel destrier che sembra un vento:
- Dunque, gridava lor, brutta canaglia,
questo è il vostro valore e l'ardimento?
Se non avete tanto cor che vaglia
a sprezzar de la morte ogni spavento
sí che vogliate abbandonar la guerra,
ritiratevi almen dentro la terra. -

        34
Cosí disse, e correndo in ver la porta
donde il soccorso omai gli parea tardo,
piena la via trovò di gente morta,
ch'ivi già penetrato era Gherardo.
Allor frenando l'impeto che 'l porta,
s'arresta alquanto il giovane gagliardo,
pensando se dovea quindi fuggire
tra l'ombre de la notte o pur morire.

 
 
 

Il Meo Patacca 07-3

Post n°1278 pubblicato il 25 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Scarpinano le genti a flotte a flotte,
L'aria con voci strepitose assordano;
D'una sì allegra e fortunata notte
A fè, che manco i ciospi si ricordano.
Con prausi strillizzari ancor le botte
De i cacafochi a fa' rumor s'accordano,
È senz'ordine, (è vero), 'sto gran chiasso
Ma piace lo sconcerto, et è uno spasso.

Mentre fava spettacolo assai bello
La razza de 'sti novi luccicori,
De fa' 'na bizzarrìa, penzò 'l ciarvello
Di due romaneschetti bell'umori.
Tappo un se ciama, e l'altro Ciumachello;
Due scope lunghe assai, da imbiancatori
Alzano accese, e son gusti tamanti,
Il vedè spasseggia fochi giganti.

In tel farzi 'sta lucida allegrìa
Succede un caso, che si stima un gioco;
Pare in principio, che gran gusto dia,
Ma fa nasce garbugli, a poco a poco.
Resciva in fora certa gelosia
Da una finestra, e Tappo glie dà foco;
Mentre ch'una gran scopa in man si trova,
Facile gli riesce una tal prova.

Perch'è quella d'un legno inaridito,
E pe' l'antichità tutto tarmato.
Presto s'affiala, e resta intimorito
Pe' paura di peggio el vicinato.
Et ecco Ciumachello sbigottito
Curre, pe' da rimedio, e 'l foco alzato
Coll'alta scopa sua smorzà voleva,
Ma con la gelosia la scopa ardeva.

Strillano tutti allor; ma più schiamazza
'Na certa gnora lei, che lì abbitava,
Et era una bellissima ragazza,
E Ciumachello un pò d'amor ce fava:
Si sentiva gridà, com'una pazza,
E l'amico più allor s'affaccendava,
Che trovà presto el modo, havria voluto
Di dar a quell'incendio un chalche ajuto.

Ma 'l foco stesso lo levò d'impacci,
E le cose alla fin messe in sicuro,
Perche arrivò a brusciàne un di quei lacci,
Che tiè la gelosia legata al muro.
Fa 'l peso d'una parte, che si slacci
Dall'altra ancora e caschi giù 'l tamburo;
I vicini paura più non hanno,
Mentre ch'il foco non po' fa' più danno.

Tappo lo sdegno suo sfoga pretese,
Per esser di ciarvello assai fumante,
Con quella signorina, che scortese,
Noi volze accettà mai per su' cascante.
Perchè 'l disprezzo a petto se lo prese,
Ne fece 'sta vendetta stravagante;
Non sapeva, nè haveva mai sentito,
Che fusse Ciumachello el favorito.

Mentre fornisce il foco de smorzarzi,
E che lassa colei di sbigottirzi,
Ciumachello s'infoia, e vuò trovarzi
Con Tappo, e dell'affronto risentirzi;
Ma non gli basta già, pe' vendicarzi,
E d'ingiurie, e di chiacchiare servirzi,
Ma curre, e giusto fa come i can corzi,
Ch'a sbranà vanno li cignali o l'orzi.

Pare propio che voglia in carne e in ossa,
Divorarzi colui; per mezzo passa,
A chi da un gomitone, a chi 'na scossa,
E te la fa da Capitan Fragassa;
Trova Tappo, e pe' dagli una percossa,
La scopa, ch'alta già teneva, abbassa,
Gl'azzolla una scopata in su la gnucca,
E te gl'attacca foco alla perucca.

Il vedè la gran fiala in aria alzata
De i capelli brusciati in t'un momento;
Il sentì della gente una fischiata,
Di Tappo l'osservà lo stordimento,
L'esser restato lui coccia pelata,
Il mantenerzi in piedi a maio stento,
Se la botta fu data a mano piena,
Propio 'sta cosa fu, propio 'na scena.

Dalla vergogna mosso, e dalla stizza,
Tappo allora con impeto foiardo '
Verzo 'l nemico, con un zompo schizza,
Che par, quanno s'arrabbia, un gatto pardo.
Per accoppallo bene, in alto arrizza
La su' scopa, e gl'avvia, assai gagliardo
Un colpo da sfonnaglie il capitello,
Ma lesto, se lo para Ciumachello.

Ecco una zuffa all'improviso fatta,
Che somigliante non s'è mai veduta,
Par che in giostra con lancie si combatta,
E a scopicchià 'l nemico ogn'un s'aiuta.
Saffiala a Ciumachello la corvatta
Per una botta inverzo 'l grugno havuta;
Lui con la man presto la fiamma stregne,
E quella si soffoga, e alfin si spegne.

Colpi da disperati ecco si tirano,
E a fè, ch'a maio stento se li parano,
Di qua e di là, per azzeccasse girano,
E a fa' scanzi di vita allor imparano;
Le genti inframezzate si ritirano,
Perchè, se quelli le scopate zarano,
E in dove hanno la mira non azzeccano,
Calche battuta allor queste ce leccano.

Fra tanto, chi una coccia e chi una scorza
Tira, per impedì colpi sì fieri;
Ma non giova, ch'i sgherri fanno forza,
E par che l'uno accoppà l'altro speri.
S'urtan le scope, e 'l foco allor si smorza,
Restano i zeppi abbrustoliti e neri,
E mentre che su i grugnì se li danno,
Come du' carbonari acconci' stanno.

Vede MEO da lontano il tiritosto;
Il cavallo spirona pe' ciarisse
Che sia 'sto chiasso, e se ne va disposto
A gastigà chi ardisce fa' 'ste risse.
Arriva al fine a i due sgherrosi accosto,
E: "Che si fa? fermate o là!", gli disse,
Et, oh gran fatto! a questa sola voce
Si fermò, si fornì guerra sì atroce.

Come fan due regazzi, che resciti
Da scola appena, in chalche vicoletto,
Credenno di non esser discopriti,
Si rifibbiano pugni lì allo stretto,
Mentre so' in azzuffarsi inviperiti,
Eccote el mastro, che ne ha già suspetto,
E spaventati, alla comparza sola,
Perdon quelli la forza e la parola.

Così di MEO restorno alla presenza
Li due scopa-mostacci, et ubbidirno
All'ordine di lui, che de potenza,
Fermà li fece, e loro si spartirno;
Te gli brava, e gli da, pe' penitenza,
Che ritornino a casa, e non ardirno
Di contradì; ma prima pe' commanno
Di lui, che così vuò, la pace fanno.

Fornito 'sto scompiglio poco doppo,
Ecco di novo il popolo commosso:
Un certo cavallaccio, ch'era zoppo
Una soma di fieno haveva addosso.
Si vedeva sferrà con tal galoppo,
Ch'insinenta haverìa saltato un fosso;
El patron, che dereto gli curreva,
Non poteva arrivallo non poteva.

In tel passa, che fece 'st'animale,
Che tardi, e stracco, era rentrato in Roma,
Venne in testa un crapiccio a un certo tale,
Che se ciamava Checco Bella Chioma;
Fece una burla, ma però bestiale,
Con la scopa appicciata a quella soma
Presto presto in più lochi el foco dette,
Poi co' i compagni a sghignazzà si mette.

A piede il fienarolo innanzi annava,
E la capezza in mano si teneva,
Il capo sonnacchioso scotolava,
E gnente de 'sto foco s'accorgeva;
Mentre sopra penziero se ne stava,
Ecco fa all'improviso un leva leva
La bestia, che scottà già si sentiva,
E curre tanto, che nisciun l'arriva.

Dato un urto al patrone, e in terra steso,
Fava slanci e strabalzi inciompicanno,
Pe' butta giù quell'infocato peso,
Ogni tanto la groppa rimenanno.
S'allampa da lontano un monte acceso,
Che va pe' la calcosa camminanno;
Il non vederzi ben, che cosa è quella,
Questo la fa parè cosa più bella.

Torcenno el muso, e digrignanno i denti,
Spara quella carogna i calci a coppia;
Mentre le mani sbattono le genti,
E glie danno lo strillo, li raddoppia.
Stolza, e di vita certi slungamenti
Allor che va facenno, più si stroppia,
Et è (nel far così sciancata i zompi),
Meraviglia ch'el collo non si rompi.

Fu di lì a poco el taccolo fornito,
Se doppo esser andato assai sbalzone,
El povero animal mezzo arrostito,
Dette in terra un solenne stramazzone.
Restò de fatto tutto interezzito,
Nero poi diventò com'un carbone,
E quanno cascò giù, com'un fagotto,
Non era morto ancora, et era cotto.

Dreto, il patron correva, e da lontano
Stirà le cianche al su' cavallo vede,
Te fa 'na schiamazzata da villano,
Strepita quanto po', giustizia chiede.
Interroga la gente, hor forte, hor piano,
Perchè scropì la verità si crede,
Se chi quell'insolente stato sia,
Ma nisciun c'è, che voglia fa' la spia.

S'era già MEO del focaraccio accorto,
E del cavallicidio, e adesso sente
Le lamentizie del villan, che morto
Vede 'l su' portafieno, e n'è dolente.
Cognosce allora l'inzolenza, e 'l torto
Fattogli da colui, che impertinente
Pe' da' pastura al popolo, burlanno,
Fece a quel poverhomo, un vero danno.

Si fa insegnà chi fu, dove rascoso
L'appiccia-foco stia; presto gl'è detto.
PATACCA allor con ceffo dispettoso
Lo fa venì de razzo al su' cospetto;
Gli comparisce innanzi timoroso,
Vorria scusarzi, e MEO gli parla schietto.
Dice: "Il gastigo tuo, sia questo solo,
Di rifà tutti i danni al fienarolo".

Colui va scastagnanno, et assai duro,
Gli par, che sia da rosicà quest'osso;
"Hai da pagane, e pagarai sicuro",
Disse PATACCA, "sino a un mezzo grosso",
Checco risponne: "In verità ve giuro,
Che non me trovo pozzolana addosso".
Ripiglia MEO: "Che vuoi mo' dir pe' questo?
Se qui non hai monete, io te le presto".

Poi ciama el fienarolo, e gli dimanda
Quanto sia del cavallo el giusto prezzo.
"Faccia, - dice costui, - quel che comanda,
Per dieci scudi, io lo comprai, ch'è un pezzo.
'Sto poveraccio a voi se raccomanda,
Forse a tenerne voi sarete avvezzo;
E se ben era seccaticcio e zoppo,
Il prezzo, che v'ho detto non è troppo.

C'è ancora el fieno e 'l basto; ma di tutto
Al vostro bon giudizio mi rimetto".
MEO disse allora al malfattor frabutto:
"Caro t'ha da costà 'sto tu' giochetto".
Sentenno un tal parla, restò pur brutto
Colui, nè crese mai, che tanto a petto
Se la pigliasse Meo, che poi volesse,
Ch'a quel villano el suo dover si desse.

Spiattellò fora intanto otto pavane
PATACCA, e al fienarol presto le dette:
"Penza a ristituirmele domane",
Disse a quell'altro, e lui glie lo promette.
Il villano contento ne rimane,
Benchè tutto non sia, quel che chiedette.
Giudica MEO che basti 'sta moneta,
Et il bisbiglio allor così s'acqueta.

Poi PATACCA passà da Nuccia volze,
Sol pe' vede, come contenta stia,
E la trovò, che puro lei si sciolze,
A scialà coll'amiche in compagnia.
Il passato dolor tutto rivolze
In giubbilo e discorzi d'allegria
Fava in finestra, e immaginossi allora,
Che non sarìa più MEO marciato fora.

Fischiò lui da lontano, e lei l'intese,
E prima ch'alla casa s'avvicini,
Presto il pallon da fa' merletti prese,
E gli levò le spille, e li piombini;
Gli dette foco, e fora poi lo mese
Dalla finestra, e risero i vicini,
E quanno giusto MEO sotto glie passa
In strada accanto a lui cascà lo lassa.

Quest'è un pallon, ch'è tonno, e gnente meno
D'un cocommero è grosso; nel di fora
Tela bianca lo crope, e drento 'l fieno
Lo rempe, e folto, e ben calcato ancora;
Sedenno, se lo tiè la donna in seno
Fermato bene, quanno ce lavora;
Appuntano i merletti, a cento e a mille,
Sopra 'na cartapecora, le spille.

Piace tanto a PATACCA 'sto bel fatto,
Che presto a Nuccia 'l contracammio rese
De 'sta su' ritrovata, e fece un atto,
In cui mostrossi un giovane cortese.
La dorindana sfoderò defatto,
E col braccio la punta in giù distese
E infilzato il pallone, in aria l'alza,
Dice: "All'onor di Nuccia!", e via lo sbalza.

Resta lei consolata, e se ne tiene,
Quanto mai dir si pò de 'sta finezza,
S'accorge, che da vero glie vuò bene,
Mentre glie fa tant'onorevolezza;
Seguita MEO la curza, e a passà viene
Dove sta Tutia, che per allegrezza
Su la conocchia, mentre lui galoppa,
Abbruscia una currivola de stoppa.

In altri lochi poi, gran focaracci
Fecero l'abbrusciati pagliaricci,
Sino in cima alle pertiche li stracci
Furno veduti affumicati e arsicci.
Ci ha gusto MEO che tibaldèa se facci,
E che dove si po', foco s'appicci;
Molti in mano tenevano per fine,
Accese come torce, le fascine.

Tutta la notte la baldoria crebbe,
Con sempre più ridicole allegrìe,
Ma questa, essendo festa della plebbe,
Non fornì con le sole chiassarìe.
Stata una cosa insolita sarebbe,
Se tra le tante e tante pazzarìe,
Che la gente bevòna a far s'indusse,
Il gomito un po' alzato non si fusse.

Chi all'osteria, chi nelle propie stanze,
Sciuriava alla salute di chi vinze;
Fra tedeschi artiggiani, trinche lanze
Si sentiva, e tra i nostri, più d'un brinze.
Si cantorno gustose consonanze,
Più d'uno i fiaschi voti in aria spinze,
E de i bicchieri i bevitori a gara,
Ne buttorno fra tutti a centinara.

Mette a sbaraglio fino un scarpinello,
Pe' la gran contentezza, che riceve,
Pieno di vino roscio un caratello
Su la porta, e chi passa, invita a beve.
Poco, fin hor diss' io; resta 'l più bello,
Ma la sguattara Musa annar già deve,
A sapè l'allegrìe dell'altri giorni,
Perchè poi quelle a racconta ritorni.

Fine del Settimo Canto.

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

cuspides0cassetta2amistad.siempreVince198massimobrettipiernaniChevalier54_Zforco1gnaccolinocamaciotizianarodelia.marinoamorino11Talarico.Francoantonio.caccavalepetula1960
 

ULTIMI COMMENTI

 

ULTIMI POST DEL BLOG NUMQUAM DEFICERE ANIMO

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG HEART IN A CAGE

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG IGNORANTE CONSAPEVOLE

Caricamento...
 

CHI PUò SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963