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Messaggi del 26/02/2015

La Secchia Rapita 06-1

Post n°1290 pubblicato il 26 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO SESTO.

ARGOMENTO

S'accozzano i due campi, e Salinguerra
a destra i suoi contro i nemici oppone:
Enzio il sinistro corno apre, ed atterra
il pretore, il carroccio e 'l gonfalone;
ma da' suoi poscia abbandonato in guerra,
resta de' Bolognesi al fin prigione.
Fa gran prove Perinto, e s'appresenta
Bacco orribile al Potta, e lo sgomenta.


        1
Sovra l'arco del ciel col sole in fronte
partiva Astrea con le bilance il giorno,
quando i due campi già condotti a fronte,
mossero a un tempo l'uno e l'altro corno.
Rintronaron le valli, il piano e 'l monte,
gli argini tutti e la foresta intorno,
mugghiâr le selve e 'l fiume indi vicino,
e le balze tremâr de l'Appennino.

        2
Qual su lo stretto ove il figliol di Giove
divise l'Oceàn dal nostro mare,
se l'uno e l'altro la tempesta move
vansi l'onde superbe ad incontrare;
cadono infrante, e valle orribil dove
dianzi eran monti, e spaventosa appare;
trema il lido, arde il ciel, tuonano i lampi:
tal fu il cozzar de' due famosi campi.

        3
Offuscò il cielo, a i rai del sol fe' scorno
il grandinar de le saette sparte.
Chi si ricorda aver veduto il giorno
del protettor de la città di Marte
da l'alta mole d'Adriano intorno
cader nembi di razzi in ogni parte,
pensi che fosse ancor piú denso il velo
de la pioggia ch'allor cadde dal cielo.

        4
Al frangersi de l'aste, al gran fracasso
de l'incontro de l'armi e de' cavalli,
sembran tutte cader le selve a basso
svelte da l'Alpi, e risonar le valli.
Piú non appar da lato alcuno il passo,
fuggono le distanze e gli intervalli;
e son già i prati e le campagne amene
di morte e di terror tutte ripiene.

        5
Or preme e incalza, or torna indietro il piede
questa ordinanza e quella; e dove inchina
una schiera talor l'altra succede,
e ripara in altrui la sua ruina:
indi torna la prima e l'altra cede,
come parte e ritorna onda marina.
Van quinci e quindi i capitani accorti,
spingendo i vili e rinfrancando i forti.

        6
- Ah, dicea Salinguerra, uomini vani
che gite armati sol per ornamento,
ove sono le spade, ove le mani,
ove il cor generoso e l'ardimento?
Se vi fanno tremar questi villani
rozzi, senz'armi e senza esperimento,
come potrò sperar ch'oggi vi mova
desio di fama a piú lodata prova?

        7
Questa è la via dove a la gloria vassi:
chi ha spirito d'onor mi segua appresso.
Ecco v'apro il sentiero; ora vedrassi
chi avrà desio d'immortalar sé stesso. -
Cosí parla il feroce; e volge i passi
dove il nemico stuol vede piú spesso;
urta il caval, la lancia abbassa, e pare
un vento fier che spinga indietro il mare.

        8
Qual ferito nel petto e qual nel volto
fa l'incontro cader de l'asta dura:
si dirada d'intorno il popol folto,
ognun scansa che può sua ria ventura,
scontra Stefano e Ghino: e al primo, colto
ne l'occhio destro, il ciel ratto s'oscura:
cade l'altro passato a la gorgiera;
indi uccide Brandan da la Baschiera.

        9
Aperta avea la temeraria bocca
Brandano appunto ad oltraggiar quel forte,
quando il ferro crudel giugne, e l'imbrocca
tra denti e denti, e lo conduce a morte.
Ricovra l'asta il valoroso; e tocca
a la cima de l'elmo Ilario Corte,
giovine irresoluto e spensierato,
e 'l fa cader disteso in un fossato.

        10
Non lunge il conte di Culagna vede
pomposo d'armi e di bei fregi altero:
e come ardito e poderoso il crede,
gli sprona incontra con sembiante fiero.
Ma il conte lesto si rilancia a piede,
e si ripara dietro al suo destriero:
trascorre l'asta; ed ei subito s'alza,
tocca a pena la staffa, e in sella balza.

        11
Chi vide scimia a la percossa infesta
d'importuno fanciul ratta involarsi,
indi tornar d'un salto agile e presta
passato il colpo, e a la finestra farsi;
pensi che contro a quella lancia in resta
tal rassembrasse il conte a l'abbassarsi,
e tale al risalir giusto a pennello
tutto in un tempo e non parer piú quello.

        12
E rivoltato a Bernardin Manetta
che 'l rimirava e s'era mosso a riso:
- A fé, dicea, che l'ho giucata netta,
che colui non mi colga a l'improviso.
Io dismontai per orinare in fretta,
e 'l fellon che si stava in su l'aviso,
m'avea spinto il destrier per fianco addosso:
ma guai a lui se riscontrar lo posso. -

        13
Cosí dicendo, a man sinistra torse
dove spigneano innanzi i Fiorentini,
credendo uscir de la battaglia forse;
ma quando vide Anton Francesco Dini
da quella parte co' cavalli opporse,
rivolto a' suoi soldati e a' suoi vicini:
- Ritirianci, dicea, da questo sito;
ch'è troppo aperto e non è ben partito. -

        14
Roldano, che l'udí, si voltò ratto
e 'l percosse del calcio de la lancia
dicendo: - Codardon, feccia di matto,
non ti si tigne di rossor la guancia?
Se tu quinci non esci o non stai quatto,
giuro a Dio, te la caccio ne la pancia. -
Il conte rispondea: - Non v'adirate,
ché 'l dissi per provar queste brigate. -

        15
Torto il mira Roldano; e sol col guardo
gli fa tremar le fibre e le midolle:
indi spronando un corridor leardo,
che 'l pregio al vento e a la saetta tolle,
drizza la lancia al giovine Averardo
che di sangue nemico ei vede molle;
e ferito nel braccio e ne l'ascella
il transporta su i fior giú de la sella.

        16
Ma il Dini gli sospinge incontro i sui,
e grida loro: - Ah pinchelloni, e dove
vi rinculate voi da cotestui,
che fuor de gli aitri a battagliar si muove?
Spignete innanzi: a che badate vui?
Testé con alte imaginate prove
affettavate quie come un popone
il mondo: ora v'addiaccia il sollione? -

        17
Sprona, cosí dicendo, ove piú stretto
vede lo stuol che conducea Roldano.
È d'un colpo di stocco a mezzo 'l petto
tolta l'indegna vita a Barisano.
Al Teggia che 'l feriva in su l'elmetto
con una mazzaranga ch'avea in mano,
credendolo schiacciar come un ranocchio,
d'un rovescio levò l'uno e l'altr'occhio.

        18
Cosí quivi si pugna e si contende;
ma da la parte verso 'l mezzo giorno
il Re con piú fervor gli animi accende,
e spigne i suoi contra 'l sinistro corno.
Ei qual cometa minacciosa splende
d'oro e di piume alteramente adorno:
cinto è de' suo' Germani, e lor rivolto
parla in barbaro suon con fiero volto:

        19
- O de l'imperio di Germania fiore,
anime eccelse, eccovi l'ora e 'l campo,
in cui risplenderà vostro valore
di glorioso inestinguibil lampo.
Io confidato in voi mi sento il core
tutto infiammar di generoso vampo;
e su questi papisti oggi disegno
di lasciar con la spada orribil segno.

        20
Seguitatemi voi, ché l'empia setta
qui tutte accolte ha le sue forze estreme,
perché possa una sol giusta vendetta
l'ira sfogar di tante ingiurie insieme.
Se vaghezza di fama il cor v'alletta,
se l'onor de la patria oggi vi preme,
se v'è caro mio padre o molto o poco,
quest'è il tempo ch'io 'l vegga e questo è il loco. -

        21
Cosí detto, il feroce urta il destriero,
e l'asta a un tempo e la visiera abbassa,
e tra' nemici impetuoso e fiero,
qual fulmine tra cerri incontra e passa.
Baldin Ghiselli e Lippo Ghiselliero
e Antonel Ghisellardi in terra lassa,
e Melchior Ghisellini e Guazzarotto,
bisavo che fu poi di Ramazzotto.

        22
Giandon da la Porretta era un Petronio
grande come un gigante, o poco meno,
e in vece d'un caval reggea un demonio,
(cred'io) senza adoprar sella né freno:
un de' mostri parea di Sant'Antonio,
né pasceva il crudel biada né fieno,
ma gli uomini mangiava, e distruggea
co' denti il ferro, e un corno in testa avea.

        23
La fera bestia un dopo l'altro uccise
quattro Tedeschi, ed era dietro al quinto:
ma il Re la lancia in mezzo 'l cor gli mise
e gliel fece cader già mezzo estinto.
Ruppesi l'asta e 'l Re non si conquise,
ma tratta fuor la spada ond'era cinto,
divise d'un fendente il capo armato
a Giandon, che già in piedi era levato.

        24
Bigon di Geremia, che di lontano
a la strage de' suoi gli occhi rivolse,
per fianco addosso al Re spronò; ma in vano,
ché 'l conte di Nebrona il colpo tolse.
Il conte cadde a quell'incontro al piano,
ma subito fu in piedi e si raccolse,
ché vide il suo signor mover d'un salto
contra Bigone e alzar la spada in alto.

        25
Bigone attende il Re ne l'armi stretto,
ma non gli giova alzar né oppor lo scudo,
ché 'l brando il fende e fa balzar l'elmetto
sciolto da' lacci impetuoso e crudo.
Raddoppia il colpo il valoroso, e netto
gli tronca da le spalle il capo ignudo:
esce lo spirto, e in caldo fiato unito
raggirandosi vola ov'è rapito.

        26
Morto Bigone, il Re tutta fracassa
la schiera sua, né qui l'impeto arresta;
urta per fianco impetuoso, e passa
tra la gente pedestre e la calpesta.
Ovunque il corso drizza, uomini lassa
uccisi a monti la crudel tempesta
del barbaro furor, che 'l Re seconda,
e di fiumi di sangue i campi inonda.

        27
Seguono i Garfagnini, e 'l Re sospinto
da fatale furor, già penetrato
dove il carroccio di sue guardie cinto
fra l'ultime ordinanze era fermato,
con l'urto di mill'aste apre quel cinto.
Cede ogn'incontro al vincitore armato:
e del carroccio è giú tratto di botto
lo stendardo maggior squarciato e rotto.

        28
Fu al podestà messer Filippo Ugone,
ch'era rimaso attonito e perduto,
da certi Garfagnin tolto il robone
e la berretta ch'era di veluto;
ei del carroccio si lanciò in giubbone,
pregando in vano e addimandando aiuto;
e da l'impeto fier colto, in un fosso
cadde rovescio col carroccio addosso.

        29
Gli asini, che condotte a i Fiorentini
le noci dietro e le castagne aviéno,
a vista del carroccio assai vicini
stavan pascendo in un pratello ameno;
quando i Tedeschi a un tempo e i Garfagnini
trassero quivi tutti a sciolto freno
da l'ingordigia di rubar tirati:
e non restar col Re trenta soldati.

        30
Il sagace Tognon, che la vendetta
pronta si vide, uní le genti sparte;
e diede aviso a i due Malvezzi in fretta
che volgessero tosto a quella parte:
indi avendo al tornar la via intercetta
a quei che saccheggiavano in disparte
i fichi secchi e le castagne in forno,
cinse d'armi e cavalli il Re d'intorno.

        31
Il Re, che si rivolge e 'l guardo gira
e 'l suo periglio in un momento ha scorto,
dal profondo del cor geme e sospira,
ché senza dubbio alcun si vede morto:
ma il dolor cede e si rinforza l'ira,
né vuol morir senza vendetta a torto;
stringe la spada, urta il destriero, e dove
piú chiuso è il passo, impetuoso il move.

        32
Qual tigre in su la preda a la foresta
colta da' cacciatori e circondata,
poi che al periglio suo leva la testa,
volge fremendo i livid'occhi e guata;
indi s'avventa incontra l'armi, e resta
del proprio e de l'altrui sangue bagnata,
tal fra l'armi nemiche il Re s'avventa,
ché 'l magnanimo cor nulla paventa.

        33
Mena al primo ch'incontra e a Braganosso
figliuol di Pandragon Caccianemico
l'elmo divide e la cotenna e l'osso,
la faccia, il petto, e giú fino al bellico:
indi toglie la vita a Min del Rosso,
ch'un'armatura avea di ferro antico
da suo bisavo in Francia già comprata,
e tutti la tenean per incantata.

        34
Non la poté falsar la buona spada,
ma piegò il cavaliero in su la sella,
e scorrendo a l'in su per dritta strada
passò la gola e uscí da una mascella,
onde convien che Mino estinto cada;
vinto è l'incanto da nemica stella:
non può cozzar col ciel l'ingegno umano,
ch'eterno è l'uno, e l'altro è frale e vano.

        35
Di due percosse il Re fu colto intanto
su l'elmo e a sommo 'l petto al gorgerino:
de la seconda ebbe l'onore e 'l vanto
Vanni Maggio figliuol di Caterino:
ma con forza maggior dal destro canto
il ferí Gabbion di Gozzadino
che con un colpo d'alabarda fiero
di testa gli levò tutto il cimiero.

        36
A lui si volse il Re con un riverso,
e 'l colse a punto al confinar del ciglio,
tutta la testa gli tagliò a traverso:
balzò un occhio lontan da l'altro un miglio,
per la cuffia il cervel se 'n gío disperso,
stè in sella il tronco e l'alma andò in esiglio;
e 'l destriero, che 'l fren sentía piú lasso,
incognito il portava attorno a spasso.

        37
Non ferma qui la furibonda spada
ch'era una lama da la lupa antica.
Ma tronca, svena, fende, apre e dirada
ciò ch'ella incontra, uomini ed armi abbica.
Or quinci, or quindi si fa dar la strada,
ma innumerabil turba il passo intrica:
veggonsi in aria andar teste e cervella,
e nel sangue notar milze e budella.

 
 
 

Il Trecentonovelle 34-37

Post n°1289 pubblicato il 26 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA  XXXIV

Ferrantino degli Argenti da Spuleto, essendo al soldo della Chiesa a Todi, cavalca di fuori, e poi, essendo tornato tutto bagnato di pioggia, va in una casa, dove truova al fuoco di molte vivande e una giovene, nella quale per tre dí sta come li piace.

Altro gastigamento diede Ferrantino degli Argenti da Spuleto a uno calonaco di Todi; però che, essendo il cardinale del Fiesco per la Chiesa in Todi, e avendo condotti soldati, fu tra questi uno che avea nome Ferrantino degli Argenti da Spuleto, il quale io scrittore e molti altri viddono esecutore in Firenze nel MCCCXC o circa, per tal segnale che cavalcava uno cavallo con uno paio di posole di sí smisurata forma che le loro coregge erano molto bene un quarto di braccio larghe.
Essendo stato tolto uno castello nel Todino da uno gentiluomo di Todi, convenne che tutti li soldati vi cavalcassino, fra' quali fu questo Ferrantino; e fatto intorno al castello quel danno che poterono sanza riaverlo, tornandosi verso Todi, venne grandissima piova, di che tutti si bagnarono, e fra gli altri si bagnò Ferrantino piú che nessuno, perché li suoi panni pareano di sadirlanda, tanto erano rasi.
Essendo costui cosí bagnato, entrò in Todi, e andò a smontare ad una casetta che tenea a pigione, e disse ad uno suo paggetto acconciasse i cavalli nella stalla, ed egli andò cercando per la casa se fuoco o legne d'accenderlo trovasse: niuno bene vi trovò, però che era povero scudiere, e la sua magione parea la Badía a Spazzavento.
Come costui vidde questo, e che era tutto bagnato e agghiacciava, dice: "Cosí non debb'io stare". Subito se n'uscío fuori, e d'uscio in uscio mettendo il capo, e salendo le scale, si mise andare cercando l'altrui case, e fare dell'impronto per asciugarsi, se fuoco vi trovasse. Andando d'una in altra, per fortuna capitò ad una porta, là dove intrato e andando su, trovò in cucina uno grandissimo fuoco con due pentole piene, e con uno schidone di capponi e di starne, e con una fante assai leggiadra e giovene, la quale volgea il detto arrosto. Era perugina, e avea nome Caterina. Costei veggendo cosí di subito venire Ferrantino nella cucina, tutta venne meno, e disse:
- Che vuoi tu?
E quelli disse:
- Io vegno testeso di tal luogo, e sono tutto bagnato, come tu vedi: in casa mia non ha fuoco, e indugiare non mi potea, ché io mi serei morto: io ti prego che mi lasci rasciugare, e poi me n'andrò.
Disse la fante:
- O asciugati tosto, e vatti con Dio, ché se messer Francesco tornasse, che ha una gran brigata a cena con lui, non l'averebbe per bene, e a me darebbe di molte busse.
Disse Ferrantino:
- Io 'l farò, chi è questo messer Francesco?
Ella rispose:
- E' messer Francesco da Narni, che è qui calonaco, e sta in questa casa.
Disse Ferrantino:
- O io sono il maggior amico ch'egli abbia -; (e non lo conoscea però).
Disse la fante:
- Deh spàcciati, ché io sto tuttavia con le febbri.
Ferrantino dicea:
- Non temere, ché io serò tosto asciutto.
E cosí stando, messer Francesco tornò, e andando in cucina a provvedere le vivande, vidde Ferrantino che s'asciugava, e dice:
- Che ci fa' tu? Chi è costui?
E Ferrantino dice chi è, come è.
Disse messer Francesco:
- Mal che Dio ti dia; tu déi essere un ladroncello, a entrare per le case altrui; escimi testè di casa.
Dice Ferrantino:
- O Pater reverende, patientia vestra , tanto che io m'asciughi.
Dice il calonaco:
- Che Pater merdente ? io ti dico escimi di casa per lo tuo migliore.
E Ferrantino fermo, e dice:
- Io mi asciugo forte.
- Io ti dico che tu m'esca di casa, se non ch'io t'accuserò per ladro.
E Ferrantino dice:
- O prete Dei, miserere mei -; e non si muove.
Quando messer Francesco vede che costui non si parte, va per una spada, e dice:
- Al corpo di Dio, che io vedrò se tu mi starai in casa a mio dispetto -; e corre con la spada verso Ferrantino.
Veggendo questo, Ferrantino si leva in piede, e mette la mano alla sua, dicendo:
- Non truffemini.
E tratta della guaina si fa incontro al calonaco, tanto che lo rinculò nella sala, e Ferrantino incontrogli, e cosí amendue si trovorono in sala, facendo le scaramucce sanza toccarsi.
Quando messer Francesco vede che non lo può cacciar fuori, eziandio avendo presa la spada, e come Ferrantino digrigna con la sua, disse:
- Per lo corpo di Dio, ch'io andrò testeso ad accusarti al cardinale.
Disse Ferrantino:
- Io voglio venire anch'io.
- Andiamo, andiamo.
E scendendo amendue giú per la scala, giunti alla porta, dice messer Francesco a Ferrantino:
- Va' oltre.
Dice Ferrantino:
- Io non andrei innanzi a voi, che sete officiale di Cristo.
E tanto disse, che messer Francesco uscí fuori prima.
Come fu uscito, e Ferrantino pigne l'uscio, e serrasi dentro; e subito, come su è, quante masserizie poté trovare da ciò gittò giú per la scala, acciò che l'uscio dentro fusse ben puntellato; e cosí n'empié tutta la scala, tanto che due portatori non l'arebbono sgombra in un dí; e cosí s'assicurò che l'uscio si potea ben pignere di fuori, ma aprire no. Veggendosi il calonaco di fuori cosí serrato, gli parve essere a mal partito, veggendo in possessione della carne cotta e della cruda uno che non sapea chi si fosse; e stando fuori, molto piacevolmente chiamava gli fosse aperto.
E Ferrantino fassi alle fenestre, e dice:
- Vatti con Dio per lo tuo migliore.
- Deh apri, - dicea il calonaco.
E Ferrantino dicea:
- Io apro -; e apriva la bocca.
Veggendo costui esser fuori della sua possessione e dell'altre cose, e ancora esser beffato, se n'andò al cardinale, e là si dolse di questo caso.
In questo, venendo l'ora della cena, la brigata che dovea cenare con lui, s'appresentano e picchiano l'uscio. Ferrantino si fa alle fenestre:
- Che volete voi?
- Vegnamo a cenare con messer Francesco.
Dice Ferrantino:
- Voi avete errato l'uscio; qui non sta né messer Francesco, né messer Tedesco.
Stanno un poco come smemorati, e poi pur tornano e bussano. E Ferrantino rifassi alle fenestre:
- Io v'ho detto che non istà qui; quante volte volete ch'io vel dica? Se voi non vi partite io vi getterò cosa in capo che vi potrà putire, e serebbe meglio che voi non ci foste mai venuti -; e comincia a gittare alcuna pietra in una porta di rincontro perché facesse ben gran romore.
Brievemente, costoro per lo migliore se n'andorono a cenare a casa loro, là dove trovorono assai male apparecchiato; e 'l calonaco, che s'era ito a dolere al cardinale, e che avea cosí bene apparecchiato, convenne si procacciasse d'altra cena e d'altro albergo: e non valse che 'l cardinale mandasse alcuno messaggio a dire ch'egli uscisse di quella casa; ma come alcuno picchiava l'uscio, gli gittava presso una gran pietra; di che ciascuno si tornava tosto a drieto.
Essendo ognuno di fuori stracco, dice Ferrantino alla Caterina:
- Fa' che noi ceniamo, ché io sono oggimai asciutto.
Dice la Caterina:
- Me' farai d'aprire l'uscio a colui di cui è la casa, e andarti a casa tua.
Dice Ferrantino:
- Questa è la casa mia; questa è quella che Dio misericordioso m'ha istasera apparecchiato. Vuo' tu che io rifiuti il dono che m'ha dato sí fatto signore? Tu hai peccato mortalmente pur di quello che tu hai detto.
Ella la poté ben sonare che Ferrantino n'uscisse; e' convenne, o per forza o per amore, ch'ella mettesse le vivande in tavola, e ch'ella sedesse a mensa con Ferrantino, e cenorono l'uno e l'altro molto bene: poi rigovernato l'avanzo delle vivande, disse Ferrantino:
- Qual'è la camera? andiànci a dormire.
Dice la Caterina:
- Tu se' asciutto, e ha' ti pieno il corpo, e or ci vogli dormire? in buona fé tu non fai bene.
Dice Ferrantino:
- Doh, Caterina mia, se per questa mia venuta qui io avesse peggiorata la tua condizione, che mi diresti tu? io ti trovai che cocevi per altrui in forma di fante, e io t'ho trattata come donna; e se messer Francesco e la sua brigata fosse venuta a cena qui, la tua parte serebbe stata molto magra, là dove tu l'hai avuta molto doppia, e hai acquistato paradiso a sovvenire me, che era tutto molle e affamato.
La Caterina dice:
- Tu non déi essere gentiluomo, ché tu non faresti sí fatte cose.
Dice Ferrantino:
- Io sono gentiluomo, e ancora conte, la qual cosa non sono quelli che doveano cenar qui; e tanto hai tu fatto maggior bene: andiànci a dormire.
La Caterina disdicea, ma pur nella fine si coricò con Ferrantino, e non mutò letto, però che in quello medesimo dormía col calonaco; e cosí tutta notte si rasciugò con lei Ferrantino, e la mattina levatosi, tanto stette in quella casa quanto durorono le vivande, che fu piú di tre dí, ne' quali messer Francesco andò per Todi, e guardando alcun'ora da lungi verso la sua casa, parea uno uomo uscito di sé, mandando alcuna volta spie a sapere se Ferrantino ne fosse uscito; e se alcuno v'andava, le pietre dalle fenestre erano in campo. Nella fine, consumate le vivande, Ferrantino se n'uscío per un uscio di drieto, ché per quello dinanzi per le molte masserizie gittate dentro non poteo; e andossene alla casa sua povera e mal fornita, là dove il paggio e due sua cavalli aveano assai mal mangiato, e ivi fece penitenza; e messer Francesco tornò a casa sua per l'uscio di drieto, ed ebbe a trassinare e racconciare di molte masserizie in iscambio della cena.
E la Caterina li diede ad intendere che ella avea sempre conteso, e difesosi da lui, e come di lei alcuna cosa non avea aúto a fare. Poi il cardinale, per lo richiamo del calonaco, mandò e per l'uno e per l'altro, dicendo a Ferrantino che si scusasse d'uno processo che gli avea formato addosso. Ferrantino scusandosi dicea:
- Messer lo cardinale, voi non ci predicate altro se non che noi abbiamo carità verso il prossimo: essendo io tornato dell'oste tutto bagnato, in forma che io era piú morto che vivo, in casa mia non trovando né fuoco, né altro bene, morire non volea. Abbatte'mi, come volle Iddio, in casa questo valentre religioso, il quale è qui, trovandosi uno gran fuoco con pentole e con arrosti intorno; mi puosi a rasciugare a quello, sanza fare o molestia o rincrescimento a persona. Costui giunse là, e cominciommi a dire villania, e che io gli uscisse di casa. Io continuo con buone parole, pregandolo mi lasciasse asciugare: non mi valse alcuna cosa, ma con una spada in mano mi corse addosso per uccidermi. Io, per non esser morto, misi mano alla mia per difendermi da lui infino alla porta da via, là dove uscendo elli fuori, per poter menarla alla larga, e uccidermi com'io uscisse dell'uscio, io mi serrai dentro e lui di fuori, solo per paura della morte; e là sono stato per questa paura, sa Dio come, infino ad oggi. Se mi vuol far condennare, egli ha il torto; io non ci ho che perdere alcuna cosa, e posso andare e stare a casa mia: io non ci uscirò, che io non sappia perché; ché quanto io, mi tengo offeso da lui.
Udendo il cardinal questo, chiamò il calonaco da parte, e disse:
- Che vuoi tu fare? tu vedi quello che costui dice, e puoi comprendere chi egli è; facendo pace fra voi, credo che sia il meglio, innanzi che tu ti voglia mettere a partito con un uomo di soldo: - di che elli consentío.
E simigliantemente chiamò Ferrantino da parte, e insieme li pacificò, e non sí che 'l calonaco non guardasse a stracciasacco Ferrantino un buon pezzo.
Cosí Ferrantino, asciutto che fu, ed empiutosi il corpo tre dí, e con la femina del calonaco aúto quel piacere che volle, ebbe buona pace; la qual vorrei che avesse ogni laico o secolare, adoperando le cose morbide e superflue de' cherici, e a loro intervenisse sempre delle loro vivande e conviti e femine, quello che intervenne a questo nobile calonaco, che sotto apparenza onesta di religione, ogni vizio di gola, di lussuria e degli altri, come il loro appetito desidera, sanza niuno mezzo usano.


NOVELLA XXXV

Uno chericone, sanza sapere gramatica, vuole con interdotto d'uno cardinale, di cui è servo, supplicare dinanzi a papa Bonifazio uno benefizio, là dove dispone che cosa è il terribile.

E per mostrare bene quanto gran parte de' cherici vengono avere li beneficii sanza scienza e discrizione, dirò qui una novelletta, che tu, lettore, il potrai molto ben conoscere. Al tempo di papa Bonifazio, essendo servo d'uno de' suoi cardinali uno chericone, che, non che sapesse gramatica, appena sapea leggere, volendo il detto cardinale di lui fare qualche cosa, gli fece fare una supplicazione per impetrare alcuno beneficio dal santo padre. E conoscendolo bene grossolano, disse:
- Vie' qua. Io t'ho fatto fare una supplicazione, la qual voglio che tu dea innanzi al santo padre, e io ti menerò dinanzi da lui. Va' arditamente, però che ti domanderà alcuna cosa per gramatica; se sai rispondere da te a quello che ti domanda, rispondi e non temere; se non lo intendi, e non sapessi rispondere, guarderai a me, che sarò da costa al papa, ed io t'accennerò quello che tu debba dire, sí che mi potrai intendere; e secondo comprenderai da me, cosí risponderai.
Disse il chericone, che averebbe meglio saputo mangiare uno catino di fave:
- Io lo farò.
Lo cardinale trovò la supplicazione, e datogliele, il menò dinanzi al papa, raccomandandolo alla sua santità; e 'l chericone, gittandosi ginocchione, glie la porse; e 'l cardinale si mise ritto da lato al papa, e volto verso il chericone, solo per accennarli quello che dovesse dire se bisognasse. Come il papa ebbe la supplicazione, la lesse; e guardato questo cherico, considerando che fosse chi egli è, lo domandò:
- Quid est terribilis?
Il cherico, udendo questo nome cosí terribile, e non sapendo che rispondere, guardava il cardinale, il quale menava il braccio, come quando si dà lo 'ncenso col terribile. E 'l cherico, pensando a quello che gli accennava, disse a lettere grosse:
- Il tale dell'asino, quando egli è ritto, padre santo.
Il papa, udendo questo, parve che dicesse: "Egli ha meglio risposto che potesse. E qual'è piú terribile cosa che quella?" E disse:
- Fiat, fiat  -; e volto al cardinale ridendo, disse: - Menalo via; fiat, fiat.
E cosí fu fatto.
Quanto fu grosso questo chericone, che non considerò quello che disse, né innanzi a cui, facendo cosí bella sposizione! e per questo ebbe il beneficio; ché avendo saputo qualcosa, forse non l'arebbe aúto. E forse fu questa sua grossezza cagione di farlo venire a maggiore dignità, come spesso interviene a molti, a cui viene il nostro Signore tra le mani, li quali hanno meno discrizione che gli animali irrazionali.


NOVELLA XXXVI

Tre Fiorentini, ciascuno di per sé, e con nuovi avvisi per la guerra tra loro e' Pisani, corrono dinanzi a' Priori, dicendo che hanno veduto cose che niuna era presso a cento miglia; e cosí ancora che avevano fatto, e non sapeano che.

Molto seppono meno quello che dicessono tre Fiorentini in questo capitolo, che 'l cherico passato. Nel tempo che l'ultima volta li Fiorentini ebbono guerra co' Pisani, essendo gl'Inghilesi, che erano dalla parte de' Pisani, cavalcati verso il terreno fiorentino, uno Geppo Canigiani, il quale era a un suo luogo a San Casciano, spaventato da uno romore o d'acqua, o di vento, come interviene quando viene mal tempo, s'avvisò quello poter esser l'esercito de' nimici, e portar la novella a' Signori da Firenze, per venire in grazia. E cosí salito a cavallo, a spron battuti n'andò al palagio de' Priori a smontare; e andato dinanzi a' Signori, disse che venía da San Casciano, e ch'e' nimici con grandissimo romore ne veníano verso Firenze.
Li Signori domandano se gli ha veduti; colui dicea di no, ma che gli avea sentiti.
- Come gli sentisti?
E quelli dicea che avea udito un gran romore.
Dicono li Priori:
- O che sai tu che quel romore fossono li nimici? Rispose:
- O egli erano cavalieri, o ell'era acqua.
Strinsono le spalle e ringrazioronlo, e andossi con Dio.
Il secondo fu uno che avea nome Giovanni da Pirano il quale essendo fuori della porta a San Niccolò su uno suo cavallaccio, certi buoi fuggendo verso la porta detta, elli credendo avere li nimici al gherone, diede delli sproni alla giumenta, e fuggendo nella terra dinanzi a' detti buoi, non restò mai che egli fu dinanzi a' detti Priori, dicendo:
- Mercè per Dio, che tutti i buoi digiogati fuggono dentro per la porta San Niccolò.
E' Priori notano costui con l'altro di sopra, e dissono che stesse attento, e spesso recasse loro novelle.
Il terzo fu uno che avea nome Piero Fastelli, il quale, benché fosse mercatante, avea per usanza con uno balestro e con le corazzine andarsi in tempo di guerra cosí a piede, quando un miglio e quando due. Avvenne che, essendo gl'Inghilesi col campo pisano nel piano di Ripole presso due miglia a Firenze, e per uno pessimo tempo piovoso e nebbioso, durato molti dí, essendo ito Piero una mattina forse una balestrata fuori della detta porta, saettoe uno verrettone verso il greto d'Arno; tornò a Firenze, e subito andò a' detti Priori, e disse:
- Signori miei, io vegno presso presso al campo de' nimici, e ho saettato un gran verrettone in gran danno di loro; ma la folta nebbia non m'ha lasciato discernere.
Li Signori, guatano l'uno l'altro, e dicono:
- Piero, de' tuoi pari ci vorrebbe assai, ché con meno di cinquanta verrettoni si sconfiggerebbono li nimici: va' e ingegnati di saettarne, e recaci novelle spesso.
Cosí furono avvisati questi signori in pochi dí da tre valentri uomeni di guerra di tre cose sí fatte che 'l Dabuda n'averebbe scapitato. E però chi è uso alla mercanzia non può sapere che guerra si sia; però si disfanno le comunità, quando non istanno in pace; che standosi a fare l'arte loro, dicono: "Noi abbiamo sconfitto li nimici"; come fa la mosca, che è in sul collo del bue, quando gli fosse detto: "Che fai, mosca?" e quella dice: "Ariamo".


NOVELLA XXXVII

Bernardo di Nerino, vocato Croce, venuto a questione a uno a uno con tre Fiorentini, confonde ciascuno di per sé con una sola parola.

Seppe meglio quello che disse in tre cose a tre uomeni, essendo a contesa con loro, costui di cui parlerò al presente. Bernardo di Nerino, vocato Croce, fu nel principio barattiere, e in questo tempo fu di sí forte e disprezzata natura che si metteva scorpioni in bocca, e con li denti tutti gli schiacciava, e cosí facea delle botte e di qual ferucola piú velenosa. S'egli era di diversa natura, ciascuno il pensi, che per accesa, continua e mortal febbre, sfidato da' medici, veggendolo molto ardere, vollono fare notomia di sí fatta natura, addomandandola elli: il feciono mettere nudo in una bigoncia d'acqua fredda, come esce del pozzo, e preso costui cosí ardente e nudo, ve l'attufforono dentro, il quale cominciando a tremare e schiacciare li denti, stato un pezzo, lo rimisono nel letto, e subito cominciò a migliorare, e spegnersi l'arsione in forma che guerío.
Ora, tornando alla materia, costui prestando in Frioli di barattiere nudo tornò ricco a Firenze, e venendo spesso a parole con altrui, porgea detti nel quistionare che confondea ognuno; e io scrittore fui presente a tre volte, le quali a piedi si diranno. La prima fu, che avendo parole con uno stato barattiere, com'elli, assai disutile uomo, chiamato Fascio di Canocchio, il detto Fascio disse al Croce:
- E' ti pare essere un gran maestro, e' mi darebbe cuore di venderti sul ponte a Sorgano.
E 'l Croce rispose:
- Io ne sono molto certo, ed è segnale, quando si trovasse il compratore di me, che vaglio qualche cosa; ma e' non mi darebbe cuore di vendere te in sul ponte al Rialto, tenendoviti suso tutto il tempo della vita mia, tanto se' tristo e doloroso.
Costui ammutoloe e rimase confuso.
La seconda volta il detto Croce ebbe questione su la piazza di mercato nuovo con uno chiamato Neri Bonciani, il quale parea piú tapino che Fascio di Canocchio, era sparuto e avarissimo, ed eranvi molti cittadini tratti al romore. Quando vedde assai gente là corsa, e quelli si volge a loro, dicendo contra il detto Neri:
- Deh guardate, signori, per cui fu morto Cristo, che è cosa da non esser mai lieto né contento.
La brigata tutta comincia a ridere, e a Neri si turò la strozza in sí fatta forma che si partí, e mai non disse parola.
La terza fu che Giovanni Zati, non essendo ancora cavaliero, essendo molto piccolo e sparuto, e avendo il padre prestato in Frioli, volle mordere il Croce dell'anima nel prestare che avea fatto, e lui mettea in parole nel paradiso; e 'l Croce disse dopo molte parole:
- Giovanni, io ti vorrei fare una piccola questione; e questa è che io vorrei saper da te, se tu andassi al luogo comune, e fatto el mestiero del corpo, e avessi bisogno d'adoperare la pezza, e in quel luogo fosse dall'un lato sciamiti, dall'altro drappi, da un'altra parte fossono pezze per quello mestiero, qual piglieresti per nettarti?
Rispose:
- Piglierei le pezze da quel mestiero.
E 'l Croce disse presto:
- E cosí farà il diavolo di te.
Costui sentendosi cosí mordere, e la sparuta vista e l'opere sue, che ancora non meritavono paradiso, come si dava a credere, mai né allora né poi si stese in simil ragionamenti con lui.
E cosí questo Croce cavò d'errore questi tre errati di loro medesimi, li quali sono molti come costoro che s'ingannono sí forte che credono che tutti gli altri siano ciechi, e a loro pare avere gli occhi del lupo cerviere, non pensando chi siano, né quanto vaglino l'opere loro, essendo peggiori che tali con cui contendono, si vogliono fare di buona terra, mostrandosi buoni, essendo il contrario. E per questo nacque quel proverbio: "Lo sbandito corre drieto al condennato". Ma a tutti intervenisse che s'abbattessono al Croce, il quale non essendo Socrate, non Pittagora, non Origene, né degli altri filosofi ch'ebbono profonde sentenzie, ma uno omicciatto disutile, con cosí nuove ragioni che gli confondesse come confuse questi tre con cui venne a questione: questo non gli diede scienza, ma sottigliezza e ingegno di natura.

 
 
 

La Secchia Rapita 05-2

Post n°1288 pubblicato il 26 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

        34
Seguía l'insegna di Milano, e avea
gran gente in su le scarpe e in su le selle,
ch'ovunque il guardo di lontan volgea,
rincarava le trippe e le fritelle.
Sei mila pacchiarotti a piè reggea
Marion di Marmotta Tagliapelle;
mille cavalli avean per capitani
Galeazzo e Martin de' Torriani.

        35
La terza insegna fu de' Fiorentini,
con cinque mila tra cavalli e fanti,
che conduceano Anton Francesco Dini
e Averardo di Baccio Cavalcanti:
non s'usavano starne e marzolini,
né polli d'India allor, né vin di Chianti:
ma le lor vittuaglie eran caciole,
noci e castagne e sorbe secche al sole.

        36
E di queste n'avean con le bigonce
mille asinelli al dipartir carcati,
acciò per quelle strade alpestre e sconce
non patisser di fame i lor soldati:
ma le some coperte in guisa e conce
avean con panni d'un color segnati,
che facean di lontan mostra pomposa
di salmeria superba e preziosa.

        37
Ma piú di queste numerosa molto
la quarta schiera e bella in vista uscía,
la gran Donna del Po tutto raccolto
quivi di sua milizia il fiore avía.
La ricca gioventú superba in volto
di porpora e di fregi ornata gía.
Fiammeggia l'oro, ondeggiano i cimieri,
passano i fanti armati e i cavalieri.

        38
Tre mila i cavalier sono, e due tanti
premon col piè de la gran madre il dorso:
Maurelio Turchi è il capitan de' fanti,
e de' cavalli il Bevilacqua Borso.
Ma splende sovra questi e sovra quanti
vengono di Bologna al gran soccorso,
il magnanimo cor di Salinguerra,
che fa del nome suo tremar la terra.

        39
Occupata di fresco avea Ferrara
Salinguerra, e nemico era a la Chiesa;
ma i Petroni l'avean solo per gara
tratto con larghi doni in lor difesa.
Il nunzio che sapea la cosa chiara,
tenne sopra di lui la man sospesa;
lasciò passarlo e poi segnò la croce:
ma se n'avide e rise il cor feroce.

        40
Ha seco il fior de la Romagna bassa
che volontaria segue i segni suoi;
Lugo, Bagnacavallo, Argenta e Massa,
Cotognola e Barbian madri d'eroi:
questa gente con l'altra unita passa,
ma sua chiara virtú la scevra poi;
è 'l capitan che la conduce a piede
Faceo Milani, uom d'incorrotta fede.

        41
Ravenna e Cervia sotto una bandiera
seguono i Ferraresi a mano a mano,
di lance e spiedi armate a la leggiera;
e Guido da Polenta è il capitano.
Di Cervia sol la numerosa schiera
potea ingombrar per molte miglia il piano,
se non spargeano l'aria e 'l sito immondo
i cittadini suoi per tutto il mondo.

        42
Passano in ordinanza i fanti armati,
poscia di cavalier segue un drappello,
due mila a piè, trecento incavallati
(vocabol fiorentino antico e bello).
Va pomposo il signor de' Ravennati
sopra un nobil corsier di pel morello
stellato in fronte, che col piè balzano
par che misuri a passi e salti il piano.

        43
Rimini vien con la bandiera sesta,
guida mille cavalli e mille fanti
il secondo figliuol del Malatesta,
esempio noto a gl'infelici amanti.
Il giovinetto ne la faccia mesta
e ne' pallidi suoi vaghi sembianti
porta quasi scolpita e figurata
la fiamma che l'ardea per la cognata.

        44
Halli donata al dipartir Francesca
l'aurea catena a cui la spada appende;
la va mirando il misero, e rinfresca
quel foco ognor che l'anima gli accende:
quanto cerca fuggir, tanto s'invesca,
e 'l suo cieco furor in van riprende,
ché già su la ragione è fatto donno,
né distornarlo omai consigli il ponno.

        45
- Perché donna, dicea, di questo core
legarmi di tua man di piú catene?
Non stringevano assai quelle, onde Amore
de le bellezze tue preso mi tiene?
Ma tu forse notasti il mio furore
dissimulando il mal che da te viene,
furore è il mio, non nego il mio difetto,
ma mi traesti tu de l'intelletto.

        46
Tu co' begli occhi tuoi speranza desti
a la fiamma d'amor viva e cocente,
che sfavillar da questi miei scorgesti
e chiederti pietà del cor languente.
Ma lasso che vo io torcendo in questi
vani pensier l'innamorata mente,
e sinistrando il caro pegno amato
che da sí nobil petto in don m'è dato?

        47
Bella de la mia donna e ricca spoglia
che donata da lei meco te 'n vieni,
acciò che dal suo amor non mi discioglia
e mi leghi in piú nodi e m'incateni;
tu sarai refrigerio a la mia doglia,
tu sarai nuovo pegno a le mie speni. -
La bacia e la ribacia in questi accenti,
e va seco sfogando i suoi tormenti.

        48
Passa il giovine amante, e dopo lui
la gente di Faenza arriva e passa.
Tutti son cavalier, fuora che dui
staffieri a piè del capitan Fracassa.
Del buon sangue Manfredo era costui,
onor di quella età cadente e bassa;
secento ha seco, e cento, i piú garbati,
di maiolica fina erano armati.

        49
Indi Cesena vien sotto l'impero
di Mainardo d'Ircon da Susinana,
che s'è fatto signor di condottiero
di gente disperata empia e scherana.
Ottocento pedoni ha seco il fero
usati a vita faticosa e strana:
non ha cavalleria, ma i fanti sui
vagliono piú ch'i cavalieri altrui.

        50
La nona squadra fu de gl'Imolesi
che da Pietro Pagani eran condotti:
mille e cento tra fanti e banderesi,
saccomanni, briganti e stradiotti;
dopo questi venieno i Forlivesi
da gli Ordelaffi in servitú ridotti;
Scarpetta di condurgli ebbe l'onore,
che de gli altri fratelli era il maggiore.

        51
Forlimpopoli segue, allor cittade
non men de le vicine illustre e degna;
Sinibaldo, il fratel minor d'etade,
regge la schiera sua sott'altra insegna.
Sono ottocento armati d'archi e spade,
mille son gli altri, e vanno a la rassegna
distinti in guisa, che distinta splende
la gara che fra lor gli animi accende.

        52
Con la gente di Fano a tergo a questa
Sagramoro Bicardi il Nunzio inchina,
e guida mille fanti a la foresta
usati a corseggiar quella marina.
A lo scettro ubbidían del Malatesta
Pesaro, Fossombruno e la vicina
Senigaglia: e passâr con la bandiera
di Paulo dianzi entro la sesta schiera.

        53
Poiché fu di Romagna il fior passato,
ecco il carroccio uscir fuor de la porta,
tutto coperto d'or, tutto fregiato
di spoglie e di trofei di gente morta;
lo stendardo maggior quivi è spiegato:
e cento cavalier gli fanno scorta,
fra gli altri di valor chiaro e sovrano;
e Tognon Lambertazzi è il capitano.

        54
Dodici buoi d'insolita grandezza
il tirano a tre gioghi; e di vermiglia
seta hanno la coperta e la cavezza,
le sottogole e i fiocchi in su le ciglia.
Il pretor di Bologna in grande altezza
sopra vi siede, e intorno ha la famiglia
tutta ornata a livrea purpurea e gialla
con balestre da leva e ronche in spalla.

        55
Nomato era costui Filippo Ugone
brescian di quei da la gorgiera doppia:
e di broccato indosso avea un robone
che stridea come sgretolata stoppia.
Secondavano il carro e 'l gonfalone
quattrocento barbute a coppia a coppia,
co' cavalli bardati in fino a terra,
ch'avea mandate Brescia a quella guerra.

        56
Seguiva il battaglion dopo costoro
de' Petronici fanti e l'apparecchio:
eran vintisei mila, e 'l duca loro
il buon conte Romeo Pepoli vecchio,
avea l'armi d'argento a scacchi d'oro
fregiate, e Braccalon da Casalecchio
col braccio manco e con la spalla destra
gli portava lo scudo e la balestra.

        57
Finita di passar la fanteria
passarono i cavalli in tre squadroni,
guidati da Bigon di Geremia,
ch'era in Bologna in quell'età de' buoni;
e da due figli del Malvezzo Elia,
Perinto e Periteo, che fra i campioni
del petronico stuol piú illustri e chiari
risplendean gloriosi e senza pari.

        58
Usciti in armi a la campagna quanti
Petroni e Romagnoli avea la terra,
marciar le schiere; e sette miglia avanti
presero alloggio al solito di guerra.
indi tosto ch'al re de' lumi erranti
le finestre del ciel l'alba diserra,
al suon di mille trombe, al mattutino,
fresco tornò l'esercito in cammino.

        59
Né molto andò che da diversi intese
la nuova, che temea, di Castelfranco,
tosto le squadre in ordinanza stese
per giugner sopra l'inimico stanco;
il destro corno Salinguerra prese,
ritennero i Petroni il lato manco,
presaghi ch'il valor tedesco e sardo
dovea quivi pugnar col Re gagliardo.

        60
Con Salinguerra a destra i Fiorentini
giunsero l'ordinanze, e i Milanesi,
e la squadra con lor de' Perugini,
e la cavalleria de' Riminesi;
il signor di Ravenna e i Faentini,
Fano, Imola, Cesena e i Forlivesi,
Pesaro, Fossombruno e Sinigaglia
il mezzo ritenean de la battaglia.

        61
Il carroccio restò, com'era usanza
tra i Bolognesi, appo il sinistro corno,
con molti cavalier di gran possanza,
e gente a piedi e machine d'intorno.
Indi si mosse il campo in ordinanza;
e giunse che drizzava al mezzo giorno
Febo i cavalli, a l'inimico a fronte,
rintronando di gridi il piano e 'l monte.

        62
Da l'altra parte i Gemignani usciti
di Castelfranco a la battaglia in fretta,
col magnanimo Re de' Sardi uniti
fermâr l'insegne a tiro di saetta:
e posti in fronte i piú feroci e arditi
slargaro i fianchi a l'ordinanza stretta
per non esser rinchiusi e circondati
dal numero maggior di tanti armati.

        63
A manca man dove un torrente stagna,
con quattro mila suoi mangiafagioli
stava Bosio Duara a la campagna,
né seco aveva i Cremonesi soli,
ma quanti scesi giú da la montagna
eran mazzamarroni in vari stuoli;
e la cavalleria del buon Manfredi
copriva i fianchi de la gente a piedi.

        64
Ma incontro a l'austro era nel destro corno
la bandiera real d'Enzio spiegata,
e Garfagnana seco, e quivi intorno
la milizia del pian tutta schierata.
Regiamente pomposo era quel giorno
di sopravesta bianca e ricamata
d'aquile d'oro il Re, con un cimiero
di piume bianche, e sopra un gran corsiero.

        65
Diciannov'anni il giovane reale
non compie ancora ed è mezzo gigante.
Bionda ha la chioma, e 'n tutto 'l campo eguale
non trova di valor né di sembiante.
Se maneggia destrier, s'avventa strale,
se move al corso le veloci piante,
se con la spada o con la lancia fiede,
sia in giostra o sia in battaglia ogn'altro eccede.

        66
Giva intorno esortando in ogni lato
a ben morir que' poveri villani.
Ma il Potta in mezzo a la battaglia armato
d'ira e di rabbia si mordea le mani
di non trovarsi allor Gherardo a lato;
e consegnando a Tomasin Gorzani
i Gemignani a piè, con cambio secco
in luogo del coltel mettea uno stecco.

Fine canto sesto

 
 
 

Il Meo Patacca 08-3

Post n°1287 pubblicato il 26 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Ecco alfin della festa principale
Vie 'l tempo, e la Girannola è ammannita,
Già da lontano se ne dà 'l segnale,
E la gente ce sta ben avvertita.
Si sparano sul Monte Quirinale
Altri pezzi, e 'na torcia comparita
Su 'na loggia s'aspetta d'osservarzi
Un popolo di razzi in aria alzarzi.

Il razzo d'un cannello ha la figura,
Che su un bastone tondo viè infasciato
Da carte sopra carte, e poi s'indura
Messo all'aria, assai ben prima incollato;
Vicino a i capi ha doppia strozzatura,
Polvere l'impe con carbon pistato
Quanno ch'è ben asciutto, e lo stuppino
Dalla parte de sotto esce un tantino.

Allor da un forte spago stretto bene
Si lega a una cannuccia, e questa avanza,
Perch'è più longa, e con la man la tiene,
Chi vuò sparallo, e poi la vita scanza:
Lo stuppino, ch'è sotto, ad arder viene,
Perchè col miccio, com'è costumanza,
Colui te gli da foco, e questo cresce;
Di mano il razzo allor, subbito gl'esce.

Ma perchè su in Castello è differente
Il modo di sparalli, io però lasso
Di raggionà di questi, et al presente,
Di quelli a dir l'alte strisciate io passo.
S'incominza, e da loco, ch'è eminente
Ne calan dui, su stese corde abbasso
Con furia tal, che parano saette,
E danno foco a due girandolette.

Non fanno queste gran compariscenza,
Perchè de' razzi c'è poca sustanza,
Nè se pozzono mette in competenza
Della granne, che già sta in ordinanza.
Sol nella quantità c'è differenza,
Che, ce saria per altro l'uguaglianza;
Pur sono, se chalch'un le paragona,
Quelle le serve, e questa la patrona.

Da dui travi addrizzati in quel contorno
A i fianchi della loggia, ma de sotto,
Le piccole girannole s'alzorno,
Quasi all'altra volessero far motto.
Ma il modo, con che i razzi si sparorno,
Che già de prima favano un ridotto
Su le punte dei travi, il dico adesso,
Con raccontà dell'altri il modo istesso.

Allo scuperto in sopra della loggia,
Tavolato majuscolo è disteso,
Che ha sotto i su' puntelli, e ce s'appoggia,
In maniera che stabbile s'è reso;
È largo e longo, e fatto quasi a foggia
D'un cimbolo, ch'in giù quant'è più steso
Più stregnenno si và; ma è differente,
Che nella coda non è storto gnente.

Fatto così di tavole 'sto piano,
Tutto tutto quant'è di busci è pieno,
Ce se mettono i razzi, a mano a mano,
Che di quelli non son nè più nè meno.
Sol però le cannuccie indrento al vano
Passano delli busci, ma il ripieno,
Ch'è il razzo stesso, perch'è un pò grossetto,
Non passa, e l'impedisce il buscio stretto.

Su 'sto palco una selva ecco apparisce
Di razzi, et un canneto sotto pende,
Poi di polvere il piano si rempisce,
Ch'accanto alli stuppini si distende.
Principio allor si dà, dove fornisce
Il tavolato, e il foco lì s'accende,
Arde de posta la materia arsiccia,
E la stuppinerìa tutta s'appiccia.

Ecco un spruzzo di razzi, e basso e stretto
In tel principio, e poi s'alza e si slarga;
D'una fontana giusto fa l'effetto,
Che sbruffanno all'in sù sempre s'allarga;
Più che crescenno và, più dà diletto
La spampanata risplennente "e larga;
Vien giù massa di lumi, e rimpe l'occhio,
E ogni razzo in calà, ce fa 'l su' scrocchio.

Come assai folte grondano le stille
D'acqua piovana in tempo della state,
Così appunto una pioggia di faville
Cascà si vede, doppo le scrocchiate;
Si spandono per aria, a mille a mille,
E resta, (ancora queste dileguate,
Ch'in poco tempo se ne fa 'l consumo),
D'una festa sì bella, erede il fumo.

Le due girannolette sorelline,
E la girannolona majorasca,
Li scoppi, che si sentono in tel fine,
Quanno la razzarìa, tutta giù casca,
Le sfavillate jofe e pellegrine,
Di botte, fumo e foco una burasca,
Son cose belle sì, ma a parlà schietto,
Il finir troppo presto è il lor difetto.

Hor mentre la materia è già tutt'arza,
E in fumo, svolicchianno, s'è disperza,
De fatto se ne viè nova comparza,
Che da quella di prima è un pò diverza;
Fiamma questa non è, pell'aria sparza,
Che solo a un batter d'occi si sia sperza,
Ma ben goder la pò la gente accorza,
Perchè, non così subbito si smorza.

È questo un foco artifizìaro, e messo
Su i tetti della loggia, et è uno spasso
Il vedè razzi in quantità, che spesso
Schizzan di qua e di là, d'alto e d'abbasso.
L'occhio ce se confonne, e nell'istesso
Confonnersi ci ha gusto, et al fragasso
De i scoppi assai gagliardi, ce s'accorda
Il chiasso delle genti, e l'aria assorda.

Ci son poi certi razzi mazzocchiuti,
Che vanno su per aria, lenti lenti,
E quanno a un certo segno son venuti,
In giù se ne ritornano pesenti;
Scoppiano e partoriscono, minuti,
Più razzetti in un sbruffo, e partorenti
Puro questi son doppo, e in modi ignoti,
Nascon da un razzo sol, figli e nipoti.

Un'altra sorte poi ce n'è, che puro
Fa del fragasso, quanno cala, e scoppia,
Foco sbruffa in più parti, e in te lo scuro
Una luce, in più luci si raddoppia:
Scappa la gente a metterzi in sicuro,
E chalched'uno, in tel cascà si stroppia.
La folla più si stregne, e più s'aggruppa,
E con difficoltà poi si sviluppa.

Oltre i già detti, un'insolente razza
Ancor ce n'è, ch'a pochi la perdona.
Scurrenno va, come una cosa pazza,
E salta, e gira, et a più d'un la sona:
Va serpeggianno, e par che dia la guazza
A questo e quel. Mò verzo una perzona
S'avvia, mò verzo un'altra el corzo addrizza,
Poi torna arreto, e in altro loco schizza.

Questi son certi razzi a posta fatti,
Pe' mettere in bisbiglio i circostanti,
El nome se gli dà di razzi matti
Perchè so' sregolati e stravaganti;
Fanno ben spesso, che la gente sfratti
Da dove stava, e dove pò si pianti.
Chi smarrisce il compagno, e chi 'l parente,
E chi fiottà, chi schiamazzà si sente.

C'era una giovenotta capo ritto
Co' scuffie e sfettucciate in sul crapino,
E benchè havesse un abbito un po' guitto,
Del capo il conciamento era zerbino.
In quel gran parapiglia, tutto afflitto,
Il marito, ch'a quella era vicino,
Lontano spinto fu. Fece 'sta cosa
Un'ondata di gente impetuosa.

Lui gira, e cerca, e in mezzo della folla
Pe' poterci passà, fa le su' prove,
Rifibbia gomitòni, e te l'azzolla,
S'incoccia chalched'uno, e non si move.
Chiama, e strepita forte: "Gnora Tolla!
E dove sete gnora Tolla? e dove?"
Lei non lo sente, e lui s'impazientisce,
Quanto la cerca più, più la smarrisce.

Pur si tribbola assai quella meschina,
Che fra la gente sta smarrita, e sola;
Va sguercianno qua e là la poverina,
E non s'arrischia a proferì parola.
Smorta, com'una rapa, si tapina,
Poi fatta rascia, com'una brasciola,
Chiama il marito a nome, e il chiama invano
Che lo portò la calca assai lontano.

Come attorno alla trippa il gatto sgnavola,
Che sta a un ciodo attaccata, e lui discosto,
Come fanno le mosche in su una tavola
Dove zuccaro, o mele fu riposto,
Come i moschini attorniano la cavola
D'un caratel, che pieno sia di mosto;
Così del caso accortosi, furòne
Gira intorno a costei più d'un moscone.

PATACCA lì vicino attento stava,
Sol pe' vede, se quanno si fornìva
Laùt el foco, e perchè assai durava,
Ce pativa aspettanno, ce pativa.
Subbito che 'sta festa si spicciava,
Dell'altre alla comparza si veniva:
Di mette in mostra quel, che lui teneva
Di già ammannito, l'hora non vedeva.

Bisbiglià sente intanto i formicotti,
Ch'attorno a Tolla favano spasseggio,
E dal foco d'amor già mezzi cotti,
Di quella tutti annavano al corteggio;
S'accosta, e la pastura a tanti jotti
Penza levà, che non pò havè per peggio,
Che quanno se n'accorge, o che gl'è detto,
Che si perda alle femmine il rispetto.

Domanda con creanza, se ch'è stato,
Subitamente fu riconosciuto,
E ciamato pe' nome, e salutato,
E ci hebbe da vantaggio il benvenuto;
Di Tolla il caso gli fu raccontato
Da uno di coloro, il più saputo.
Lui s'accosta, la guarda, e queto queto
Si tira con modestia un passo arreto.

Ma lei, che spesse volte haveva inteso
PATACCA mentovà da su' marito,
E lodà molto, e sempre l'havea creso,
Com'era appunto, un giovane compito,
Vedenno che di lei penzier s'è preso,
E che non solo, non è gnente ardito,
Ma savio, rispettoso, et onorato,
Consolatasi un pò, ripiglia fiato.

Gli chiede in grazia, ch'a cerca glie vada
El su' marito Titta scarpellino,
Che starà tra la folla in quella strada,
Perchè perzo se l'era lì vicino;
Che l'havrìa cognosciuto ad una spada,
Che haveva alla turchesca, a un barettino
Da marinaro e camisciola gialla,
A un mazzo di fettuccie in su 'na spalla.

"Non accurre vogliate affatigarvi,
- Disse allor MEO, - nel darmi i contrasegni,
Ch'io lo cognosco, e pozzo assicurarvi,
Che bisogno non c'è, che me s'insegni;
Ma non è cosa sola qui lasciarvi,
Vostrodine pe' tanto, non si sdegni
Di venir via con me, che non conviene
De fa' più qui 'sta fiera, e non sta bene.

Non voglio propio che restiate sola,
Ma da una ciospa, ch'è de garbo assai,
Che ha qui vicina la su' rampazzola
Ve menerò pe' favvi uscì de guai.
Starete da 'sta bona donnicciola,
Che col penziero già ricapezzai,
Fin che quà torno, e de trovà m'ingegno
Vostro marito, e a lui vi riconsegno".

Sentì la donna, e un bel pezzetto, incerta,
Considera penzosa i fatti suoi;
Ma riflettenno a sì cortese offerta
Disse: "Farò, quel che volete voi".
'Sta bona volontà lui, clia scuperta,
Dice alla gente: "Ogn'un si scanzi. A noi!
Cos'è 'sta buglia? Tutti si slargorno,
Tolla e PATACCA liberi passorno".

C'è talhora un astuto bottegaro,
Ch'in tel cuccà la gente, ce se spassa;
Aggiusta chalche sorte di denaro
In strada, dove il popolo più passa;
Ecco truppa di gonzi, tutti a un paro,
A coglier la moneta ogn'un s'abbassa;
Ma il bottegar, ch'è tristo, e stà alla mira,
Perch'a un filo è legata, a sè la tira.

Ciascun di quei marmotti si stordisce,
E resta for di sé, se all'improviso
La moneta dall'occhi gli sparisce,
E l'un coll'altro allor si guarda in viso.
Così ogn'un de i cascanti ammutolisce,
Nè più fa 'l Ganimedo, nè il Narciso,
Ma resta come un tonto, allor che vede
Sparir la bella donna, e appena il crede,

Serve a costei de bravo, e glie fa scorta
PATACCA, che scarpina con la Gnora,
Và dov'abbita Tutia, e giù alla porta
La fa venì fischiandoglie de fora.
Lei gnente si trattiè, ch'assai gl'importa
A PATACCA ubbidir; lui dice allora:
"Vi consegno 'sta giovane, tenete,
Et il perchè, da lei lo saperete".

Tolla glie lassa, e quella su la mena,
E qui succede un caso assai gustoso,
Perchè sopra c'è Nuccia, c'ha gran pena
Pe' li suspetti del su' cor geloso;
Era venuta lì con Tutia a cena,
Per annar poi pel giro luminoso
Delle pubriche strade, or queste, or quelle
A vedè feste, et altre cose belle.

Un altro caso pur a MEO successe,
E di questo di Tolla, assai più brutto,
E poco ce mancò, che non facesse
Steso sbiascì lo scarpellin frabutto,
Com'il garbuglio poi, principio havesse
Lo dirò adesso, raccontanno il tutto;
E se il foco a Castello è già mancato,
Più di quello non parlo, e piglio fiato.

Fine dell'Ottavo Canto.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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