Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
AREA PERSONALE
TAG
OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE
Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________
Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________
Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
Il Novellino (di Anonimo)
Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)
I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)
Palloncini (di Francesco Possenti)
Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)
Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)
Storia nostra (di Cesare Pascarella)
MENU
OPERE COMPLETE: PROSA
Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)
Il Galateo (di Giovanni Della Casa)
Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)
Picchiabbò (di Trilussa)
Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)
Vita Nova (di Dante Alighieri)
OPERE COMPLETE: POEMI
Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo
Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto
Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)
Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)
L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)
La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)
La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)
Villa Gloria (di Cesare Pascarella)
XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)
OPERE COMPLETE: POESIA
Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
Bacco in Toscana (di Francesco Redi)
Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)
La Bella Mano (di Giusto de' Conti)
Poetesse italiane, indici (varie autrici)
Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)
Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)
Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)
Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)
Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)
Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)
Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
POETI ROMANESCHI
C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)
Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)
Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)
Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)
Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)
La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)
Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)
Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)
Nove Poesie (di Trilussa)
Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)
Poesie romanesche (di Antonio Camilli)
Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)
Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)
Quo Vadis (di Nino Ilari)
Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)
Messaggi del 15/03/2015
L'uomo con la spada. Uno vede una grande spada allato a un altro e dice: "O poverello! Ell'è gran tempo ch'io t'ho veduto legato a questa arme: perché non ti disleghi, avendo le mani disciolte e possiedi libertà?". Due viandanti nella notte. Due camminando di notte per dubbiosa via, quello dinanzi fece grande strepido col culo; e disse l'altro compagno: Or veggo io ch'i son da te amato". "Come?", disse l'altro. Quel rispose: "Tu mi porgi la correggia perch'io non caggia, né mi perda da te". La stessa. Uno disse a un altro: "Tu hai tutti li occhi mutati in istran colore". Quello li rispose: "Egli è perché i mia occhi veggono il tuo viso strano". Il paese in cui nascevano le cose più strane. Uno disse che in suo paesenasceva le più strane cose del mondo. L'altro rispose: "Tu che vi se' nato, confermi ciò essere vero, per la stranezza della tua brutta presenza". Un pittore dai brutti figli. Fu dimandato un pittore, perché facendo lui le figure sì belle, che eran cose morte, per che causa avessi fatto i figlioli sì brutti. Allora il pittore rispose che le pitture le fece di dì e i figlioli di notte. Il tavolaccio e la lancia. Uno, vedendo una femmina parata a tener tavola in giostra, guardò il tavolaccio e gridò vedendo la sua lancia: "Oimè, quest'è troppo picciol lavorante a sì gran bottega!". |
Post n°1371 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
Er Leone e er Conijo Un povero Conijo umanitario Me le farò spuntà...- disse el Leone Ecchete che er Conijo, er giorno appresso, Prima m'hai detto: levete l'artiji, Va' tu dal Lupo. Faje perde er vizzio, Trilussa |
Post n°1370 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
La favola vera La sera s'avvicina Trilussa |
Post n°1369 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
Li perfidi e l'ipocriti Te dò 'n cazzotto 'n punta a la ciafrocca, Te pare che stò a ddì 'na cosa sciocca, Chissà perché c'è ttanta cattiveria, Ma poi si gguardi a cqueli che só' bboni, Valerio Sampieri |
Post n°1368 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
La carriera der porco Una vorta un Maiale d'ingegno, Trilussa |
Post n°1367 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
Il Trecentonovelle NOVELLA LXXXV Uno Fiorentino toglie per moglie una vedova stata disonestissima di sua persona, e con poca fatica la gastiga sí ch'ella diviene onesta. Nella città di Firenze fu già uno, secondo che io udi', che ebbe nome Gherardo Elisei, il quale tolse per moglie una donna vedova; la quale essendo disonesta e vana con l'altro marito, era stata tenuta assai cattiva di sua persona; e avea nome monna Ermellina. Ora, come questo Gherardo tolse questa donna per moglie, molti suoi parenti e amici, anzi che consumasse il matrimonio, dicono: E cosí dopo alquanti dí monna Ermellina ne venne una sera a marito, e avendo cenato, ed essendo l'ora d'andarsene al letto, n'andò alla camera, là dove Gherardo ancora si rappresentò, com'è d'usanza; e serrato, monna Ermellina, accostandosi al leccone, comincia a ragionare amorosamente col detto Gherardo; e Gherardo si comincia a spogliare in farsettino, e monna Ermellina in giubba. Ed essendo le cose tutte ben disposte a tal vicenda dalla parte di monna Ermellina detta, e Gherardo esce dall'uno de' canti della camera con un bastone in mano, e dà, e dà, e dà alla sposa novella. Costei comincia a gridare, e quanto piú gridava e Gherardo piú bastonava. Quando ebbe un pezzo cosí bastonato, e la donna dicendo: Brievemente, questa buona donna si lagnò assai, e avea di che, facendo scuse di quello che Gherardo dicea. Alla fine s'andò al letto, e non che quella notte, ma durante un mese o piú non gli giovò trovarsi col marito, come quella che era tutta pesta. Di tempo in tempo, rabbonacciandosi con Gherardo, queste battiture ebbono tanta virtú che, com'ella era stata per li passati tempi dissoluta e vana, cosí da indi innanzi fu delle care, delle compiute e delle oneste donne della nostra città. Oh quanti sono li dolorosi mariti che fanno cattive mogli! piú ne sono cattive per difetto de' mariti che per lo loro. Da' una fanciulla a uno fanciullo e lascia far loro. Che dottrina imprenderà ella dall'ignorante giovane? e quella via ch'ella piglia, per quella corre.
Fra Michele Porcelli truova una spiacevole ostessa in uno albergo, e fra sé dice: "Se costei fusse mia moglie, io la gastigherei sí, che ella muterebbe modo". Il marito di quella muore; Fra Michele la toglie per moglie e gastigala com'ella merita. Passati sono circa a trent'anni, che fu uno Imolese, chiamato Fra Michele Porcello, il quale era chiamato Fra Michele, non perché fosse frate, ma era di quelli che hanno il terzo ordine di Santo Francesco, e avea moglie, ed era un uomo malizioso e reo, e di diversa maniera; e andava facendo sua mercanzia di merce per Romagna e per Toscana; poi si tornava ad Imola, come vedea che per lui si facesse. Tornando costui una volta tra l'altre verso Imola, giunse una sera a Tosignano, e smontò a un albergo d'uno che avea nome Ugolino Castrone, il quale Ugolino avea per moglie una donna assai spiacevole e smancerosa, chiamata monna Zoanna: sceso che fu Fra Michel da cavallo, e venendosi rassettando, disse all'oste: Fra Michele si consumava di nequizia, veggendo i modi fecciosi della moglie d'Ugolino, e fra sé stesso dicea: "Signore Iddio, stu mi facessi tanta grazia che morisse la donna mia e morisse Ugolino, per certo e' converrebbe che io togliessi costei per moglie, per gastigarla della sua follia". Passossi Fra Michele la sera come poteo, e la mattina se n'andò ad Imola. - E quando disse: "Va' per lo tal vino"; e tu dicesti: "Io non vi voglio andare"? - E dàgliene un altro.
NOVELLA LXXXVII - Per quanto mangereste in una scodella, dove fosse stata la merda parecchi mesi? Dino guarda costui, e turbatosi, dice: - È mala mescianza a chi è mal costumato; porta via, porta. Dice il maestro Dino: - Che è questo che è venuto in tavola? è ancor peggio. Dino sconvolge il suo gorgozzule: - E che parole son queste? Dice il maestro Dino: - Sono secondo quello che è venuto in tavola per la prima vivanda: confessatemi il vero; non è questo ventre il vasello dove è stata la feccia di questa bestia, poi ch'ella nacque? E voi sete il signore che voi sete, e pascetevi di sí lorda vivanda? - È mala mescianza, è mala mescianza; levate via, - dice a' donzelli, - e 'n fé del Criatore vo' non ci mangerè plus. Dino infino a qui non mangiò né del ventre, né alcuna cosa. Levata questa vivanda, vennono starne lesse; e maestro Dino dice: - Quest'acqua delle starne pute -; e dice allo spenditore: - Dove le comperasti tu? Dice lo spenditore: - Da Francesco pollaiuolo. E maestro Dino dice: - Egli ne sono venute molte a questi dí, e alcuno mio vicino n'ha comperate, credendo siano buone, poi l'ha trovate tutte verminose; e queste fiano di quelle. E Dino dice: - È mala mescianza, mala mescianza, nell'ora mala a tanto scostume -; e dà la sua scodella al famiglio, e dice: - To' via. Dice maestro Dino: - E' mi conviene pur pur mangiare, s'io voglio vivere; lascia stare. E Dino in gote, e non mangia, e parea il Volto santo. Levata questa vivanda, vennono sardelle in tocchetto. Dice il maestro Dino: - Gonfaloniere, e' mi risovviene quando e' miei fanciulli erano piccoli, che uscivano loro i bachi da dosso. E Dino levasi: - È mala mescianza a chi è mal costumato; per Madonna di Parigi, che non m'avete lasciato mangiar stasera con sí laida maniera di parlare; ma per mie foi non verrete piú a questo albergo. Maestro Dino ridea e pregavalo tornasse a tavola, e non ci fu mai modo, ché se ne andò tra le camere, dicendo: - Nostro Signore vi doni ciattiva giornea; un poltroniere venuto in tal magione, e tiensi esser gran maestro di musica, e le sue parlanze sono piú da rubaldi che votono li giardini che da quelli che debbon dare esempli e dottrine, come doverrebbe dar elli, che si può dire esser vecchio mal vissuto. Ghino di Bernardo, e gli altri signori, che di ciò avevono grandissimo piacere, si levarono da tavola e andorono dove Dino era, e trovaronlo molto in gran mescianza, e non voler vedere il maestro Dino; pur tanto feciono, che un poco si raumiliò: e maestro Dino con lui a' versi, tanto che si conciliò con lui. Ma poco duroe, però che stando un pezzo, e maestro Dino volendosi partire, disse Ghino di Bernardo: - Maestro, pigliate commiato da Dino e fategli reverenza. E 'l maestro Dino piglia per la mano Dino, e dice: - Messer lo gonfaloniere, con la grazia vostra, datemi licenzia -; e quel li porge la mano; e 'l maestro Dino, pigliandola, subito si volge, e mandate giú le brache, a un tratto gli scappuccia il culo e 'l capo. Or non piú; Dino si comincia afferrare: - Pigliatelo, pigliatelo. Ghino e gli altri diceano: - O Dino, non gridate; anderemo nell'udienza, e là faremo quello che fia da fare. Maestro Dino dice: - Signori, io mi vi raccomando che per aver fatta debita reverenza io non perisca -; e pur scendendo le scale si va con Dio. Dino, rimaso furioso, la sera medesima va nell'audienza, raguna i compagni, e mette il partito, ché era Proposto, di mandare uno bullettino allo esecutore, e che 'l maestro Dino abbia i confini. Metti il partito, e metti e rimetti, non si poté mai vincere. Veggendo Dino questo, col gorgozzule gonfiato chiama li donzelli che facciano accendere i torchi, ché se ne volea andare a casa. Li compagni scoppiavono delle risa, e diceano: - Doh, Dino, non andare istasera. E Dino, brievemente, non rattemperandosi, n'andò a casa, e la mattina fu mandato per lui; e non c'ebbe mai modo che lo dí seguente tornasse in Palagio; tanto che uno de' signori, con uno carbone, nella minore audienza ebbe dipinto nel muro proprio Dino con uno gorgozzule grande, e con la gola lunga, che parea proprio desso. Essendo la sera di notte, che Dino non era voluto tornare in Palagio, vi mandorono li signori ser Piero delle Riformagioni, pregandolo dovesse tornare acciò che e' fatti del comune non remanessino senza governo; e ancora per provvedere che 'l maestro Dino fosse punito del fallo commesso. Dopo molte parole, Dino si lasciò vincere e la mattina seguente tornò al Palagio, e come sul dí giunse nell'udienza minore, ebbe veduto, essendo con Ghino di Bernardo insieme, il viso ch'era stato dipinto nel muro; e guardando quello, cominciò a soffiare: e Ghino dice: - Deh, lasciate andare queste cose, non ve ne combattete piú. Dice Dino: - Come diavolo mi di' tu questo, che m'ha ancora dipinto in questo muro? E se tu non mi credi, vedilo. Ghino, che scoppiava dentro sí gran voglia avea di ridere, dice: - Come, buona ventura, vi recate voi a noia questo viso, e dite che sia dipinto per voi? Questo fu dipinto, già fa piú tempo, per lo viso del re Carlo primo, che fu magro e lungo, col naso sgrignuto. E perdonatemi, Dino, che io ho udito dire a molti cittadini che 'l vostro viso è proprio quello del re Carlo primo. Dino a queste parole diede fede, e ancora si racconsolò, sentendosi assomigliare al re Carlo primo: e stando alquanto, ritornò in sul maestro Dino, e tiratosi nell'audienza, mette a partito el bullettino e' confini, e non si vince, e disperavasene forte. Alla per fine disse Ghino: - Poiché questo partito non si vince, commettete in due di noi che mandino per lo maestro Dino, e dicangli quello che si conviene, facendogli una gran paura -; e cosí feciono. E fu Ghino e un altro, che mandorono per lo maestro Dino: e come fu venuto, e Ghino comincia a ridere, e in fine gli disse che Dino il voleva pur per l'uomo morto, e che tutte l'altre cose averebbe dimesse, e datosene pace, salvo che del trarre delle brache. Dice il maestro Dino: - Egli è una parte del mondo che è grandissima, ed èvvi un re che è il maggiore, e ha molti principi sotto sé, e chiamasi il re di Sara: quando uno fa reverenza a uno di quelli principi, si trae il cappuccio; e quando si fa reverenza allo re maggiore, si cava a un tratto il cappuccio e le brache; e io, considerando il gonfaloniere della justizia essere il maggior signore, non che di questa provincia, ma di tutta l'Italia, volendogli far reverenza, feci il simile che s'usa colàe. Udendo li due priori questa ragione, risono ancora vie piú, e tornorono a Dino e agli altri, e dissono come aveano vituperato il maestro Dino, e fattogli una gran villania; e che s'era scusato con la tale usanza che è in tal paese; e se cosí era, non aver elli tanto errato; pregando Dino che non se ne desse pensiero, e che a loro lasciassono questa faccenda. Brievemente, a poco a poco Dino venne dimenticando la ingiuria del maestro Dino, ma non sí che non gli tenesse favella parecchi anni; e 'l maestro Dino di ciò ne godea, e dicea: - Se non mi favellerà, e io non andrò a medicarlo, quando avrà male -; e cosí stettono buon tempo, infino a tanto che 'l maestro Tommaso del Garbo, dando loro a cena una sera un ventre e delle starne, fe' loro far pace. Sempre conviene che tra' signori officiali e brigate sia uno che pe' suoi modi gli altri ne piglino diletto. Questo Dino fu di quelli: non già per vizio, ma per costume, era biasimevole delle cose lorde, e non volea udire; e perché maestro Dino ebbe piacere, e' dienne a' signori. E però è grazia a Dio d'avere sí fatto stomaco che ogni cosa patisca.
Uno contadino da Decomano viene a dolersi a messer Francesco de' Medici che uno suo consorto gli vuol tòrre una vigna, e allega si piacevolmente che messer Francesco fa ch'ella non gli è tolta. Fu a Decomano, non è molt'anni, uno contadino assai agiato, e avea possessione insino in su quello di Vicchio; là dove tenea a sue mani una bella vigna, la quale uno de' Medici gli volea tòrre, ed era presso che per aversela. Veggendosi costui, che Cenni credo avea nome, a mal partito, pensò d'andarsene a dolersene a Firenze al maggiore della casa; e cosí fece; ché salito una mattina a cavallo, andò a Firenze, e saputo che messer Francesco era il maggiore, se n'andò a lui, e giunto là, disse: - Messer Francesco, io vengo a Dio e a voi, a pregarvi per l'amor di Dio, che io non sia rubato, se rubato non debbo essere. Uno vostro consorto mi vuol tòrre una vigna, la quale io fo perduta, se da voi non sono aiutato. E dicovi cosí, messer Francesco, che se egli la dee avere, io voglio che l'abbia; e dirovvi in che modo. Voi dovete sapere, che sete molto vissuto, che questo mondo corre per andazzi, e quando corre un andazzo di vaiuolo, quando di pestilenze mortali, quando è andazzo che si guastano tutti e' vini, quando è andazzo che in poco tempo s'uccideranno molt'uomini, quando è andazzo che non si fa ragione a persona: e cosí quando è andazzo d'una cosa, e quando d'un'altra. E però, tornando a proposito, dico che contro a quelli non si pote far riparo. Similmente quello di che io al presente vi vo' pregare per l'amor di Dio, è questo: che s'egli è andazzo di tòr vigne, che il vostro consorto s'abbia la mia vigna segnata e benedetta, però che contro all'andazzo non ne potrei, né non ne voglio far difesa; ma, se non fusse andazzo di tòr vigne, io vi prego caramente che la vigna mia non mi sia tolta. Udendo messer Francesco la piacevolezza di costui, il domandò come avea nome; e quel gliel disse; e poi dice: - Buon uomo, il mio consorto con teco non potrebbe aver ragione, e sie certo che, andazzo o non andazzo che sia, la vigna tua non ti fia tolta -; e disse: - Non t'incresca di aspettare un poco. E mandò per quattro i maggiori della casa; e dice loro questa piacevol novella; e piú, che chiama Cenni e dice: - Di' a costoro ciò che hai detto a me -; e quelli 'l disse a littera. Costoro tutti di concordia mandarono per lo loro consorto che già s'avea messo a entrata la vigna, e riprendonlo del fatto, e brievemente liberarono la vigna dalle mani di Faraone, e dissongli che Cenni avea allegato la ragione degli andazzi, per forma che non potea avere il torto; e che di ciò facesse sí che mai non ne sentissino alcuno richiamo. E cosí promesse loro, poiché andazzo non era, di liberare la vigna, e di non seguire piú la sua impresa. Per certo la legge non arebbe in molto tempo fatta fare quella ragione a Cenni, che l'allegare suo piacevole dell'andazzo fece. E non se ne faccia alcuno beffe; ché chi vi porrà ben cura, da buon tempo in qua, mi pare che 'l mondo sia corso per andazzi, salvo che d'una cosa, cioè d'adoprare bene, ma di tutto il contrario è stato bene andazzo, ed è durato gran tempo.
Il prete da Mont'Ughi, portando il corpo di Cristo a uno infermo, veggendo uno su uno suo fico, con parole nuove e disoneste lo grida, poco curandosi del sacramento che avea tra le mani. Alla chiesa di San Martino a Mont'Ughi presso a Firenze, fu poco tempo fa un prete che avea nome Ser... il quale era poco devoto, ma piú tosto scellerato; e fra l'altre cose, tutta la chiesa tenea mal coperta, e sopra l'altare peggio che in altro luogo era coperto, per tal segnale, che 'l dí della sua festa, piovendo su l'altare, e' vicini e gli altri diceano: Avvenne per caso che, essendo ammalato a morte un suo populano nel tempo di state, fu mandato per lui acciò che portasse la comunione; ed egli pigliando il corpo di Cristo, andò per comunicare lo infermo; e non essendosi molto dilungato dalla chiesa, guardando per un suo campo, vide su uno fico uno garzone che mangiava e coglieva de' fichi suoi; e come uomo non cattolico, né che andasse con la comunione nelle mani, ma come uno malandrino disperato, voltosi a quello, disse gridando: - Se il diavol mi dà grazia ch'io ponga giú costui, io ti concerò sí che cotesti saranno i peggiori fichi che tu manicassi mai. Il garzone, che avea del reo, e anco forse avea voglia di farli dir peggio, dice: - O Domine , voi portate il Signore, et ego vado in tentatione ficorum. Dice il prete: - Io fo boto a Dio che m'uccella! Che dirai? Scendine, che sie mort'a ghiado. Il garzone, avendo il corpo pieno, disse: - Or ecco, io scendo, e' fichi tuoi ti rendo. E tirò un peto che parve una bombarda; e 'l prete se n'andò al suo viaggio tutto gonfiato; e 'l nostro Signore tra 'l prete discreto, e 'l ghiottoncello che era sul fico, cosí fu onorato; e l'infermo dal venerabile prete cosí ben disposto fu comunicato. Che diremo che fosse quella ostia da sí devoto cherico sacrata e portata? Io per me non credo che cattivo arbore possa fare buon frutto. E tutto il mondo n'è pieno di tali, che Dio il sa tra cui mani è venuto. |
Inviato da: cassetta2
il 12/08/2024 alle 08:41
Inviato da: amistad.siempre
il 11/08/2024 alle 23:52
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50