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Messaggi del 01/05/2015

La Bella Addormentata

Post n°1561 pubblicato il 01 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

La Fiabba della Bella Addormentata

C'era una volta una Bella Addormentata che, tatatàaaaaannnnn !!!! Colpo di scena!!! ... Dormiva, naturalmente. Però, visto che era un po' fregnoncina, non si era addormentata in un bosco, ma in una cloaca, perché era strafatta di robba e non capiva un tubo di dove si andasse a ficcare. Comunque, questo è un dettaglo trascurabile, per cui, tirem innanz!
Mo' sarà anche vero che una Bella Addormentata è logico che dorma -e perciò non si capisce bene di quale stracacchio di colpo di scena stia cianciando quel fregnacciaro di Er Fiabbatore-, però una bellissima fiabba senza uno stracacchio di colpo di scena -per quanto possa non valere una mazza- non si capisce che la si legge a fare.
E, infatti, nessuno la legge 'sta merda di bellissima fiabba.
Vabbè, andiamo a parare sui risvolti psicologici, prima di far arrivare il parossismo della tensione narrativa che è da un bel po' di tempo che non arriva e quindi si è tutto arruzzunuto, diventando pigro, come dimostra il fatto che Er Fiabbatore ha detto la parola in napoletano, anziché in anconetano (dialetto che, del resto, lui non usa, né ha mai usato, né si comprende per quale stracacchio di motivo dovrebbe mai usare).
Ciò che appare importante -ma quale importante: fondamentale, direi, e perciò, se non lo dicessi, non lo direi- stabilire è perché mai la Bella Addormentata dormisse, ma, non avendo la minima idea del perché questa scimunita ce la siamo trovata bella e addormentata per cavolacci suoi, dovremo ricorrere a qualche ingegnoso stratagemma per scoprirlo.
Tatatàaaaaannnnn !!!! Colpo di scena!!! Er Fiabbatore ha avuto un colpo di genio! Intervisteremo la Bella Addormentata, chiedendole perché dorma!!!!
Ecchela cqua! L'avevamo detto che quella lì era una scimunita: invece di rispondere alla domanda, quella lì dorme! Dal che si potrebbe anche arguire che, magari, non è solo lei ad essere scimunita, ma è invece Er Fiabbatore ad essere un po' coglioncino per avere avuto una trovata geniale così cretina.
Ma ecco che ... tatatàaaaaannnnn !!!! Colpo di scena!!! Er Fiabbatore ha trovato la geniale soluzione all'impasse! Del perché la Bella Addormentata dorma, non ce ne frega un beneamato tubo e tiremm innanz.
Non vi dico quanto i suoi familiari si disperassero, nel vedere la Bella Addormentata in quello stato! Ed il motivo principale per cui non ve lo dico è perché nessuno voleva ammettere di essere un familiare di quella scimunita che, probabilmente, anzi certamente, anzi di più, visto che lo avevamo detto sin dall'inizio, si era imbottita di droga ed alcol per ridursi in quello stato di merda. Perciò ci tocca inventare qualcosa, altrimenti questa bellissima fiabba di merda non andrà avanti in alcun modo.
Cammina, cammina, cammina, passa di lì un filippino e ... PRRRA'AAAAAA, ... PRRRA'AAAAAA, ... PRRRA'AAAAAA, ... si mette a smerdazzare alla malese, scatenando un tanfo schifosissimo capace di indurre al suicidio una colonia di puzzolentissimi cinesi, mortificati per non riuscire a puzzare quanto una smerdazzata del filippino di passaggio.
Tatatàaaaaannnnn !!!! Colpo di scena!!! Er Fiabbatore è un geniaccio mica de ggnente! Tiè, t'ha trovato la soluzione all'impasse, facendo raggiungere di colpo il parossismo della tensione narrativa. La Bella Addormentata si era addormentata perché era maggggica! Sapendo che sarebbe passato di lì il filippino smerdazzatore, si era come ibernata, alla facciaccia zozza dei cinesi puzzolentissimi che erano invece schiattati! E chiamala cretina la strafatta!
Ma, soprattutto, c'è da considerare un altro fatto di rilevanza assoluta ... Tatatàaaaaannnnn !!!! Colpo di scena!!! Il filippino smerdazzatore bacia la Bella Addormentata che, come per incanto, riapre i suoi occhietti.
Dopo averla baciata, il filippino smerdazzatore fissa a lungo negli occhietti la Bella Addormentata che contraccambia lo sguardo stupito. Poi lei, lentamente, si siede sul suo giaciglio ed il filippino smerdazzatore le porge la mano per aiutarla ad alzarsi. Si ode un suono di violini provenire da non si sa dove; ed è un bene che non si sappia donde provenga la colonna sonora di questa bellissima fiabba di merda, perché una colonna sonora così scrausa non la si era mai sentita ed è certo che, se se ne fosse conosciuta la provenienza, gli orchestrali sarebbero stati accoppati immantinente. Comunque, com'è, come non è, il momento è catartico.
La Bella Addormentata prende la mano del filippino smerdazzatore e ci si scaccola il naso, perché non aveva messo la coperta e, dormendo, aveva preso un po' freddo e smocciolava perciò come una cloaca alsaziana. Preso alla sprovvista, il filippino smerdazzatore porta le mani alla testa e la Bella Addormentata ne approfitta per accopparlo con un calcio ai coglioni, cos' quel maiale del cacchio si impara a smerdazzare in quel modo indegno, costringendo le persone ad autoibernarsi!
Stretta è la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia.
E la morale? Semplice, cari lettori inesistenti, la morale è: non cacate alla malese (vale a dire smerdazzando e facendo PRRRA'AAAAAA, ... PRRRA'AAAAAA, ... PRRRA'AAAAAA, ..., stando appesi alle maniglie poste sui muri perimetrali di un edificio: questa è una genialata che Er Fiabbatore ha riservato a bella posta alla sola morale, al precipuo scopo di far raggiungere il parossismo alla tensione narrativa), specie se siete filippini, altrimenti vi accoppano con un calcio ai coglioni; i cinesi puzzano, ma un cesso malese puzza di più.

 
 
 

Il Malmantile racquistato 01-2

Post n°1560 pubblicato il 01 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

PRIMO CANTARE

22
Ove dopo mostrato ogni accidente
Di tutta la sua vita pel passato,
Soggiunge che per via d'un suo parente (49)
In breve tempo riavrà lo Stato;
Però si metta in arme, chè un presente
Le fa d'un panceron(50), che, ancorchè usato,
Ripara i colpi ben per eccellenza:
E poi piglia da lei grata licenza (51).

23
Già il termine di un anno era trascorso
Che Celidora avea perduto il regno;
Quando non pur le spiacque il caso occorso,
Ma volle un tratto (52) ancor mostrarne segno.
Perciò richiesto ai convicin soccorso,
Che un piacer fatto non avrian col pegno,
E tenevano il lor tanto in rispiarmo,
Ch'egli era giusto, come (53) leccar marmo;

24
Fece spallucce (54) a Calcinaia e a Signa (55);
Ma la pania al suo solito non tenne (56),
Perchè terren non v'era da por vigna (57).
Calò nel piano, e ad Arno se ne venne,
Ove Baldon facea nella Sardigna (58)
Vele spiegare e inalberare antenne,
Fermato avendo lì, come buon sito,
D'armati legni un numero infinito.

25
Costui, quando Bellona fu inviata
A Celidora, come già s'intese,
Da Marte avea avuto una fardata (59),
Che lo tenne balordo più d'un mese:
E gli messe una voglia sbardellata
Di far battaglia e mille belle imprese;
Ond'egli, entrato in fregola sì fatta,
Fece toccar tamburo a spada tratta.

26
Poichè pedoni egli ebbe e gente in sella
Tanta, che al fin si chiama soddisfatto;
Render volendo il regno alla sorella,
E farle far bandiera di ricatto (60),
Destinò muover guerra a Bertinella,
Che a lei già dato avea lo scacco matto:
Così con quell'armata e quei disegni,
In Arno messe i sopraddetti legni.

27
Ov'anco in breve Celidora arriva
Con armi indosso, ed altre da far fette;
Perchè una volta al fin fattasi viva,
Ha risoluto far le sue vendette;
Chè l'usbergo incantato della diva
L'ha fatta diventar l'ammazzasette (61):
Ed alle risse incitala talmente,
Ch'ella pizzica poi dell'insolente.

28
Non così tosto al campo si conduce,
Come la suora vuol del dio soldato,
La Marfisa di nuovo posta in luce (62),
Ch'ell'esce affatto fuor del seminato (63):
E col brando, che taglia, com'ei cuce (64),
Da far proprio morire un disperato (65),
Vuol trucidar ognun, ognun vuol morto:
E guai a quello che la guarda torto.

29
Se guarda, è dispettosa e impertinente:
E sempre vuol che stia la sua di sopra (66).
Talor affronta per la via la gente,
Cercando liti, quasi franchi l'opra (67).
Ne venga, dice, pur chi vuol nïente;
Perocchè chi mi dà che far, mi sciopra (68).
Giunta, in questa, in un campo pien di cavoli,
N'affettò tanti, che Beati Pavoli. (69)

30
Così piena di fumi, e d'umor bravi,
Che te l'hanno cavata di calende (70),
Rivolge l'occhio al popol delle navi,
Là dove Brescia romoreggia (71) e splende:
E va per infilarne sette ottavi;
Ma nel pensar dipoi, che, se gli offende,
Far non potrebbe lor se non mal giuoco,
Gli vuol lasciar campare un altro poco.

31
Alfin, deposto un animo sì fiero,
In genio cangia appoco appoco l'ira:
E come un orsacchin che appiè d'un pero
A bocca aperta i pomi suoi rimira;
Ferma, impalata quivi come un cero,
Fissando in loro il sguardo, sviene e spira:
Nè può vivere alfin, se non domanda
Ove l'armata vada, e chi comanda.

32
S'abbocca appunto con Baldone stesso:
E sentendo ch'egli ha tai gente fatte,
Per rimettere in sesto ed in possesso
Una cugina sua, ch'è per le fratte (72);
Ben ben lo squadra, e dice: Egli è pur desso!
Orsù, ch'io casco in piè, come le gatte:
Ed esclama dipoi: Quest'è un'azione
Che veramente è degna di Baldone.

33
Maravigliato allora il sir d'Ugnano;
E chi sei, disse, tu, che sai il mio nome?
Io ti conosco già di lunga mano (73),
Ella rispose, e acciò tu sappia il come,
Celidora son io del re Floriano,
Fratello d'Amadigi di Belpome:
E con tutto che già sieno anni Domini (74)
Ch'io non ti viddi, so come ti nomini.

34
S'ell'è, dic'ei, così, noi siam cugini:
E subito si fan cento accoglienze:
Ed ella a lui ne rende mill'inchini;
Egli altrettante a lei fa riverenze.
Così fanno talor due fantoccini
Al suon di cornamusa per Firenze;
Che l'uno incontro all'altro andar si vede,
Mosso da un fil, che tien chi suona, al piede.

35
Poichè le fratellanze e i complimenti
Furon finiti, a lei fece Baldone
Quivi portar un po' di sciacquadenti,
O volete chiamarla colazione.
Or mentre ch'ella scuffia a due palmenti (75),
Pigliando un pan di sedici (76) a boccone,
Si muove il campo, e sott'alla sua insegna
Ciascun passa per ordine a rassegna.

36
E per il primo viensene in campagna
Pappolone (77), il marchese di Gubbiano (78):
Colui che nel conflitto della Magna
Estinse il Gallo e seppellì il Germano (79).
È la sua schiera numerosa e magna:
E perch'egli è soldato veterano,
Ha nell'insegna una tagliente spada
Ch'è in pegno all'osteria di Mezzastrada (80).

37
Bieco de' Crepi (81), duca d'Orbatello,
Mena il suo terzo (82), che ha il veder nel tatto;
Cioè, perch'ei da un occhio sta a sportello (83),
Soldati ha preso c'hanno chiuso affatto.
Son l'armi loro il bossolo (84) e il randello:
Non tiran paga, reggonsi d'accatto:
Soffiano, son di calca (85), e borsaiuoli,
E nimici mortal de' muricciuoli (86).

38
La strada i più si fanno col bastone;
Altri la guida segue d'un suo cane;
Chi canta a piè d'un uscio un'orazione,
E fa scorci di bocca e voci strane;
Chi suona il ribecchin, chi il colascione;
Così tutti si van buscando il pane.
Han per insegna il diavol de' Tarocchi (87),
Che vuol tentar un forno pien di gnocchi.

39
Dietro al Duca, che ognun guarda a traverso,
Vanno cantando l'aria di Scappino (88):
Ma non giunsero al fin del terzo verso,
Che venuto alla donna il moscherino,
Fatto a Bieco un rabbuffo a modo e a verso,
Gli disse: S'io v'alloggio, dimmi Nino (89);
Perch'io non veddi mai in vita mia
Pigliare i ciechi (90), fuor che all'osteria.

40
Signora, rispos'egli, benchè cieca,
Fu però sempre simil gente sgherra:
Con quel batocchio zomba a mosca cieca,
Senza riguardo, come dare (91) in terra:
Sott'ogni colpo intrepida s'arreca,
Che non vede i perigli della guerra:
È cieca, è ver; ma pure il pan pepato (92)
È più forte, se d'occhi egli è privato.

41
Ovvia, diss'ella, tira innanzi il cocchio,
E se costoro a guerreggiar son atti,
Tienteli pure, e non mi stare a crocchio;
Mentr'egli è tempo qui di far di fatti.
Va' dunque, o forte e invitto bercilocchio,
Chè i nemici da te saran disfatti;
Perchè in veder la tua bella figura,
Cascan morti, senz'altro, di paura.

42
Ne segue intanto Romolo Carmari,
Cavalier di valore e di gran fama;
Ma sfortunato, perchè co' danari,
Giocando, egli ha perduto anco la dama.
Colle pillole, date a' suoi erari (93),
L'affetto evacuò l'Arpia ch'egli ama;
Talchè, senz'un quattrino, ammartellato (94)
Alla guerra ne va per disperato.

43
Dopo un'insegna nera, che v'è drento
Cupido morto con i suoi piagnoni,
Marciar si vede un grosso reggimento
Ch'egli ha d'innumerabili Tritoni (95):
Al cui arrivo ognun per lo spavento
Si rincantuccia ed empiesi i calzoni (96):
E da lontano infin dugento leghe
S'addoppiano i serrami alle botteghe.

Note:

(49) UN SUO PARENTE è Baldone.
(50) PANCERON. Arma da difender la pancia, è lo stesso corazzone nominato alla st. 20.
(51) GRATA LICENZA. Ora si direbbe buona licenza; e cosi leggono alcune edizioni.
(52) UN TRATTO. Una volta, finalmente.
(53) GIUSTO COME, æque ac, per l'appunto come.
(54) FECE SPALLUCCE. Si strinse nelle spalle in atto di chi si raccomanda.
(55) CALCINAIA E SIGNA sono paesi in due collinette vicino a Firenze.
(56) LA PANIA NON TENNE. Non trovò appicco, non riuscì a nulla.
(57) TERRENO DA POR VIGNA. Gente facile a lasciarsi ficcar la carota, lasciarsi imbecherare, lasciarsi persuadere.
(58) SARDIGNA. Vuol far credere che parli dell'isola di Sardegna, ma intende un luogo fuor delle mura di Firenze, ove si scorticano le carogne.
(59) FARDATA. Qui, riprensione piena di villanie.
(60) FAR BANDIERA DI RICATTO. Ricattarsi, vendicarsi.
(61) AMMAZZASETTE. Contano le donne una novella per trattenimento de' fanciulli: e, per accomodarsi alla lor capacità. dicono: Fu una volta un bel giovanetto in Garfagnana, detto Nanni, il quale per la sua mendicità dormiva in una capanna da fieno. Quivi essendo egli un giorno per riposarsi, e ripararsi dal caldo, si messe a pigliar le mosche: e ne aveva ammazzato sette; quando comparve quivi una bella Fata, e gli disse, che, se le donava quelle sette mosche, per cibare una sua passera, l'avrebbe fatto ricco. Gliele concedette egli più che volentierí; onde ella, innamorata di questa sua cortese prontezza, lo prese per la mano, e lo condusse alla sua caverna: dove rivestitolo, e datogli danari ed armi, gli pose in testa un elmo, o berretta, in cui era scritto a lettere d'oro: AMMAZZASETTE: e lo mandò al Campo de' Pisani, i quali in quel tempo coll'aiuto de' Franzesi guerreggiavano co' Fiorentini. Arrivato Nanni a detto campo, chiese soldo a' Pisani: e domandatogli del nome rispose: Io mi chiamo Nanni, e per avere io solo in un giorno ammazzato sette, ho per soprannome Ammazzasette. Fu per questo, e per esser anche ben formato, con buon soldo, e con non minore stima accettato. Essendo poi fra pochi giorni in una scaramuccia morto il Capo delle truppe Franzesi: e volendone essi fare un altro, erano fra di loro in gran differenza; perchè essendone proposti diversi, coloro a' quali non piacevano i suggetti proposti, gridavano Nanì, Nanì; onde i soldati italiani, che credettero che dicessero Nanni, Nanni, e che avessero creato lui, cominciarono a gridar Nanni, Nanni, viva, Nanni: e così a voce di popolo Nanni detto l'Ammazzasette, restò eletto capo di dette truppe, e divenne ricco, siccome gli aveva promesso la Fata. E di questo intende il Poeta, volendo mostrare, che Celidora, era divenuta brava, quanto questo Ammazzasette, il quale non fece maggior bravura, che ammazzar quelle sette mosche: siccome nè anche Celidora non fece maggior bravura, che affettar quei cavoli, che vedremo nella St. 29 e seguente. (Minucci.)
(62) LA MARFISA DI NUOVO ecc. Questa novella Marfisa. Vedi l'Ariosto.
(63) ESCE AFFATTO FUOR DEL SEMINATO, Perde il senno del tutto.
(64) TAGLIA COM'EI CUCE. Tanto è buono a tagliare, quant'e' sarebbe a cucire.
(65) MORIRE UN DISPERATO. Dicesi delle armi arrugginite, che farebbero morir disperato per lo dolore uno che ne fosse ferito.
(66) LA SUA opinione. Vuol sempre aver ragione.
(67) QUASI FRANCHI L'OPRA. Quasi possa liberar dalle spese del litigare sè stessa e la parte avversa.
(68) SCIOPRA quasi da exoperare. Chi mi dà una bega, una quistione, mi leva da, un'altra, tante io ne ho.
(69) TANTI CHE ecc.. Un grandissimo numero. Un montambanco a chi comperava un suo contravveleno regalava la pietra di Sali Paolo, purch'e' si fosse chiamato Paolo. Moltissimi affermarono d'aver questo nome; onde il cerretano: Oh quanti Paoli! e i rimasti senza la pietra: Oh beati Pavoli.
(70) CAVATA DI CALENDE. Impazzata, fatta cadere in estrema confusione, come avverrebbe a chi perdesse o dimenticasse affatto l'ordine dei giorni e dei mesi che è descritto dal lunario o calendario
(71) BRESCIA ROMOREGGIA, ecc. Ove sono tanto armi. Di uomo tutto armato si dice: Ha tutta Brescia addosso
(72) È PER LE FRATTE. È fra rovi e pruni, è condotta a mal termine, è rovinata.
(73) DI LUNGA MANO. Da gran tempo.
(74) ANNI DOMINI. Anni moltissimi.
(75) SCUFFIA Mangia ingordamente masticando con suono delle due ganasce, dette qui palmenti, cioè macine o ruote da molino. Modo basso.
(76) UN PAN DI SEDICI quattrini toscani. Un grosso pane.
(77) PAPPOLONE. Gran mangiatore: anagramma proprio [L'anagramma è proprio, quando esprime le qualità della persona. È puro, quando non vi son lettere variate o aggíunte. - In fondo al volume si trova la spiegazione di tutti gli anagrammi.] di Paolo Pepi
(78) GUBBIANO è un castello, ma qui sta per ricordare la voce plebea ìngubbiare, che vale empire il ventre.
(79) MAGNA, GALLO, GERMANO hanno un doppio senso patente.
(80) MEZZASTRADA è un'osteria così chiamata, perchè quasi a metà della via, tra Porta alla Croce di Firenze e Rovezzano.
(81) BIECO DE' CREPI. Anagr. pr. di Pietro de' Becci uomo mezzo cieco, e perciò duca di Orbatello.
(82) TERZO. Un dato numero di soldati, una tribù.
(83) STARE A SPORTELLO si dice del bottegaio che in giorno di festa o mezza festa tiene aperto il solo sportello dell'uscio. Osserva come poi è ben continuata la metafora.
(84) BOSSOLO qui è quel vaso che tengono in mano i ciechi per riceverci l'elemosine.
(85) SOFFIANO, SON DI CALCA. Fanno la spia e amano di frequentare lo calche.
(86) NIMICI, DE' MURICCIUOLI, perchè spesso vi danno dentro con le gambe e co' piedi.
(87) TAROCCHI. Certe carte da giuoco, in una delle quali è effigiato il diavolo. Vedi c. VIII, 61 [Quando si cita il canto e la stanza, s'intende anche citare le note della medesima]
(88) L'ARIA DI SCAPPINO era una canzonetta che cantavano i ciechi in Piazza della Signoria a' tempi dell'autore.
(89) DIMMI NINO. Dimmi pazzo, come fu Nino che, ceduto il regno per un giorno a Semiramide, fu da lei fatto uccidere.
(90) PIGLIARE I CIECHI per farli cantare.
(91) DARE. Percuotere.
(92) IL PAN PEPATO si fa con molti aromati e canditi che, nel taglìarlo, restano come occhi in quella pasta scura. Cavati questi occhi che son dolci, il resto è più frizzante e acre, forte.
(93) CON LE PILLOLE ecc. Questa arpia d'amante, che avea posto tutto il suo amore negli erari del suo Romolo, col purgar questi di danaro, purgò sè della bile amorosa.
(94) AMMARTELLATO dall'amore e dalla gelosia.
(95) TRITONI. Uomini vili e mal vestiti, quasi uomini triti.
(96) EMPIESI I CALZONI  perchè dalla paura gli si muove il corpo.

 
 
 

Sonetti di Agostino Gobbi 1-3

Sonetti di Agostino Gobbi
Tratti da "Scelta di sonetti e canzoni de' più eccellenti rimatori d'ogni secolo" di Agostino Gobbi, aggiornato da Eustachio Manfredi, Volume 4, 1^ edizione, Bologna 1711, per Costantino Pisarri, sotto le Scuole. Il frontespizio del volume reca il seguente titolo: Rime d'alcuni illustri autori viventi aggiunte alla terza parte della Scelta d'Agostino Gobbi.

Agostino Gobbi morì a soli 24 anni allorché furono pubblicati i primi due volumi della sua opera. Nel 1711 Eustachio Manfredi curò la pubblicazione degli altri due volumi di "Aggiunte". L'opera del Gobbi conobbe altre tre edizioni, nel 1718, nel 1727 e nel 1739 e per lunghissimi anni costituì l'antologia per antonomasia della poesia italiana.
Malgrado la morte lo abbia colto in età così giovane, Agostino Gobbi ebbe una vita molto intensa e conobbe una meritata fama non solo come letterato, ma anche come uomo pubblico.
Di lui si conoscono soltanto undici sonetti, pubblicati postumi da Eustachio Manfredi nel quarto volume della raccolta.

1. pag. 7

Signor, poiché impiegando ingegno, ed arte
Giugnesti a tal, che quanto Uom cape, e quanto
Altrui Natura, e il Ciel largo comparte
Possiedi; e n'hai fra tutti il più bel vanto;

Odo or le voci di tua fama sparte
Da l'Indo, al Mauro celebrarti tanto;
E veggio ancor da la più eccelsa parte
Scender la gloria, ed a te porsi a canto.

Ed oggi, oggi che vuol la giusta Dea,
Stanca de' falli nostri, a l'alta sfera
Disciorre i vanni, ove regnar solea;

Te qui lascia in sua vece, ond'ella spera
Vedere oppressa ogi altra colpa, e rea,
E risorger la bella età primiera.


2. pag. 8

Veder di sdegni acceso il fiero Marte,
E crudel ferro trar da le fucine
Del Dio di Lenno, e minacciar rovine,
E stragi, e morti in questa, e in quella parte;

Veder da gli odj atroci a terra sparte
Le più superbe moli al Ciel vicine,
E coperte da l'erbe, e da le spine
Tutte l'altr'opre di natura e d'arte;

Veder distrutto il Mondo, e i figli estinti
Piagner l'afflitte Madri, e per la terra
I più famosi Eroi depressi, e vinti,

Veder (ahi vista, che i più forti atterra)
Correr i fiumi d'uman sangue tinti:
E puossi odiar la pace, amar la guerra?


3. pag. 8

Tal forse era in sembianze, e bello tanto,
E tal negli atti, e ne l'umil contegno
Quella, che Sparta lasciò in doglia, e 'n pianto,
E in Troja accese crudel foco indegno;

Qual, di lusinghe adorno apparve al santo
Eroe l'Abitator del cieco regno,
Ch'avea speranza con quel dolce incanto
Distorlo al fin da l'alto suo disegno.

Folle! e' vincer credea tanto valore;
Ma quei lo vinse, e chiara in Ciel memoria
Ne trasse, e 'n terra non caduco onore.

Bello il mirar dopo la gran vittoria
Tornar fremendo il vinto; e il vincitore
Starsene tutto umìle in tanta gloria!

 
 
 

Sonetti inediti (Burchiello)

Sonetti inediti del Burchiello (Domenico Di Giovanni)

I

Andando in Spagna per la fiera a Todi,
io vidi in un baston cento porchette
ch'erano arrosto: e quivi le palette
teneva el capitan da monte Godi.

E quello era da Trievi e, se ben odi,
con la sua birraria era alle strette
coi capi grossi e con le lor garrette,
e l'uno all'altro dice: - Or rodi, rodi -.

E gli erano in farsetto e gobbi snelli,
attorno al collo di molti ballanti,
e lor cantando prima gonfian quelli

E fan bordon, sì come gli otricelli
delle pive lombarde, et odi i canti
che paion di Valmonton belanti uccelli.

E questi sono i belli,
in la valle di Todi ver Perusa,
ballando tutti a suon di cornamusa.

E quivi questo s'usa:
ballano i gozzi e lì cantano i muti,
al suon delle campane di duo imbuti.

II

Campane rotte e staffe sgangherate,
orpel da ceri e spalle di formiche,
e unghie sanguinose e resie antiche,
fanno morir le pulci a mezza state.

E' pedicelli, ch'ha nelle mani un frate,
che fa 'l dì quattro o cinque magne biche,
fanno del culiseo surger l'urtiche,
cagion delle fagiane spampanate.

E truovo, nelle cetere de' buoi,
che 'l suon de' ragnateli, in val di Stento,
è buono a far ballare i colatoi;

E le grondaie, infino al fondamento,
hanno saputo come tu non puoi
del favagello operar più l'unguento.

Tosto che 'l lume è spento,
porta un boccal di vino e quattro gotti
e, se fie ver, con esso chiarirotti.

III

Come desideroso di nuova arte
vi mando un bel provato esperimento
per voler dipartir l'or da l'argento,
sì come truovo a le mie scritte carte.

Un'acqua, che di subito diparte
li doi metalli senza fuoco o vento,
a ciò porrete el vero intendimento,
sì che bene intendiate a parte a parte.

Un basto d'asin maschio prendarete,
con trentasette libbre di buturo;
venti staia di funghi trovarete,

Tre pettini di stoppa ed un tamburo,
dieci coglion di preti presi arete
ed una cotta di sapon ben duro.

E faccioti securo
se tutte queste cose per lambicco
distillerai, poi tu sarai ben ricco.

IV

Commodi proprii e segreti ridotti,
finzion coperte e 'l farsi bello in piazza,
e chi me' vi sgumina e vi scacazza
riformerà questi nuovi rimbrotti.

Sarà che Iddio vorrà gli altri son motti,
e chi più nel metallo si diguazza
non sa se la fia natta o pur codazza,
s'a nuovo tempo e patti ci fien rotti.

Il caso è dubbio ed i pareri strani,
d'assai pompe risulta poco effetto,
così 'l tempo vi fugge tra le mani.

Ch'i' vi vegghi interromper, i' ve l'ho detto,
ogni vostro disegno è sciolto a' cani,
per sbucarla infine a suo dispetto.

Sicché fate concetto
di condur tal disegno che riesca,
e tendere ispaniato a chi v'aesca.

V

Corse già venti giorni il monton d'oro,
quando scontrò la stella saturnina
e fe' partenza dalla pellegrina,
ed io alle fresc'ombre m'inamoro.

E vinto era il partito in concestoro,
che non si comperassi più tonnina,
e tolsono una carta d'agnellina
e fecionne rogato ser Ristoro.

Allor fecion rombazzo l'uova sode,
andorno al Santo alla benedizione
perché gli aglietti avien lunghe le code.

E fu in que' dì sì grande uccisione,
ch'è una crudeltà pur a chi l'ode:
però ne feci tal rimembrazione.

Poi fu consolazione
agli animi gentil, e gli altri annoia,
che son sì vaghi della salamoia.

 
 
 

Il Malmantile racquistato 01-1

Post n°1557 pubblicato il 01 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore. 1861)

PRIMO CANTARE

Argomento

Marte, sdegnato perchè il Mondo è in pace,
Corre, e dal letto fa levar la suora:
E in finto aspetto, e con parlar mendace
Mandala a svegliar l'ire in Celidora.
Fa la mostra de' suoi Baldone audace:
Indi all'imbarco non frappon dimora:
E per via narra con che modo indegno
Bertinella occupato avea il suo Regno.


1
Canto lo stocco e 'l batticul di maglia (1),
Onde Baldon sotto guerriero arnese (2),
Movendo a Malmantile aspra battaglia,
Fece prove da scriverne al paese,
Per chiarir Bertinella e la canaglia (3)
Che fu seco al delitto in crimenlese (4),
Del fare a Celidora sua cugina,
Per cansarla del regno, una pedina (5).

2
O Musa che ti metti al Sol di state
Sopra un palo a cantar con sì gran lena,
Che d'ogn'intorno assordi le brigate,
E finalmente scoppi per la schiena;
Se anch'io, sopr'alle picche dell'armate,
Vòlto a Febo, con te vengo in iscena,
Acciocch'io possa correr questa lancia (6),
Dammi la voce, e grattami la pancia (7).

3
Alcun forse dirà ch'io non so cica,
E ch'io farei il meglio a starmi zitto.
Suo danno; innanzi pur; chi vuol dir dica:
Fo io per questo qualche gran delitto?
S'io dirò male, il Ciel la benedica;(8)
A chi non piace, mi rincari il fitto (9).
Non so s'e' se la sanno questi sciocchi,
Ch'ognun può far della sua pasta gnocchi.

4
Mi basta sol se Vostra Altezza (10) accetta
D'onorarmi d'udir questa mia storia
Scritta così come la penna getta,
Per fuggir l'ozio, e non per cercar gloria:
Se non le gusta, quando l'avrà letta,
Tornerà bene il farne una baldoria (11);
Chè le daranno almen qualche diletto
Le monachine quando vanno a letto.

5
Offerta gliel'avea già, lo confesso;
Ma sommene anche poi morse le mani,
Perchè il filo non va nè ben nè presso (12),
E versi v'è che il Ciel ne scampi i cani.
Ma poi ch'ella la vuole, ed io ho promesso,
Non vo' mandarla più d'oggi in domani;
Chè chi promette, e poi non la mantiene,
Si sa, l'anima sua non va mai bene.

6
Ma che? siccome ad un che sempre ingolla
Del ben di Dio (13), e trinca del migliore,
Il vin di Brozzi (14), un pane e una cipolla
Talor per uno scherzo (15) tocca il cuore (16);
Così la vostra idea (17), di già satolla
Di que' libron che van per la maggiore (18),
Forse potrà, sentendosi svogliata,
Far di quest'anche qualche corpacciata.

7
Già dalle guerre le provincie stanche,
Non sol più non venivano a battaglia;
Ma fur banditi gli archi e l'armi bianche
Ed eziam il portare un fil di paglia:
Vedeansi i bravi acculattar le panche,
E sol menar le man sulla tovaglia;
Quando Marte dal ciel fa capolino,
Come il topo dall'orcio al marzolino (19):

8
Chè d'averlo non v'è nè via nè modo,
Se dentr'ad un mar d'olio (20) non si tuffa:
E reputa il padron degno d'un nodo (21),
Che lo lascia indurire e far la muffa,
Così Marte, che vede l'armi a un chiodo
Tutt'appiccate, malamente sbuffa,
Che metter non vi possa su le zampe,
E che la ruggin v'abbia a far le stampe.

9
Sbircia di qua di là per le cittadi
Nè altre guerre o gran campion discerne,
Che battaglie di giuoco a carte e a dadi,
E stomachi d'Orlandi (22) alle taverne.
Si volta, e dà un'occhiata ne' contadi,
Che già nutrivan nimicizie eterne;
E non vede i villan far più quistione,
In fuor che colla roba del padrone.

10
Ond'ei, che in testa quell'umor si è fitto,
Che l'uom si crocchi (23) pur giusta sua possa;
Senza picchiar nè altro, giù sconfitto
L'uscio a Bellona manda in una scossa.
Niun fïata perciò, non sente un zitto,
Perch'ella dorme, e appunto è in sulla grossa;
Poichè la sera avea la buona donna
Cenato fuora e preso un po' di nonna (24).

11
Le scale corre lesto come un gatto:
Poi dal salotto in camera trapassa:
E vede sopra un letto malrifatto,
Ch'ell'è rinvolta in una materassa;
Sta cheto cheto, e con due man di piatto
Batte la spada sopr'ad una cassa:
La qual s'aperse, ed ei, vistevi drento
Robe manesche (25), a tutte fece vento (26).

12
Ma non fa sì che la sorella sbuchi,
Di modo ch'ei la chiama e le fa fretta:
La solletica, e dice: Ovvía, fuor bruchi (27):
Lo spedalingo (28) vuol rifar le letta.
S'allunga e si rivolta come i ciuchi
Ella, che ancor del vino ha la spranghetta (29):
E fatto un chiocciolin(30) sull'altro lato,
Le vien di nuovo l'asino legato (31).

13
Oh corna! disse il re degli smargiassi:
E intanto le coperte avendo preso,
Le ne tira lontan cinquanta passi;
Ma in terra anch'egli si trovò disteso;
O che per la gran furia egli inciampassi;
O ch'elle fusson di soverchio peso;
Basta ch'ei battè il ceffo, e che gli torna
In testa la bestemmia delle corna (32).

14
Ella svegliata allora escì del nidio:
E dicendo che 'n ciò gli sta il dovere,
E ch'ei non ha nè garbo nè mitidio (33),
Non si può dalle risa ritenere;
Cosa ch'a Marte diede gran fastidio:
Ma perch'ei non vuol darlo a divedere,
Si rizza e froda (34) il colpo che gli duole:
Poi dice che vuol dirle due parole.

15
Dì' pur, la dea risponde, ch'io t'ascolto:
Hai tu finito ancora? ovvía dì' presto;
Ma prima di quei panni fa' un rinvolto,
E gettalo in sul letto, ch'io mi vesto.
Quello non sol, ma quanto aveva tolto
Di quella cassa, ei rende, e mette in sesto:
E postosi a seder su la predella (35),
Con gravità dipoi così favella.

16
Sirocchia, male nuove; poichè in terra
Veggiam ch'all'armi più nessuno attende;
Onde il nostro mestiere, idest la guerra,
Che sta in sul taglio (36), non fa più faccende.
Sai che la Morte ne molesta e serra,
Che la sua stregua (37) anch'ella ne pretende;
E se non se le dà soddisfazione,
La ci farà marcir 'n una prigione.

17
Bisogna qui pigliar qualche partito,
Se noi non vogliam ir nella malora:
Ed un ce n'è, ch'è buono arcisquisito,
Qual è, che si risvegli Celidora (38),
C'ha dato un tuffo nello scimunito (39),
Mentre di Malmantil si trova fuora;
E passandola sempre in piagnistei,
Pigra si sta, come non tocchi a lei.

18
Ma come quella, pare a me, che aspetta
Che le piovano in bocca le lasagne,
Senza pensare un Jota alla vendetta,
La sua disgrazia maledice, e piagne.
Or mentre (40) ch'ella in arme non si metta
Per racquistar lo scettro e sue campagne,
Molto male per noi andrà il negozio,
Che muoiam di mattana (41) e crepiam d'ozio.

19
Chi sa? forse costei se ne sta cheta,
Perch'ella vede esser legata corta (42);
Che s'ell'avesse un dì gente e moneta,
Tu la vedresti uscir di gatta morta;
Ma qui Baldon farà dall'A alla Zeta;
(43)So quel ch'io dico, quando dico tórta:
Ritrova tu costei, sta' seco in tuono (44);
Chè quant'al resto, anch'io farò di buono (45).

20
Vattene dunque, e in abito di mago,
Dopo il formar gran circoli e figure,
Conchiudi e dille che tu se' presago
Che presto finiran le sue sciagure:
E quel tuo corazzon pelle di drago (46),
Imbottito d'insulti e di bravure,
Mettile indosso; chè vedra'la poi
Far lo spavaldo più che tu non vuoi.

21
Bellona, che ha il medesimo capriccio
Di far braciuole, va col sarrocchino (47)
E col bordone e un bel barbon posticcio,
Sembrando un venerabil pellegrino:
E fatto di parole un gran piastriccio,
Esser dicendo astrologo e indovino,
Che vien di quel discosto più lontano (48),
La ventura le fa sopr'alla mano.

Note:

(1) CANTO LO STOCCO ecc. Dice il nostro Poeta in modo ridevole ciò che gli epici tutti col solito Canto le armi; e nomina lo stocco, specie dì spada che ha forma quadrangolare, e il batticulo, parola già usata per giuoco a, significare il giaco, arma del dosso.
(2) GUERRIERO ARNESE, Insegne militari, apparato bellico, e forse anche, fortezza, luogo fortificato. - Quando altri fa cosa da nulla e se ne vanta come di prodezza, gli si dice: hai fatto assai; scrivi al paese, e il modo è preso dal fatto di quei che, andati alla guerra, d'altro non iscrivono al paese che di lor geste.
(3) PER CHIARIR. Scaponire, sgarire, far ricredere e pentire del fare ecc.
(4) DELITTO IN CRIMENLESE, di lesa maestà.
(5) FARE UNA PEDINA è fraudare altri di ciò ch'egli è vicino a conseguire. Qui intende fraudarla del regno. Modo preso dal giuoco degli scacchi.
(6) CORRER QUESTA LANCIA.Tirare a fine quest'opera: dai giuochi degli anfiteatri.
(7) GRATTAMI LA PANCIA. Fa' tu a me, divenuto cicala, ciò che a te si suole, per farti cantare. Grattare il corpo a uno vale, cercare di cavargli di bocca un segreto, o cosa almeno ch'e' non vuol dire.
(8) IL CIEL LA BENEDICA. Pazienza, quel che è fatto è fatto.
(9) MI RINCARI IL FITTO, quasi il fisso, il fissato; come dicesse: mi faccio io forse pagare? usa per dire: non temo le male lingue.
(10) VOSTRA ALTEZZA Il cardìnale Leopoldo de' Medici.
(11) BALDORIA è fiamma di materie aride, che presto finisce, fatta per lo più per allegria. - Quelle faville che prima di spengersi errano per le ceneri della carta arsa, diconsi dai bambini LE MONACHINE che VANNO A LETTO.
(12) NÈ, BEN NÈ  PRESSO, Tutti intendono: nè bene nè presso a bene. Ma poichè l'immagine è dal tessere, non potrebbe voler dire: il filo non va spedito bene, né s'accosta presso agli altri, sì che la tela riesca uguale?
(13) BEN DI DIO. Grazia di Dio, vivande squisite.
(14) BROZZI è luogo sotto Firenze, che dà, o dava, un vino debole.
(15) PER UNO SCHERZO. Per istravizio o tornagusto.
(16) TOCCA IL CUORE. Va al cuore, gusta moltissimo.
(17) IDEA. Intelletto mente.
(18) VAN PER LA MAGGIORE. Sono di prima classe; qui, di gran dottrina. Il modo è dai magistrati delle Arti di Firenze, le quali dividevansi in Maggiori o Minori.
(19) MARZOLINO è un cacio che s'incomincia a lavorare di marzo nella Valdelsa in Toscana: e il migliore è quello di Lucardo.
(20) UN MAR D'OLIO. L'olio in cui si tiene immerso il marzolino, per conservarlo.
(21) NODO, laccio, forca
(22) STOMACO D'ORLANDO vale, Uomo di gran coraggio; ma qui l'aggiunta alle taverne, dà alla frase il senso proprio, che torna tanto più ridicolo.
(23) CROCCHIARE, è il cantare della chioccia; esprime pure il suono di un vaso di terra cotta gesso; vale anche cicalare, e qui percuotere, dar busse.
(24) PIGLIAR LA NONNA. Il Minucci dice che questo modo è lo stesso che pigliar la mónna, imbriacarsi: ma il Biscioni afferma che il secondo modo soltanto è in uso, e così legge l'edizione di Finaro.
(25) MANESCHE. Qui, pronte e comode a valersene.
(26) FECE VENTO. Fece quel che il vento fa alle cose leggieri, che le porta via.
(27) FUOR BRUCHI. Via di qua, esci dal letto.
(28) LO SPEDALINGO. Il guardiano degli spedali ove si ricettano i pellegrini, per destarli e avvisarli che è tardi, suol gridare: S'hanno a rifar le letta.
(29) LA SPRANGHETTA o stanghetta è un particolare dolor di capo o stordimento che prova al destarsi chi ha bevuto troppo vino.
(30) FARE UN CHIOCCIOLINO. Raggrupparsi come la chiocchiola.
(31) LEGAR L'ASINO. Il villano preso per via dal sonno, lega l'asino a un ramo, e si mette a dormire.
(32) GLI TORNA IN TESTA ecc. Si fa in fronte un corno, un bernoccolo, un biccio, come dicono a Siena.
(33) MITIDIO. Giudizio, ordine. È parola corrotta da metodo.
(34) FRODA. Nasconde, dissimula
(35) PREDELLA. Questa voce di varii significati, qui rappresenta quel mobile che oggi comunemente chiamiamo comodino.
(36) MESTIERE CHE STA IN SUL TAGLIO, nel senso ovvio vorrebbe dire: Mestiere di chi vende drappi a braccia, al minuto, cioè tagliandoli. Ma qui significa: Mestiere che consista nel tagliare, e tagliar uomini.
(37) STREGUA. Qui, porzione dovuta, dazio.
(38) SI RISVEGLI dalla sua inerzia, Celidora, che trovasi fuor del suo Stato di Malmantile, per esserne stata cacciata da Bertinella.
(39) DARE UN TUFFO, nello scimunito, nel pazzo o simile vale fare atto, o diportarsi da scimunito, da pazzo ecc.
(40) MENTRE. Finchè.
(41) MATTANA. Malinconia.
(42) LEGATA CORTA. Non ha forze bastanti, come cavallo che se è legato a corto, non può fare grandi sforzi
(43) SO QUEL CH'IO DICO ecc. Il Pulci nel suo Morgante nomina la tórta per significare un'altra cosa; poi aggiunge: So quel ch'io dico quando dico tórta. Questo verso è passato in proverbio per esprimere. M'intend'io.
(44) STA' SECO IN TUONO. Vacci d'accordo.
(45) FAR DI BUONO. Giocar di danari e non di nulla; e perciò, stare attento, operare con ogni attenzione.
(46) CORAZZON Fatto di PELLE DI DRAGO.
(47) SARROCCHINO. Mantello cortissimo di cuoio o di tela incerata.
(48) CHE VIEN più da lungi che da qual siasi più lontano luogo: ossia, di lontanissimo. Forse invece di quel è da leggere qual.

 
 
 

Poesie amorose per Laura 3

Post n°1556 pubblicato il 01 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Poesie amorose per Laura

SONETTO III

Se, nell'inseguire il suo superbo sogno, perirà, morrà contento.

Poi che spiegate ho l'ale al bel desio,
quanto per l'alte nubi altier lo scorgo,
più le superbe penne al vento porgo,
e, d'ardir colmo, verso il ciel l'invio.

Né del figliuol di Dedalo il fin rio
fa ch'io paventi, anzi via più risorgo:
ch'io cadrò morto a terra ben m'accorgo;
ma qual vita s'agguaglia al morir mio?

La voce del mio cor per l'aria sento:
- Ove mi porti, temerario? China,
ché raro è senza duol troppo ardimento! -

- Non temer (rispond'io) l'alta rovina,
poiché tant'alto sei, mori contento,
se 'l ciel sì illustre morte ne destina. -

Luigi Tansillo
(dal Canzoniere di Luigi Tansillo)

 
 
 

Il Malmantile racquistato

Post n°1555 pubblicato il 01 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Avvertenza.

Quando Salvator Rosa lamentava il traviamento degl'ingegni poetici con quel suo celebre detto che le metafore avean consumato il sole, gli spiriti allegri dei veri begli umori toscani incominciavano a sentire non poco fastidio di certe svaporate piacevolezze e di un artifiziato modo di ridere e voler far ridere che ancor prevaleva. Gli anagrammi, i bisticci, i riboboli, i monnini, la lingua jonadattica, e la maccheronica, che per qualche tempo avean formato la delizia di molte menti volgari, se eran cose non ancora cadute in discredito, riconoscevansi tuttavia non esser la vera e natural fonte del ridicolo e del burlesco. In questo tempo Lorenzo Lippi scriveva il suo Malmantile, e dove pure avesse voluto, gli sarebbe stato impossibile tenere una via affatto nuova in questo genere. Egli dunque, abbandonate le scimunitaggini patenti, prese nel dettare il suo bizzarro poema, dei modi proverbiali più vulgati e più veramente ridevoli; ma non sì però che la sua lingua restasse affatto immune di quelle maniere artifiziose e convenzionali, che se sono accettate per qualche tempo, non giungono mai ad esser parte e patrimonio della favella nazionale. Questo fece che il Malmantile, per essere inteso in ogni sua frase, non dico già fuori di Toscana, ma fuori di Firenze, e forse anche in Firenze stesso, ebbe bisogno di commento, appena uscito alla luce. Principal ragione di ciò furono quei rimasugli (il nostro autore direbbe quei spiragli) di lingua jonadattica che il Poeta non seppe o non volle o non potè del tutto evitare.
Molti non sanno (e in questo non deploriamo davvero la loro ignoranza) che cosa sia questa lingua jonadattica. Onde, ci è forza darne una qualche idea, perchè siano più facilmente intese alcune espressioni di questo caro poemetto, le qual per buona ventura sono abbastanza rare. Consisteva pertanto questa pretesa lingua jonadattica nell'adoperare le parole più strane, o anche le comuni, in un senso affatto diverso da quello che hanno, senza che corra la minima analogia o attenenza tra l'idea espressa dalla parola adoperata, e l'idea che si vuole esprimere, purchè però una o due sillabe della voce che si adopra trovinsi anche nella parola che si dovrebbe adoprare se non si parlasse in lingua jonadattica. Citeremo un solo esempio che leggesi anche nel Lippi. Per dire che un tale aveva finito tutto il suo avere, cercavasi una parola che avesse la sillaba fi, e trovato Fillíde, si diceva: Il tale ha fatto Fillide. Lunghe scritture o cicalate, come gli autori stessi le chiamavano, ci restano ancora di queste scimunitaggini, le quali, benchè prestissimo cadessero in meritata dimenticanza, lasciarono tuttavia nel comune linguaggio una qualche orma di sè in certe locuzioni proverbiali universalmente accettate, del cui significato è impossibile rendersi una ragione. Tale è per esempio, il modo anche oggi comunissimo, Uscir del seminato. Noi lo adoperiamo come equivalente di Uscir di tèma: in origine però esso valeva, come può vedersi al c. I st. 28 Uscir di senno. E perchè mai aveva questo valore? Perchè seminato e senno cominciano con due lettere uguali. Men degna di derisione era certo la lingua furbesca o zerga, nella quale almeno fra la parola adoperata e la sua corrispondente in lingua comune correva una qualche analogia.
Il Malmantile, dunque, altro di jonadattico non contiene che queste poche frasi proverbiali. Ma e per queste e per molte altre maniere di lingua, che sono o furono solo toscane, e alcune anche fiorentine soltanto, questo graziosissimo poemetto non potrebbe essere inteso in ogni sua parte per tutta Italia, se non fosse accompagnato di note e dichiarazioni.
È celebre forse quanto il Malmantile, o almeno egualmente noto fra i letterati, il commento che ne fece il Minucci, accresciuto e talvolta rettificato dal Biscioni; e sparso qua e là di argute osservazioncelle del Salvini. Questo commento considerato in sè stesso è uno stupendo lavoro di arte filologica, ma considerato come dichiarazione del Malmantile è sproporzionato ed esuberante; è tale, che fa rifuggire dalla lettura del poema chiunque gli studi filologici non fa sua delizia, Mossi da questo pensiero, abbiamo creduto di provvedere al comodo di molti, ristringendo quanto era possibile il sullodato commento. Abbiamo seguíto quasi sempre l'interpretazione di quei due celebri espositori e dove lo credevamo opportuno, per ragioni che sarà facile intendere ad ogni luogo, abbiamo citato i loro nomi, spezialmente se riportavamo le loro stesse parole. Nel dichiarare voci e maniere, ci è parso meglio essere abbondanti che scarsi; ma dico abbondanti nel numero non nella lunghezza delle dichiarazioni,
A molti Toscani parrà strano che siansi spiegate certe parole e frasi che sono di uso comunissimo in Toscana: ma credo che mi bisogni appena di far considerare che ai non Toscani ho principalmente pensato di render servigio «nel dichiarare, (dirò colle modeste parole del Minucci) oppure confondere ed intrigare quello che nella presente opera ho stimato poco intelligibile fuori della nostra città di Firenze.»
Precede al Poema la vita che scrisse del Lippi il Baldinucci; la quale sebbene, si diffonda in cose artistiche più che l'indole di questo libro non comporti, ha nondimeno, abbondanti notizie sul Malmantile, e ritrae, meglio di ogni altra la natura e l'ingegno del nostro Poeta; come quella che fu dettata da chi lo ebbe familiare amico.

Antelmo Severini
(da: "Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi, alias "Perlone Zipoli")

 
 
 

Vita di Lorenzo Lippi

Post n°1554 pubblicato il 01 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Vita di Lorenzo Lippi
scritta da Filippo Baldinucci
(Da "Il Malmantile racquistato")

Nacque Lorenzo Lippi, pittore e cittadino fiorentino, l'anno 1606. Il padre suo fu Giovanni Lippi, e la madre Maria Bartolini. Attese ne' primi anni della fanciullezza alle lettere umane; ma poi, stimolato da una molto fervente inclinazione che egli aveva avuto dalla natura alle cose del disegno, deliberò, senza lasciar del tutto le lettere, di darsi a quello studio: e per ciò fare, si accomodò appresso a Matteo Rosselli, pittore non solo di buon nome, ma altrettanto pratico nel suo mestiere, e caritativo nel comunicare a' giovani la propria virtù, ed insieme con esso ogni buon costume civile e cristiano. Era in questo tempo il giovanetto Lorenzo di spirito sì vivace e focoso, che con esser egli applicato a vari divertimenti, tutti però virtuosi e propri di quell'età, cioè di scherma, saltare a cavallo e ballare, ed anche alla frequenza dell'accademie di lettere; seppe contuttociò dare tanto di tempo al principale intento suo, che fu il disegno e la pittura, che in breve lasciatisi indietro tutti gli altri suoi condiscepoli, arrivò a disegnar sì bene al naturale, che i disegni, usciti di sua mano in quella età, stanno al paragone di molti de' principali maestri di quel tempo. In somma disegnava egli tanto bene, che se e' non fosse stato in lui un amor fisso, che egli ebbe sempre intorno alla semplice imitazione del naturale, poco o nulla cercando quel più che anche senza scostarsi dal vero può l'ingegnoso artefice aggiugner di bello all'opera sua, imitando solamente il più perfetto, con vaghezza di abbigliamenti, varietà e bizzarria d'invenzione, avrebbe egli senza fallo avuta la gloria del primo artefice che avesse avuto ne' suoi tempi questa patria, siccome fu stimato il migliore nel disegnare dal naturale. A cagione dunque di tal suo genio alla pura imitazione del vero, non volle mai fare studio sopra le opere di molti gran maestri, stati avanti di lui, che avessero tenuta maniera diversa, ma un solo ne elesse, in tutto e per tutto conforme al suo cuore: e questo fu Santi di Tito, celebre pittor fiorentino, disegnatore maraviglioso e bravo inventore; ma per ordinario tutto fermo ancora esso nella sola imitazione del vero. Delle opere e disegni di costui fu il Lippi così innamorato, che fino nell'ultima sua età si metteva a copiarne quanti ne poteva avere de' più belli: ed io lo so, che più volte gli prestai per tale effetto certi bellissimi putti, alcuno de' quali (così buon maestro come egli era) non ebbe difficultà di porre in opera quasi interamente, senza punto mutarli. Ammirava il Rosselli suo maestro questo suo gran disegno accompagnato anche da un piacevole colorito: e frequentemente gli diceva alla presenza di altri: Lorenzo, tu disegni meglio di me. Gli faceva, con sua invenzione, disegnare, cominciare, e talvolta finire affatto di colorire alcune delle molte opere, che gli erano tuttavia ordinate: e fra quelle, che uscirono fuori per fatte dal Rosselli, che furono quasi interamente di mano di lui con sola invenzione del maestro, si annoverano i due quadri, che sono nella parte più alta di quella cappella de' Bonsi di San Michele dagli Antinori, per la quale aveva fatto il Rosselli la bellissima tavola della Natività del Signore: e rappresentano, uno il misterio della Visitazione di santa Lisabetta, e l'altro l'Annunziazione di Maria. Ma perchè una pittura ottimamente disegnata, e più che ragionevolmente colorita, tuttochè manchevole di alcuna dell'altre belle qualità, fu sempremai in istima appresso agl'intendenti; acquistò il Lippi tanto credito, che gli furono date a fare molte opere, che si veggono per le case di diversi gentiluomini e cittadini. Fra le altre una gran tavola di una Dalida e Sansone per Agnolo Galli: pel cavaliere Dragomanni, a concorrenza di Giovanni Bilivert, di Ottavio Vannini, e di Fabrizio Boschi, tutti celebri pittori, e allora maestri vecchi, fece un bel quadro da sala: uno pel marchese Vitelli: e pel marchese Riccardi, nel suo casino di Gualfonda, colorì uno spazio di una volta d'una camera, di sotto in su: e pel Porcellini speziale dipinse la favola d'Adone, ucciso dal porco cignale: e fece anche altri quadri di storie, e di mezze figure, che lunga cosa sarebbe il descrivere. Partitosi poi dal maestro, crebbe semprepiù il buon concetto di lui, onde non mai gli mancò da operare. Per uno, che faceva arte di lana, fece un'Erodiade alla tavola di Erode, che fu stimata opera singolare: e l'anno 1639, per la cappella degli Eschini colorì la bella tavola del sant'Andrea in San Friano: e altri molti quadri e anche ritratti al naturale.
Era egli già pervenuto all'età di quaranta anni in circa, quando si risolvè di accasarsi colla molto onesta e civile fanciulla Elisabetta, figliuola di Giovan Francesco Susini, valente scultore e gettatore di metalli discepolo del Susini vecchio, e di Lucrezia Marmi, cugina di Alfonso di Giulio Parigi, architetto e ingegnere del serenissimo Granduca Ferdinando II. Non era ancor passato un anno dopo il suo sposalizio, che al nominato Alfonso Parigi, suo nuovo parente, fu inviata commissione d'Ispruck dalla gloriosa memoria della serenissima arciduchessa Claudia, di mandar colà al servizio di quell'Altezza un buon pittore, onde il Parigi, conoscendo il valore di Lorenzo, diede a lui tale occasione. Si pose egli in viaggio: e pervenutovi finalmente, e ricevuto con benigne dimostrazioni da quella amorevole principessa, si mise ad operare in tutto ciò che gli fu ordinato: e fecevi molti ritratti di principi, dame e cavalieri di quella corte, e altre pitture. E perchè Lorenzo non solamente per una certa sua acutezza nei motti, e per alcune parole piacevoli, che senza nè punto nè poco dar segno di riso, con quel suo volto, per altro in apparenza serio e malinconico, profferiva bene spesso all'occasioni., rendeva amenissima e desiderabile la conversazion sua: e anche perchè egli aveva già dato principio alla composizione della bizzarra leggenda, di cui appresso parleremo, intitolandola la Novella delle due Regine, che poi ridusse ad intero poema, col leggerla ch'ei faceva nell'ore del divertimento a quella Altezza e con certo piacevole e insieme rispettoso modo suo proprio nel conversare co' grandi, seppe guadagnarsi a gran segno la grazia di quella principessa, alla quale, così volendo ella medesima, la dedicò, colla lettera che ci pose a principio di essa, che comincia: Ati figliuolo di Creso. Dimorò il Lippi in quelle parti circa sei mesi, e non diciotto, come altri scrisse; ma essendo in quei medesimi tempi seguíta la morte della Principessa, egli ben favorito e ricompensato se ne tornò alla patria: dove non lasciando mai di fare opere bellissime in pittura, seppe dare il suo luogo e 'l suo tempo alla continuazione del suo poema. La prima cagione di questo assunto suo fu quella che ora io sono per dire, per notizia avuta da lui medesimo.
Aveva il Lippi, fino dalla fanciullezza, avuto in dono dalla natura un'allegra, ma però onesta vivacità e bizzarria, con una singolare agilità di corpo, derivata in lui non solo dal non essere soverchiamente carnoso, ma dall'essersi indefessamente esercitato per molti anni nel ballare, schermire, nelle azioni comiche, ed in ogni altra operazione, propria di uno spirito tutto fuoco, come era il suo; ma non lasciava per questo di quando in quando di esercitare il suo ingegno nella composizione di alcun bel sonetto e canzone in istile piacevole. Coll'avanzarsi in lui l'età, e accrescersi le fatiche del pennello, insieme col pensiero della casa, si andarono anche diminuendo molto il tempo e l'abilità agli esercizi corporali, ma col cessar di questi si andava sempre più augumentando in lui la curiosità de' pensieri, tutti intenti al ritrovamento di un buono e bello stile di vaga poesia. Aveva egli, come si è accennato, non solamente qualche parentela, ma ancora grande amicizia e pratica col nominato Alfonso Parigi, che possedeva una villa in sul poggio di Santo Romolo, sette miglia lontano da Firenze sopra la strada pisana, in luogo detto la Mazzetta, posseduta oggi da Bernardino degli Albizzi, gentiluomo dotato di ottimi talenti e di graziosi costumi: la qual villa è non più di un miglio lontana da quel castello di Malmantile, che oggi per essere in tutto e per tutto vòto di abitatori e di abitazioni, benchè conservi intatte le antiche mura, non ha però di castello altro che il nome. Andava bene spesso il Lippi in villa del Parigi: e nel passare un giorno, andando a spasso, da quel castello, vennegli capriccio, com'egli era solito a dirmi, di comporre una piccola leggenda in istile burlesco la quale dovesse essere, come sogliamo dir noi, tutto il rovescio della medaglia della Gerusalemme Liberata, bellissimo poema del Tasso: e dove il Tasso elettosi un alto e nobilissimo soggetto per lo suo poema, cercò di abbellirlo co' più sollevati concetti e nobili parole, che gli potè suggerire l'eruditissima mente sua; il Lippi deliberò di mettere in rima certe novelle, di quelle che le semplici donnicciuole hanno per uso di raccontare a' ragazzi: ed avendo fatta raccolta delle più basse similitudini, e de' più volgari proverbi e idiotismi fiorentini; di essi tessè tutta l'opera sua, fuggendo al possibile quelle voci, le quali altri, a guisa di quel rettorico atticista ripreso da Luciano ne' suoi piacevolissimi Dialoghi, affettando ad ogni proposito l'antichità della toscana favella, va ne' suoi ragionamenti senza scelta inserendo. Fu sua particolare intenzione il far conoscere la facilità del parlar nostro: e che ancora ad uno, che non aveva (come esso) altra eloquenza che quella che gli dettò la natura, non era impossibile il parlar bene. Ora, perchè spesso accade, che anche le grandissime cose da basso e talvolta minutissimo cominciamento traggono i loro principii, egli, che da prima non avendo altro fine, che dare alquanto di sfogo al suo poetico capriccio, e passar con gusto le ore della veglia, aveva avuto intenzione di imbrattar pochi fogli, de' quali anche già si era condotto quasi al destinato segno, fu necessitato partire per Germania al servizio, come abbiam detto, della serenissima arciduchessa: e con tale sua gita venne ad incontrare congiuntura più adeguata, per dilatare alquanto l'opera sua; perchè, essendo egli colà forestiero e senza l'uso di quella lingua, e perciò non avendo con chi conversare, talvolta, o stanco dal dipingere, o attediato dalla lunghezza de' giorni o delle veglie, si serrava nella sua stanza, e si applicava alla leggenda finchè la condusse a quel segno che gli pareva abbisognare per dedicarla alla serenissima sua signora siccome fece colla citata lettera. Tornatosene poi alla patria, ed avendo fatto assaporare agli amici il suo bel concetto, gli furono tutti addosso con veementi e vive persuasioni, acciocchè egli dovesse darle fine, non di una breve leggenda come egli si era proposto ma di uno intero e bene ordinato poema.
Uno di coloro, che a ciò fare forte lo strinsero, fu il molto virtuoso Francesco Rovai; a persuasione del quale vi aggiunse la mostra dell'armata di Baldone. Agli ufizi efficacissimi del Rovai si aggiunsero quelli di altri amici, e particolarmente di Antonio Malatesti, autore della Sfinge, e de' bei Sonetti, che poi dopo la sua morte sono stati dati alle stampe, intitolati: Brindis de' Ciclopi. Grandissimi furono ancora gli stimoli, che egli ebbe a ciò fare da Salvator Rosa, non meno rinomato pittore, che ingegnoso poeta. Da questo ebbe il Lippi il libro, intitolato: Lo Cunto de li Cunti, ovvero Trattenemiento de li Piccerille, composto al modo di parlare napolitano, dal quale trasse alcune bellissime novelle: e, messele in rima, ne adornò vagamente il suo poema. Chi queste cose scrisse, il quale ebbe con lui intrinseca dimestichezza, e in casa del quale il Lippi lesse più volte in conversazione d'amici quanto aveva finito, a gran segno l'importunò dello stesso: ed ebbe con lui sopra le materie, che e' destinava di aggiungervi, molti e lunghi ragionamenti; tantochè egli finalmente si risolvè di applicarvisi por davvero. Ciò faceva la sera a veglia con suo grandissimo diletto, solito a dire al nominato scrittore, che in tale occasione bene spesso toccava a lui il fare la parte di chi compone e quella di chi legge; perchè nel sovvenirli i concetti, e nell'adattare al vero i proverbi, non poteva tener le risa. E veramente è degno il Lippi di molta lode, in questo particolarmente, di aver saputo, per dir così, annestare a' suoi versi i proverbi, e gli idiotismi più scuri: e quelli adattare a' fatti sì propri, che può chicchessia, ancorchè non pratico delle proprietà della nostra lingua, dal fatto medesimo, e dal modo, e dalla occasione in che sono portati, intender chiaramente il vero significato di molti di loro. E ciò sia detto, oltr'a quanto si potrebbe dire in sua lode, e de' suoi componimenti. Per un giocondissimo divertimento, e ricreazione, nell'ordinazione di cui non ischifò i concetti pure di chi tali cose scrive: aggiunsevi molti episodi col canto dell'Inferno: e finalmente in dodici cantari terminò il bel poema del Malmantile Racquistato, al quale volle fare gli argomenti per ogni Cantare il già nominato Antonio Malatesti.
L'allegoria del suo Poema fu, che Malmantile vuol significare in nostra lingua toscana, una cattiva tovaglia da tavola; e che, chi la sua vita mena fra l'allegria de' conviti, per lo più si riduce a morire fra gli stenti. Nè è vero ciò, che da altri fu detto, che egli per beffa anagrammaticamente vi nominasse molti gentiluomini, ed altri suoi confidenti: perchè ciò fece egli per mera piacevolezza, con non ordinario gusto di tutti loro, i quali con non poca avidità ascoltando dall'organo di lui le proprie rime, oltre modo goderono di sentirsi leggiadramente percuotere da' graziosi colpi dell'ingegno suo. Chi vorrà sapere altri accidenti, occorsi nel tempo che il Lippi conduceva quest'opera, legga quanto ha scritto il dottor Paolo Minucci nelle sue eruditissime Note fatte allo stesso Poema, per le quali viene egli, quanto altri immaginar si possa, illustrato ed abbellito.
Non voglio però lasciar di dire in questo luogo, come un solo originale di quest'opera uscì dalla penna del Lippi, messo al pulito, che dopo sua morte restò appresso de' suoi eredi: ed una accuratissima copia del medesimo, riscontrata con ogni esattezza da esso originale, fu appresso del cavaliere Alessandro Valori, gentiluomo di quelle grandi qualità e doti, di che altrove si è fatta menzione. Questo cavaliere era solito alcune volte fra l'anno di starsene per più giorni in alcuna delle sue ville d'Empoli vecchio, della Lastra, o altra, in compagnia di altri nobilissimi gentiluomini, e del virtuoso cavaliere Baccio suo fratello, dove soleva anche frequentemente comparire Lionardo Giraldi proposto d'Empoli, che all'integrità de' costumi e affabilità nel conversare, ebbe fino da' primi anni congiunto un vivacissimo spirito di poesia piacevole, in stile bernesco, come mostrano le molte e bellissime sue composizioni: ed a costoro fece sempre provare il Valori, oltre il godimento di sua gioconda conversazione, effetti di non ordinaria liberalità, con un molto nobile trattamento di ogni cosa, con cui possa, e voglia un animo nobile e generoso, onorare chichessia nella propria casa. Con questi era bene spesso chiamato il Lippi, e non poche volte ancora lo scrittore delle presenti notizie, che in tale occasione volle sempre essere suo camerata. Veniva Lorenzo ben provvisto colla bizzarria del suo ingegno e col suo poema; con quella condiva il gusto del camminare a diporto, il giuoco, e l'allegria della tavola, mediante i suoi acutissimi motti: e con questo faceva passare il tempo della vegghia con tanto gusto, che molti, che sono stati soliti di godere di tale conversazione, ed io non meno di essi, non dubito di affermare di non aver giammai per alcun tempo veduto giorni più belli.
Ma tornando al poema, ne son poi a lungo andare uscite fuori altre moltissime copie di questa bell'opera, tutte piene di errori; laonde il già nominato dottor Paolo Minucci volterrano, soggetto di quella erudizione che è nota, e che ci ha dato saggio di essere uno de' più leggiadri ingegni del nostro tempo, avendo trovato modo di averla tale quale uscì dalla penna dell'autore, ha poi fatto, che noi l'abbiamo finalmente veduta data alla luce, e dedicata al serenissimo cardinale Francesco Maria di Toscana, coll'aggiunta delle eruditissime Note, che egli vi ha fatte per commissione della gloriosa memoria del serenissimo cardinale Leopoldo, acciocchè meglio si intendano fuori di Toscana alcune parole, detti, frasi, e proverbi, che si trovano in essa, poco intesi altrove che in Firenze.
Non voglio per ultimo lasciar di notare, quanto fu solito raccontare l'abate canonico Lorenzo Panciatichi, cavaliere di quella erudizione che a tutti è nota: e fu, che con occasione di aver con altri cavalieri viaggiato a Parigi, fu ad inchinarsi alla maestà del Re, il quale lo ricevè con queste formali parole: Signore abate, io stavo leggendo il vostro grazioso Malmantile: e raccontava pure l'abate stesso, che la maestà del Re d'Inghilterra fu un giorno trovato con una mano posta sopra una copia di questo libro, che era sopra una tavola: e tutto ciò seguì molti anni prima, ch'e' fosse dal Minucci dato alle stampe.
Tornando ora a parlare di pitture, molte furono le opere, che fece il Lippi; il quale finalmente pervenuto all'età di cinquantotto anni, per l'indefesso camminare, ch'e' fece un giorno, com'era suo ordinario costume, anche nell'ore più calde, e sotto la più rigorosa sferza del Sole, parendogli una tal cosa bisognevole alla sua sanità, avendo anche quella mattina preso un certo medicamento, assalito da pleuritide con veemente febbre, con straordinario dolore degli amici, e con segni di ottimo cristiano, come egli era stato in vita, finì il corso de' giorni suoi: e fu il suo corpo sepolto nella chiesa di Santa Maria Novella nella sepoltura, di sua famiglia. Lasciò due figliuoli maschi, e tre femmine: il primo de' maschi si chiamò Giovan Francesco, che vestì l'abito della Religione Vallombrosana, e Antonio, che vive al presente in giovanile età. Delle femmine, la prima ha professato nel convento di San Clemente di Firenze: la seconda vestì l'abito religioso nel Monte a San Savino: e l'altra fu maritata a Gio. Giacinto Paoli, cittadino Fiorentino, che premorì al marito senza figliuoli.
Fu il Lippi persona di ottimi costumi. amorevole e caritativo; perlochè meritò di essere descritto nella venerabile Compagnia della Misericordia, detta volgarmente de' Neri, che ha per istituto il consolare e aiutare i condannati alla morte: ed in essa fu molto fervoroso. Non fu avido di roba, o interessato: ma se ne visse alla giornata col frutto delle sue fatiche, e di quel poco che gli era restato di patrimonio. Ma perchè tale è l'umana miseria, che a gran pena si trova alcuno, per altro virtuoso, che alla propria virtù non congiunga qualche difetto, possiamo dire che il Lippi, più per una certa sua natural veemenza d'inclinazione che per altro, in questo solo mancasse, e facesse anche danno a sè stesso, in essere troppo tenace del proprio parere in ciò che spetta all'arte, cioè d'averne collocata la perfezione nella pura e semplice imitazione del vero, senza punto cercar quelle cose, che senza togliere alle pitture il buono e 'l  vero, accrescono loro vaghezza e nobiltà: la qual cosa molto gli tolse di quel gran nome, e delle ricchezze, che egli avrebbe potuto acquistare, se egli si fosse renduto in questa parte alquanto più pieghevole all'altrui opinioni. In prova di che, oltre a quanto io ne so per certa scienza, per altri casi occorsi, raccontommi un gentiluomo di mia patria, che avendo avuto una volta dì oltre i monti commissione di far fare quattro tavole da altare a quattro de' più rinomati pittori d'Italia; egli una ne allogò, se bene ho a mente, al Passignano, una al Guercino da Cento, ed una ad altro celebre pittore di Lombardia, che bene non mi si ricorda, e una finalmente al Lippi: ed a questo la diede con patto, ch'egli si dovesse contentare di dipignerla secondo quella invenzione che egli gli avrebbe fatto fare da altro valoroso artefice, sì quanto al numero e all'attitudine delle figure, quanto al componimento, abbigliamento, architetture. e simili: e dissemi di più il gentiluomo, che fatta che fu l'invenzione in piccolo disegno, il Lippi si pose a operare, e a quella in tutto e per tutto si conformò con gli studi delle figure: e finalmente condusse un'opera, che riuscì, a parere di ognuno, la più bella di tutte le altre. Potè tanto in Lorenzo quest'apprensione di voler poco abbigliare le sue invenzioni, che non diede mai orecchio ad alcuno che fosse stato di diverso parere: e al dottore Giovambatista Signi, celebre medico, che avendogli fatto fare una Juditta colla testa di Oloferne si doleva ch'e' l'avesse vestita poveramente e poco l'avesse abbigliata; rispose doversi lui contentare ogni qualvolta egli per far quella figura più ricca, le aveva messo in mezzo al petto un gioiello di sì grossi diamanti, che sarebbero potuti valere trentamila scudi: ed esser quell'altro adornamento solo di pochi cenci e di quattro svolazzi. Dirò più, che questo suo gusto tanto fermo nella prima imitazione fece sì che poco gli piacquero le pitture di ogni altro maestro, che avesse diversamente operato, fussesi pure stato quanto si volesse eccellente: e si racconta di lui cosa che pare assolutamente incredibile, ma però altrettanto vera, e fa: che egli passando di Parma al suo ritorno d'Ispruck, nè meno si curò di punto fermarsi per vedere la maravigliosa cupola e le altre diversissime pitture che sono in quella città, di mano del Coreggio. E sia ciò detto per mostrar quanto sia vero che a quel professore di queste belle arti, che intende di giugnere a maggiori segni della virtù, della stima e dell'avere, fa di mestieri talvolta, ricredendo il proprio parere, agli esempi di coloro accostarsi, che a giudizio universale de' più periti già hanno ottenuto il possesso di eccellenza sopra di ogni altro artefice.

 
 
 
 
 

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