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Messaggi del 19/05/2015

L'antico Caffè Greco (2)

Post n°1627 pubblicato il 19 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Ma la bottega di via Condotti, negli anni vicini al 1870, fu per i liberali qualcosa di più di un luogo di riunione; poiché essi ogni qualvolta ne avessero avuto bisogno erano sicuri di trovarvi in tutte le ore qualcuno pronto, dietro certi segnali di riconoscimento stabiliti, a ricevere notizie urgenti, a dar loro ordini e consigli, o, se fosse necessario, a metterli in contatto coi capi del «Comitato di azione».

Fra le molte testimonianze da me raccolte, le quali confermano la verità di quanto io dico, mi basti riferirne una sola.

Anni addietro, trovandomi in Udine, ebbi la fortuna di conoscere colà Giusto Murarti, uno dei Settanta di Villa Glori; e spesso nelle mie escursioni nel Friuli mi rallegrai di averlo compagno caro, indimenticabile, e guida preziosissima. Quasi sempre, mentre trottavamo lungo le strade e i sentieri della dolce campagna friulana, io desiderando vivamente di sentire narrare da lui qualcuno degli episodi gloriosi del nostro Risorgimento, a cui egli aveva dato tanta parte della giovinezza, gli rivolgevo qualche dimanda; ma per quella repugnanza che han sempre gli uomini d'azione, quando hanno veramente e disinteressatamente agito, a parlare di se stessi, schivava di rispondermi: e se talvolta si piegava alle mie insistenze, vi si piegava in modo cosi breve da farmi perdere la voglia di più dimandare.

Nondimeno, durante le nostre gite, io le tentavo tutte per indurlo a discorrere, e talora riuscivo a metterlo sulla buona via; ma dopo poche parole una cosa qualunque su cui mettesse gli occhi era per lui un eccellente pretesto per non andare più innanzi: una contadina curva sotto il carico di una grossa gerla ricolma di foglie ; un vecchio che seduto davanti all'uscio di una casa rustica, tenendo sulle ginocchia un bambino e fumando la pipa si godeva gli ultimi raggi del sole cadente; due ragazzi che ruzzavano con un cane; qualche cascina, col tetto pieno di voli festosi e canori di passeri, dalla cui porta spalancata usciva, insieme con qualche mugghio, un acre e pur piacevole odore di stabbio; un gruppetto pittoresco di alberi annosi; la forma slava e il colore ferrigno di un campanile coronato di colombi; una macchia di lichene sopra una pietra antica; un fiore che si piegava sotto il peso di un'ape; una linea di montagne azzurre, in cima alle quali s'eran fermate alcune nuvolette rosee, come se avessero voluto riposarsi un poco prima di rimettersi a camminare per le vie del firmamento; insomma, una cosa qualunque bastava a sviarlo dal soggetto dove io l'avevo portato con tanta pazienza, ed era più che sufficiente a fargli rompere il filo del discorso in modo tale da non poterlo più riannodare. E come se tutte codeste cose e codeste case, non fossero state già bastanti a farmi disperare, non di rado a render vani i miei tentativi ci si mescolavano anche Giulio Cesare con la decima legione, Attila con gli unni, Paolo Diacono e Gisulfo coi longobardi, e Napoleone con Campoformio! Se a costoro riusciva di penetrare, ospiti da me non desiderati ne graditi, nei nostri ragionamenti, non c'era più verso di mandarli via. Un giorno, ricordo, in un discorso, provocato da una delle mie solite domande, s'intromisero i patriarchi d'Aquileja e il disastro fu irreparabile.

Ma una volta, proprio quando meno me lo sarei creduto, il mio caro amico, che avevo tante volte importunato invano, potei finalmente sentirlo parlare come io desideravo.

La cosa andò cosi. In una delle nostre gite, attirati da un lieto verzicare di alcune collinette lontane, avevamo abbandonato la strada che porta a Cividale, e per raggiungerle ci eravamo messi a camminare nei campi; quando, non so come, ci trovammo in una vallicella in mezzo a un labirinto di piccoli fossi legati fra loro da un intrico di ruscelletti allegri e sonori, i quali indorati dal sole prossimo a tramontare, come se fossero impauriti dalla nostra presenza, luccicavano per qualche istante e correvano a rimpiattarsi nel folto dell'erba densa, grassa e giallognola. Dopo di esserci impantanati più volte, un sentiero molle e appiccicoso coperto di foglie morte ci fece la carità di riportarci sulla via maestra.

Il sole era scomparso. Un po' di luce violacea agonizzava ancora nell'aria e mandava un debole riflesso sulla campagna grigia ove incominciava a sbocciar qualche lume. Faceva freddo, e noi dopo di aver pestato più volte coi piedi il terreno solido e asciutto ci avviammo in fretta verso un chiarore lontano che sorgendo dietro a una prominenza bruna si diffondeva dolcemente sul cielo stellato.

— Udine! — disse il Murarti accennando il chiarore.

E percorso in silenzio un breve tratto di strada, mi chiese:

— E tu a Roma dove passi le serate? Io in quel tempo ero solito di andare quasi ogni sera nella bottega di via Condotti, e però gli risposi:

— Al Caffè Greco.

— Al Caffè Greco? — esclamò il mio amico fermandosi di botto.

— Al Caffè Greco, — replicai io fermandomi a mia volta e sorpreso della sua sorpresa.

— Vicino a piazza di Spagna?

— Precisamente.

— Ah! — seguitò il Muratti,

— lo conosco bene. Quando fui a Roma prima del settanta vi andai sovente insieme al Cucchi, al Guerzoni, all'Adamoli e ad altri.

— E dopo una breve pausa, abbassando il capo e la voce, soggiunse :

— L'ultima volta che ci sono stato fu quando Enrico Cairoli mi ci mandò da Villa Glori.

— Ti ci mandò Enrico Cairoli? — gli chiesi subito io.

— E perché?

— Perché? — ripetè il mio amico, macchinalmente; e per tutta risposta fece un gesto brusco, agitò nell'aria scura le mani aperte e, scrollando le spalle, riprese a camminare.

Ma questa volta io non lasciai cadere l'occasione di sentirlo discorrere. L'argomento mi interessava troppo; e perciò messo da parte ogni riguardo ed abusando magari della sua pazienza, tante glie ne feci e tante glie ne dissi che egli alfine impietosito dalle mie preghiere, o forse anche per liberarsi dalle mie domande insistenti, rallentò un poco il passo, fissò un momento gli occhi nel chiarore che veniva via via crescendo in fondo alla strada, e masticando le parole incominciò a parlare lentamente così:

— La ragione per cui, invece di sbarcare alla Passeggiata di Ripetta, noi dovemmo fermarci poco prima di Ponte Milvio, la conosci: l'hai scritta cosi bene in poesia, dunque è inutile di starla a ripetere, perché la tua poesia..

— Ma lascia stare la mia poesia! Racconta!

— Ecco. Dunque, come sai, dopo di aver passato la notte in un canneto sulla riva sinistra del fiume, non sapendo quale esito avesse avuto l'insurrezione di Roma, che noi volevamo aiutare, nella speranza di vedere arrivare qualcuno con qualche ordine, all'alba, salimmo a Villa Glori Lassù in alto, in ogni caso, ci saremmo sempre potuti difendere meglio di quanto avremmo potuto farlo ; giù in basso sulla sponda del Tevere. È chiaro?

— Chiarissimo. E allora?

— Eh, allora le cose non si mettevano bene. La necessita di avere notizie da Roma per noi si faceva sempre più urgente, ma le ore passavano e da Roma non veniva nessuno. Enrico Cairoli, prima di salire a Villa Glori, aveva mandato a Roma uno dei nostri, un romano, un certo Candida; ma non tornò più. Allora Enrico mi chiamò e mi disse:

— Sentì, Giusto, quassù non possiamo rimanerci troppo a lungo : occorre di pigliare una decisione; ma prima di pigliarla, è necessario di sapere che diamine è successo a Roma. Su Candida oramai non ci si può più contare. Bisogna che vai tu.

A sentirmi dare quest'ordine io feci un gesto di sorpresa; e non potei fare a meno di pronunziare qualche parola di rammarico.

Enrico Cairoli, come sai, era di carattere impulsivo; e appena vide 'il mio turbamento, aggrottò le ciglia e gridandomi in faccia esclamò: «Ah! Non vuoi andare?» e senza darmi il tempo di rispondere,'seguitò: «Va bene! , Allora vado io». Mi voltò le spalle e si mise a camminare con passo risoluto verso il cancello della Villa. Io gli corsi subito dietro, lo fermai e gli dissi: «No, guarda, Enrico, delle mie parole non tenerne conto; mi sono state suggerite dal dolore che provo nel dovermi allontanare da tè, da Giovannino e dai compagni: del resto, se tu credi che a Roma ci debbo andare proprio io, comandami». «Si, devi andar tu», mi rispose Enrico con voce ferma. E dopo un istante di silenzio continuò: «Dispiace anche a me di doverti chiedere questo sacrificio; ma non si può fare altrimenti. Tu a Roma ci sei già stato; a Roma conosci molti dei nostri amici; sai in quale strada si trova il luogo dove ti debbo mandare; dunque bisogna che vai tu». Io chinai la testa in silenzio, ed Enrico, dopo di essersi guardato intorno, mi si avvicinò, abbassò la voce e mi disse : «Ecco, Giusto, quello che devi fare : appena sarai a Roma vai in via Condotti; entra nel Caffè Greco; siediti a un tavolino e fai i nostri gesti d'intesa. Certamente qualcuno ti verrà vicino, ti saluterà con le parole che sai; ti stenderà la destra e risponderà ai tuoi cenni coi cenni relativi: quando ti sarai assicurato bene di tutto,.

fagli conoscere la nostra posizione, digli quanti siamo e domandagli come ci dobbiamo regolare : sentilo e cerca ' di ritornare più presto che puoi. Vai !».

Io, come forse non ignori, ero il furiere dei Settanta; avevo nel mio sacco una cartella comperata a Terni; la presi, ci misi dentro due o tre fogli di carta pulita e scesi verso il cancello della Villa.

— Perché pigliasti la cartella? — gli chiesi.

— Ma, ti dirò, io sapevo quanti studi di pittura e di scultura vi fossero lungo la via Flaminia: dovevo entrare a Roma per la Porta del Popolo: se mai fossi stato fermato mi sarei dato per pittore tedesco — rispose. E seguitò:

— Dunque, come ti dicevo, mi avviai verso il , cancello. Passando davanti alla casetta del guardiano incontrai un ragazzetto di circa otto o nove anni. Carino!Aveva una faccetta intelligente quanto mai!Appena lo vidi, mi venne subito l'idea di portarlo con me. Se sarò costretto a fingermi pittore, lo farò passare per un mio modellino, pensai; e pensai ancora che forse avrebbe potuto indicarmi qualche scorciatoia. Insomma, me gli avvicinai e gli dissi:

— Vuoi venire a Roma; — Il caro ragazzo si mise a ridere e acconsenti prontamente. Io gli diedi la cartella e scendemmo insieme a Porta del Popolo.

La Porta la trovammo barricata. Una sentinella ci fermò.

Venne un graduato, ci rivolse qualche domanda, si persuase della verità di quanto gli rispondemmo e ci lasciò passare; ma appena io entrai in piazza del Popolo alcuni carabinieri mi fermarono di nuovo e mi portarono in una caserma, che era li presso alla Porta. C'è ancora?

— Si — gli risposi sorridendo — si, la caserma c'è ancora; ma i carabinieri pontifici non ci sono più. Adesso, grazie a Dio, ci sono i nostri.

Il Murarti sorrise anche lui, e dopo un istante di silenzio riprese :

— Nella caserma fui interrogato lungamente da un ufficiale che poi m'ingiunse di seguire uno dei suoi uomini. Costui mi fece entrare in una stanza; chiuse le finestre e mi ordinò di spogliarmi. M'ero appena levata la camicia quando all'improvviso dal di fuori venne un rumore confuso. Tesi le orecchie e nel rumore distinsi uno palpitare di cavalli. Il carabiniere buttò subito sopra a una sedia la mia giacca che aveva incominciato a esaminare minuziosamente, corse verso la porta e scomparve; ed io rimasi li, solo, a passeggiare in su e in giù nella camera come il padre Adamo nel paradiso terrestre.

Di li a poco il calpestio dei cavalli risuonò più forte; diminuì come se si allontanasse e si spense. Udii ancora qualche grido e poi non sentii più nulla. Avvicinai pianino la testa ai vetri di una finestra e vidi un soldato che correva, qualche cavallo e cinque o sei uomini intorno a un ufficiale che parlava facendo gesti energici e concitati.

— Deve esser successo qualche cosa di grave, — dissi fra me, e un pensiero orribile incominciò a ficcarmisi nel cervello. Per non lasciarmi andar giù, ripresi a passeggiare per la camera.

Dopo un quarto d'ora, lungo come un quarto di secolo, l'uscio della stanza s'apri e apparve un altro carabiniere: rimase un momento sorpreso nel vedermi e mi chiese con mala grazia: «Che cosa state a fare qua dentro?». Gli risposi in tedesco: «Aspetto la visita». Capisse o no, alzò le spalle bruscamente, mi guardò con gli occhi torvi e additando la porta grugnì; «Andate via!». Figurati! Mi rivestii in un attimo, uscii dalla caserma, chiamai con un cenno il ragazzo che stava ad aspettarmi, seduto con la cartella sulle ginocchia su la scalinata di una chiesa, e mi diressi verso il Babuino. Naturalmente io cercai di conoscere quale fosse stata la cagione di tutto quel chiasso da me udito poco prima; e seppi che mentre io mi trovavo coi carabinieri, una pattuglia di dragoni era arrivata da Ponte Milvio, s'era fermata davanti al quartiere annunciando l'entrata di Garibaldi a Villa Glori, e aveva proseguito al trotto giù per il Corso. I nostri, dunque, erano stati scoperti. Mi si gelò il cuore! Affrettai il passo; attraversai volando la piazza di Spagna ed entrai nel Caffè Greco.

La bottega era quasi deserta. Mi sedetti a un tavolino.

chiesi un caffè e feci i nostri gesti. Un giovanotto mi si avvicinò sorridendo e salutandomi come doveva; mi porse la mano; rispose puntualmente a qualche parola che gli dissi e mi invitò con un cenno della testa ad uscire. Appena fummo in istrada egli si fermò davanti alla vetrina di un negozio di oreficeria e indicando gli oggetti esposti bisbigliò: «Dobbiamo andare da Piatti in Via Panico». E senz'altro s'incamminò verso il Corso. Io lo lasciai allontanare di un centinaio di passi e poi gli andai appresso, avendo sempre a lato il mio ragazzetto con I» cartella sotto al braccio.

In via Panico non ci si arrivava mai! Finalmente il giovanotto dopo di essersi fermato un momento davanti a un portoncino di una vecchia casa e di essersi voltato a guardarmi, vi entrò. Lo raggiunsi per le scale : salimmo insieme fino all'ultimo piano e trovammo il Piatti. Senza aspettare di essere interrogato, gli dissi subito chi ero, da dove venivo e chi mi mandava. Il Piatti si turbò, strinse le pugna, e con voce sommessa, accostando le sue labbra al mio orecchio, balbettò : «La rivoluzione è fallita. Non c'è più niente da fare. Bisogna tornare immediatamente a Villa Glori e dire ai Cairoli che si ritirino.

Non c'è un minuto da perdere!».

Atterrito dalle sue parole gli stesi la mano per licenziarmi; ma lui mi fece cenno di aspettare. Prese un foglietto di carta velina, vi scrisse sopra qualche parola col lapis; piegò e ripiegò più volte il foglietto e lo fece diventare una pallottola della grossezza di un cece, rivesti la pallottola con un involucro di stagnola e me la diede ripetendo ancora : «Bisogna far presto ! Non c'è un minuto da perdere. Fra poco i papalini saranno a Villa Glori !» Mi misi in bocca la pallottola; scesi giù per le scale a precipizio, e col mio fedele ragazzetto che avevo lasciato in istrada, corsi a Porta del Popolo. «Non si passa!». Parlando un po' in tedesco e un po' in italiano pregai un ufficiale di permettermi di ritornare nel mio studio di pittura a Papagiulio, dove gli dissi che abitavo; ma non ottenni nulla. Le provai tutte e tutte inutilmente. Figurati! Arrivai perfino a proporgli di farmi accompagnare da un milite!

— Caspita! — interruppi io. — Se l'ufficiale avesse acconsentito, ti saresti trovato in un bell'impiccio! Che avresti fatto

— Ah! —rispose il Muratti, calmo calmo, — se l'uffciale avesse accettato di farmi accompagnare da un carabiniere, io sarei uscito; ma puoi esser certo che il carabiniere nella città eterna non ci sarebbe più entrato.

Non stentai a crederlo. Qual forza il Muratti avesse nelle mani lo sapevo. Pochi giorni innanzi me ne aveva offerto un piccolo saggio. Passando vicino ad una venditrice di frutta che aveva accanto un canestro ricolmo di mele, egli ne aveva presa una, se l'era messa fra l'indice ' e il medio della sua destra, e con la sola pressione delle due dita l'aveva spaccata come se fosse stata di burro.

— Dunque non potesti uscire? — ripresi io, affrettandomi a riallacciare il racconto spezzato dalla mia interruzione.

— Non fu possibile — rispose seccamente il mio amico; e dopo qualche istante di silenzio, spintovi da un'altra domanda, seguitò:

— Che volevi che facessi? Quando fui persuaso della inutilità di ogni insistenza tornai indietro; feci un lungo giro e andai a Porta Salaria; anche li non potei far nulla. Provai a Porta Pia: tutti i miei tentativi furono vani. Allora, perduta assolutamente ogni speranza di poter passare, guardando il ragazzetto che m'era ; venuto sempre appresso e mi stava davanti con la cartella ^ sotto al braccio, mi venne in mente che quello che non riusciva a me avrebbe potuto riuscire a lui. Ci pensai su qualche minuto, e mi decisi. D'altronde non si rischiava niente. Lo portai in un punto di un vicolo dove non potevamo essere osservati e gli dissi: «Dimmi un po', tu saresti buono di ritornare a Villa Glori, solo?». «Sicuro!», rispose prontamente il ragazzo. «Bravo !» esclamai io subito; e mostrandogli la pallottola che racchiudeva il biglietto del Piatti, continuai: «Vedi questo "confetto"? Se tu riesci a portarlo a quei signori che stanno a Villa Glori, quei signori ti faranno un gran regalo. Vuoi andare?». «Sicuro!», tornò a rispondere il ragazzo, tendendo il braccio verso il "confetto". «No, guarda», gli dissi io allora, «questo "confetto" non lo devi portare in mano e nemmeno in saccoccia, perché potresti perderlo: l'hai da tenere come l'ho tenuto io fino ad ora : apri la bocca!».

Il caro Righetto, ridendo, mi guardò con gli occhietti intelligenti e apri la boccuccia. Io, raccomandandogli di stare bene attento a non inghiottirlo, gli ci misi dentro il "confetto"; poi lo accarezzai, gli diedi un bacetto, gli raccomandai ancora di non inghiottire il "confetto", e lo lasciai partire.

Dopo di aver fatto una cinquantina di passi egli si volto sorridendo e mi disse addio con la manina. Gli risposi. Mi si inumidirono gli occhi e non lo vidi più.

— E gliela fece a passare?

— Gliela fece! — esclamò il Muratti, battendo una su l'altra le palme delle mani: poi, aprendo le braccia, soggiunse:

— Come e dove riuscisse a passare non lo so e non lo saprò mai; ma passò: tomo a Villa Glori e diede il "confetto" a Enrico. Ma ormai Enrico aveva già risoluto di non indietreggiare.

Quello che avvenne poco dopo lo sai.

Appena egli ebbe finito di parlare rimase un istante con gli occhi fissi nel chiarore della città vicina, divenuto ormai più vivido sotto il cielo stellato; poi abbassò la testa sul petto, diede un calcio a una pietra, mandandola a ruzzolare sulla proda della via, e allungò il passo quasi che si volesse allontanare in fretta dalle ultime parole con le quali aveva chiuso il racconto! Percorremmo, senza dire più nulla, un brutto borgo oscuro, fermandoci di quando in quando per lasciar passare qualche carretto ; traversammo un lungo portico scarsamente illuminato da pochi fanali, e rientrammo in Udine.

Trascorso appena un anno dalla sera memorabile in cui egli, cedendo alle mie reiterate preghiere, mi aveva narrato il commovente episodio dell'animosa sua giovinezza, il Muratti venne a Roma: vi rimase parecchi giorni, ed io ebbi la gioia di poter salire con lui a Villa Glori.

Nella luce sfolgorante del dolce pomeriggio primaverile il cielo sereno inchinandosi sui monti rosei della Sabina e del Lazio pigliava nel toccarli la trasparenza e il colore dell'ambra. Al di là delle siepi, sulle quali accanto a qualche bacca lucida e rossa fioriva già il biancospino, le biade alte e verdi ondeggiavano lentamente; e gli ulivi, movendo le foglie brillavano sul fondo luminoso della campagna come se fossero stati d'argento. Sotto alle ficaje, fra gli olmi e i gelsi, tra i ciliegi e i peri, fra i mandorli e i peschi, insieme col continuo ronzio delle pecchie, delle vespe, dei calabroni e delle cantaridi rilucenti di fiore in fiore, nel sole, risuonava un fischiettare giulivo di capinere, di cardellini, di fringuelli e un cinguettio prolungato e vivace di cinciallegre e di passeri. Di tempo in tempo una lucertoletta ci guizzava fra i piedi, si fermava a guardarci con la testina alzata, e spariva in una fenditura del terreno cosparso di margheritine e di anemoni, o fra le pietre e i tufi d'una vecchia macera; e qualche calandra balzando fuori all'improvviso da una zolla rossastra s'alzava rapida a volo, cantando: saliva in alto, più in alto ancora, e sempre cantando si perdeva nello spazio Superata una breve viottola erta e sassosa arrivammo alfine davanti all'"albero dei Cairoli".

Fra i rami fioriti, mossi lievemente da un'auretta soave, e risplendenti nell'azzurro, scorgevasi lo scheletro di una corona votiva dalla quale pendeva, tremolando, un nastro mortuario consunto dal tempo.

Il Muratti, passandosi di tratto in tratto le mani sugli occhi, rimase per qualche tempo in silenzio col capo chinato sul petto, dinanzi al mandorlo sacro; poi sempre in silenzio si avviò a passo lento verso la villa. Quando vi giunse si avvicinò alle vecchie mura; e dopo di averle osservate con molta attenzione, alzando la destra, m'indicò alcuni buchi che apparivano chiaramente nell'intonaco.

— I papalini; — gli domandai.

Egli abbassò più volte il capo; e avvicinatesi a un cespo di rose bengaline, ne colse una appena sbocciata; guardo un momento il suo colore sanguigno e me la diede; poi come se si destasse da un sogno, mi chiese:

— Dov'è u Tevere?

— Qui sotto — gli risposi accennandogli un piccolo bosco verzicante, dove qua e là sui rami ignudi delle querce accanto alle gemme pronte ad aprirsi c'era ancora qualche foglia ingiallita.

— Andiamoci! — ripigliò subito il mio amico.

— Vorrei rivedere il luogo dove siamo sbarcati.

Dopo di aver rotto coi bastoni un impaccio inestricabile di pruni rigidi e feroci che s'attaccavano ai panni, ed esserci liberati da una sterpaglia di ramoscelli sfrondati stretti insieme tenacemente dall'edera, penetrammo in un boschetto di querciole, di acacie, d'elci, di allori e d'ailanti, e affondando i piedi in un viluppo d'erbacce umide che ad ogni passo ci mandava sul viso ora una tanfata di fracidume e di muffa, ora un delicato e delizioso profumo di violette, lo traversammo e scendemmo in un canneto sulla riva melmosa del fiume.

Il Muratti esitò alquanto prima di riconoscere il punto preciso dove egli era sbarcato coi Settanta; ma alfine, dopo di aver girato più volte gli occhi intorno attentamente e lentamente, aguzzando le ciglia, additandomi un vetrice gobbo e rugoso che si specchiava nell'acqua immota di una piccola insenatura della sponda, esclamò con voce risonante:

— Là, là sbarcammo! Proprio là! — e lasciandosi dietro sulla creta le impronte dei passi frettolosi si avvicinò al vecchio albero e ne accarezzò con la mano aperta e leggera il tronco deforme, e, mentre un ramoscello da lui appena toccato si rialzava oscillando, rimase a guardare all'oriente verso Mentana.

Una rondine strisciò col petto bianco sull'acqua gialla, si posò per un attimo sulla riva assolata e s'allontanò stridendo.

Lungo la via del ritorno egli mi rivolse appena qualche breve parola; ma quando rientrammo in piazza del Popolo, si fermò davanti alla caserma dei carabinieri guardandola a parte a parte, e prima di ritornare a muoversi mi disse:

— Vedi, se tu mi porti in via Panico, io son sicuro di ritrovare quella casa dove andai con quel giovanotto che conobbi al Caffè Greco. — E toccandosi la fronte, aggiunse:

— Ho la certezza di ritrovarla perché la sua immagine ce l'ho stampata qui dentro.

Il sole illuminava ancora la più alta balaustrata del Pincio, l'obelisco e le cupole. Andammo in via Panico e colà, verso Monte Giordano, egli riconobbe facilmente la casa del Piatti.

— E dimmi un po', — gli chiesi poi sorridendo — al Caffè Greco non ci vuoi ritornare?

— Si! — mi rispose subito.

— Si, andiamoci, e cosi avrò rivisto tutto. Però — soggiunse, mentre imboccavamo l'antica e pittoresca via dei Coronari, — però non lo riconoscerò più.

— Non dubitare; che lo riconoscerai perfettamente, — gli risposi. Difatti, appena egli vi entrò, non seppe nascondermi la meraviglia, e aprendo le braccia, esclamò:

— Hai ragione, è proprio tale e quale. Non v'è nulla di cambiato. Nulla. D'altronde io credevo che dopo tanti anni...

— Ah! — lo interruppi ridendo, — gli anni per il Caffè Greco non contano; forse i secoli.

Nella bottega, tutta immersa in una penombra deliziosa, non v'era nessuno, e noi vi rimanemmo fino a quando accesero i lumi. Allora ci alzammo, e sostammo qualche momento nella prima stanza per ammirare ancora una volta le pitture di Ippolito Caffi, morto gloriosamente a Lissa, sulla Palestra al fianco di Alfredo Cappellini; e uscimmo.

Cesare Pascarella
Tratto da Prose

 
 
 

L'antico Caffè Greco (1)

Post n°1626 pubblicato il 19 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

L'antico Caffè Greco (1)

Il Caffè Greco, o per dir meglio l'«Antico Caffè Greco», come si legge sulla insegna in cima alla porta d'entrata, la quale non disdegna di esercitare a tempo e luogo anche il modesto ufficio di porta d'uscita, abita in Roma nel suo domicilio legale in via Condotti numero ottantasei ove vive agiatamente con la mobilia inalterata, come le vecchie abitudini, in tre stanze e mezza: dico tre stanze e mezza perché se la prima, la seconda e la terza hanno su per giù cinque metri di larghezza ed altrettanti di lunghezza, l'ultima, denominata per la sua forma l'omnibus, è larga appena due metri e lunga otto all'incirca.

La prima camera non è molto ricca di luce; tuttavia quella che riceve dalla strada la divide con la seconda: a illuminare la terza ci pensa l'omnibus, il quale ha per soffitto una invetriata su cui sovente i gatti del vicinato amano di andare a passeggiare con le loro innamorate.

Tre specchi, quattro quadri raffiguranti alcune vedute di Venezia, opera di Ippolito Caffi, e un orologio, che potrebbe gareggiare in precisione col più esatto cronometro ginevrino se disgraziatamente oltre al tic e tac non avesse di quando in quando anche il tic di suonare il mezzogiorno verso le cinque pomeridiane, adornano la prima stanza; due specchi e sei quadri decorano le pareti della seconda; la terza invece si accontenta di aver per suo abbellimento un solo specchio ed un busto di gesso, il quale, poveretto, non è mai riuscito a sapere chi egli sia.

Una ridente veste di esilaranti pitture ricopre per tutta la lunghezza le mura dell''omnibus. A chi le guarda dovrebbero far credere, anche nelle più rigide serate dell'inver più crudo, di trovarsi in un delizioso giardino fra il verde fogliame illuminato e riscaldato dal sole primaverile s'aprano, imbalsamando l'aria con profumi inebrianti centinaia e centinaia di rose di ogni forma e colore ma purtroppo, nessuno fra quanti ora si siedono nello stanzino presta più fede alla finzione. E non vi crede più nemmeno il padrone del negozio: difatti egli ha ficcato un chiodo nel cielo azzurro sopra al roseto e vi ha impiccato un orologio, che in tutte le sue ore e sempre in lite con quello della prima stanza. Ma alla discordia dei due orologi i frequentatori della bottega ci badano poco, perché per essi il tempo non ha valore. Dice una antica massima inglese : il tempo è moneta. Se la massima oltre all'esser antica e inglese fosse anche vera, Dio mio!chi mai saprebbe calcolarlo il numero dei milioni che si sciupa in capo all'anno nell'«Antico Caffè Greco»? Dietro all'omnibus sta il bancone del negozio, e sul bancone, chiuse in una specie di gabbia, vi sono le paste. Esse si distinguono in due categorie: semplici e composte. Le semplici costano un soldo l'una, e se il loro aspetto è alquanto modesto non sono per ciò meno buone di quelle composte, le quali valgono due soldi, e spesso hanno le esuberanti forme rivestite di un. manto di colori cosi vivaci da vincere al paragone il più variopinto pappagallo che abbia mai passeggiato e chiacchierato su le lontane rive dell'immenso Orenoco. Del resto tanto le une quanto le altre passano la vita, non breve, lungi da qualunque umano contatto nella loro dolce prigione dalla quale non desiderano di allontanarsi: difatti, se talvolta, per caso, la gabbia ove sono rinchiuse rimane aperta, esse non si muovono, perché sanno, per dolorosa esperienza, che se ne uscissero vi tornerebbero indubbiamente con l'epidermide graffiata, con le carni ferite, con le ossa rotte.

Un giovane scultore tutte le volte che entrava nella bottega soleva chiedere al cameriere caffè e paste, e questi, secondo il costume del locale, glie ne portava tre in un piattino. L'alunno di Fidia, appena il cameriere si allontanava; con una operazione rapidissima, in cui egli sapeva mettere tutta l'abilità di modellatore eccellente, dalle tre paste faceva uscire una quarta e se la mangiava; beveva il caffè che qualche volta pagava, e le paste con un pretesto o con l'altro le rimandava sempre indietro.

Non dico poi che cosa accadesse di solito a certe paste che per loro disgrazia avevano la pancia rigonfia di crema. Come uscivano dalla gabbia, vi rientravano sempre con la pancia vuota: e il loro padrone, prima di andarsene a letto doveva nuovamente e pietosamente tornare a riempirle di panna. Stanco alfine di compiere ogni sera cotesto delicato lavoro, sospese la fabbricazione delle cosi dette bombe alla vainiglia. Pure, bisogna dirlo a sua lode, benché all'onest'uomo il fabbricar dolciumi abbia ognora fruttato molte amarezze, egli continuò sempre a stampar paste, seguendo in tutto e per tutto; per la forma e il peso, per le dimensioni e i colori, i semplici, leali e diritti procedimenti dei suoi antecessori; al punto che se oggi, nell'anno di grazia mille ottocentonovanta, le vaghe e imbellettate dame di qualità, seguite dai vezzi dei cicisbei e dai madrigali degli abati, potessero tornare nella bottega di via Condotti, io credo che oggi, come allora, vi troverebbero le stesse paste. Vi meravigliate forse nel sentirmi parlare di dame di qualità, dì cicisbei, di madrigali e di abati? Ma il Caffè Greco non è venuto al mondo oggi; e tutti sanno come in sui primi anni della seconda metà del settecento abitasse già in via Condotti. Questo lo sanno tutti; ma, purtroppo, la data esatta della sua nascita, come quella della fondazione di Ninive, di Babilonia e di Memfi, non la conosce nessuno : però, come fortunatamente ognuno sa che Memfi, Babilonia e Ninive furono fondate da Nino, da Belo e da Menete, cosi tutti noi possiamo andare orgogliosi di sapere che il Caffè Greco fu messo al mondo da un greco, il quale, a quanto si legge nelle pagine di un vecchio registro della parrocchia di S. Lorenzo in Lucina, si chiamava Nicola della Maddalena.

L'infanzia del Caffè non fu troppo lieta, e il suo babbo dopo di averlo tenuto parecchi anni, ricavandone non grandi utili, lo cedette a un tal Carnesecchi, il quale, anche lui, dopo di averci speso molto e guadagnato poco, lo diede a un certo Salvioni.

Venuto nelle mani del Salvioni il Caffè, passando da un padrone all'altro, era anche passato dall'infanzia all'adolescenza : le vecchie vesti non s'addicevano più al suo nuovo stato, e il buon uomo lo fece ricoprire di pitture da un certo Maderno, e lo corredò di nuova mobilia. Tutto bene ; ma il povero Caffè anche così rinnovato e abbellito, seguitò a tirare innanzi la vita stentatamente come il suo padrone. Questi però non pensò mai di abbandonarlo. E di non averlo abbandonato non ebbe davvero a pentirsi; poiché coll'avanzar degli anni la bottega fondata dall'uomo di Levante, uscendo finalmente dall'adolescenza debole e malsicura ed entrando in una virilità gagliarda e prosperosa, seppe cosi ben ricompensare il suo padrone di Ponente da assicurargli, se non la ricchezza, un'agiatezza invidiabile.

La gratitudine, questa dolcissima catena i cui anelli una volta arrivavano perfino a stringere con legami di benevolenza un Caffè che riceveva un benefizio al padrone che glielo aveva fatto, chi me lo sa dire dove si trova più ai giorni nostri? La cosa da cui il Caffè Greco trasse i mezzi per poter rimunerare con buona moneta sonante il suo benefattore fu giusto appunto quella da cui tutta l'Europa ebbe tanti dolori: il Blocco continentale.

Le strade nelle quali si diletta di camminare la Provvidenza per assettare i cosi ed i casi di questo mondo, facendo quasi sempre il bene degli uni col male degli altri e viceversa, sono davvero incalcolabili ! Chi mai lo avrebbe pensato che essa per favorire l'umile bottega di via Condotti si sarebbe servita di Napoleone, dettandogli a Berlino, nel novembre del 1806, quel decreto dal quale egli doveva poi esser messo sulla via di Sant'Elena? Eppure fu cosi. Il decreto famoso, vietando ogni commercio ed ogni corrispondenza fra il Continente e le Isole Britanniche, fece salire i prezzi dei cosi detti generi coloniali a tale altezza che gli uomini più alti, anche rizzandosi sulle punte dei piedi, non arrivavano a toccarli : il caffè, quando se ne trovava, valeva uno scudo alla libbra, e i caffettieri romani non sapendo più quali cose mettere a bollire nelle cogome, invece dei semi della coffea arabica, ci mettevano i ceci, i fagiuoli e le castagne di Ciociaria.

Il Salvioni ebbe una idea felicissima da cui derivò la sua fortuna: rimpicciolì di un terzo la misura delle tazze che, ricolme della aromatica bevanda, nella sua bottega valevano allora due baiocchi e mezzo, e per cinque le offri ai suoi avventori ripiene di vero caffè. Più tardi, cessato il Blocco, il galantuomo tornò a riempire, sempre di caffè eccellente, per due baiocchi e mezzo le antiche tazze; gli avventori vecchi non si mossero; i nuovi, chiamati in gran numero dalla sua idea felicissima, non se ne andarono, e la fama del Caffè Greco fu assicurata. E via via arricchitosi di nuove stanze, ornatesi di altre pitture e confortato da sempre maggior numero di frequentatori procedette sicuro e tranquillo senza mai più incontrare ostacoli sul suo cammino glorioso; e pur vedendo intorno a sé mutarsi e rimutarsi tante e tante parti della terra, salire e discendere dalla cattedra di S. Pietro tanti pontefici, apparire e sparire dalla scena del mondo tanti re e imperatori, sorgere e tramontare tante rinomanze e nascere e morire tanti suoi colleghi, il vecchio Caffè romano, in mezzo a cosi infinito, tumultuoso, tragico e comico avvicendarsi di uomini e di cose, se pur talvolta fu obbligato a cangiar padrone, non cangiò mai bandiera e rimase ognora un Caffo onesto e morale.

Onesto? Eh, il caffè col quale conforta lo stomaco dei suoi frequentatori odierni... e notturni costa tre soldi alla tazza, ne più ne meno di quanto costava ai bei tempi in cui ebbe l'alto onore di essere visitato da Ippolito Taine, il quale, nel suo Voyage en Italie cosi scrive, rammentandolo; C'est une longne pièce, basse, enfumée; point du tout brillante ni coquette, maìs commode. Il est vrai que presse tout y est bon et à bas prix; le café, qui est excellent, conte trois sous la tasse.

Dal 1864 molte cose son cambiate su tutti e sette i Colli ma nella bottega di via Condotti il prezzo del caffè e rimasto inalterato a tra soldi la tazza.

E come ne il desiderio smodato di maggiori guadagni ne l'avidità di laute ricchezze ebbero mai la potenza di far alzare al Caffè Greco quei bassi prezzi di cui parla il Taine, cosi nessuna cosa al mondo ebbe mai la forza di farlo uscire da quel diritto sentiero di moralità austera nel quale camminò sempre, sorretto e seguito dalla sua virtuosa clientela.. Altri Caffè sorsero a centinaia intorno a lui e cercarono coi lenocini delle forme, con gli splendori abbaglianti delle lumiere e con gli adescamenti lascivi delle cantatrici e dei mimi, di attrarre nelle proprie sale un numero sempre maggiore di frequentatori; ma il Caffè Greco, ah no, mai non si abbassò a tanto, e rimase ognora, mi è caro il ripeterlo, un Caffè onesto, morale e a tre soldi.

Ma a queste tre qualità, già più che sufficienti da sole ad assicurargli la stima e il rispetto di ogni uomo dabbene, esso può aggiungere un'altra onorevolissima, quella di essere stato anche un Caffè liberale e della vigilia; difatti i sentimenti del suo amore per la libertà, se pure non si vuoi tener conto delle prediche che, a quanto afferma l'Ojetti, Ennio Quirino Visconti vi faceva fra il 1797 e il 1799, risalgono, almeno a quanto io ne so, al 1831; poiché fu appunto in uno di quei moti scoppiati qui in Roma in quell'anno, i quali se furono non tutti belli ne di grande importanza, servirono tuttavia ad educare gli animi alla virilità dei sacrifìci, fu proprio in uno di quei moti che il Caffè Greco manifestò coraggiosamente la sua fede nell'idea liberale..

La rivoluzione dei Ducati s'era già propagata nello Stato Pontifìcio, e già durante i pontificati di Leone XII e di Pio Vili, erano avvenute qui fra il Vaticano e il Quirinale sollevazioni e ribellioni, più o meno sanguinosamente represse dalla polizia, quando parecchi artisti romani, alcuni pensionati dell'Accademia di Francia, e qualche medico dell'ospedale di S. Spirito, per reagire contro le inquisizioni, gli arresti, le condanne, le delazioni, le proscrizioni e i supplizi che rendevano la vita intollerabile, decisero di assaltare una caserma di granatieri, in piazza Colonna, precisamente nel piano terreno di un vasto edificio ove era l'archivio pubblico e dove fu poi costruito il portico di Vejo. Per mettere in esecuzione il loro ardito disegno essi scelsero una sera di carnevale : una sera in cui nel palazzo Piombino si festeggiava il matrimonio di Costanza Boncompagni col Duca di Piano.

All'ora stabilita, quei pensionati dell'Accademia francese che avevano giurato di pigliar parte alla non facile impresa, scesero al Caffè Greco e vi trovarono i romani ai quali all'ultimo momento s'erano uniti taluni romagnoli : quivi, secondo quanto io appresi da un vecchio frequentatore della bottega, il quale mi raccontava di essersi trovato presente al momento solenne, i francesi, i romani e i romagnoli prima si abbracciarono e baciarono ripetutamente a vicenda e poi usciti dal Caffè, in silenzio, si diressero verso piazza Colonna, dove altri congiurati, quasi tutti popolani, stavano ad aspettarli.

Uno scultore, un certo Lupi, figlio di un medico di Santo Spirito, guidava gli artisti. Egli, sempre a quanto mi narrava il mio vecchio amico, ci vedeva poco e camminava appoggiandosi a un suo compagno ; e quando arrivò in piazza Colonna disse alla sua guida di condurlo quanto più potesse accosto alla sentinella di piantone sulla porta ilei quartiere, e appena questa ve l'ebbe condotto, il Lupi tirò un colpo di pistola al soldato. Altri colpi di pistola risuonarono qua e là nella piazza; e mentre la gente radunata sotto alle finestre illuminate del palazzo ove celebravasi la festa nuziale fuggiva in preda allo spavento, un gruppo di congiurati balzò fuori dalla penombra che velava il vicolo Cacciabove, e gridando: Viva Filippo Primo! corse verso la caserma esortando i granatieri a non pigliare i fucili; ma questi li presero, li spianarono contro i ribelli, e spararono.

Il Lupi sanguinante per una ferita non grave fu arrestato subito; la maggior parte degli altri riesci a salvarsi con la fuga, e due soldati rientrarono nel quartiere feriti leggermente. Chi pagò per tutti fu il povero portiere di casa.

Piombino, il quale mentre si affrettava a chiudere il portone del palazzo fu colpito da una palla, stramazzò in terra e non si alzò più.

Nei giorni seguenti la polizia essendo venuta a sapere qual parte avessero avuto gli artisti nella zuffa, ne mandò qualcuno a villeggiare in Castel S. Angelo, e ordinò ai carabinieri di sorvegliare la bottega di via Condotti. Ma non per questo i liberali smisero di frequentarla. In quei giorni i pensionati dell'Accademia francese s'univano spesso ai confratelli italiani, massime con quelli di fede liberale, e questi li accoglievano sempre a braccia aperte, anche perché, qualora ce ne fosse stato bisogno, sapevano di poter trovare presso di loro aiuti e protezioni contro le insidie poliziesche: l'Accademia di Francia allora godeva del diritto di asilo, ed era vicina al Caffè Greco.

L'entente cordiale fra gli artisti nostri e quelli francesi continuò strettissima per molti anni, poi venne a poco a poco allentandosi finché nel 1849 si spezzò violentemente.

Mentre le bombe dell'Oudinot piovevano su Roma, un pensionato dell'Accademia commise la grande imprudenza di entrare nella bottega di via Condotti, e quella anche più grande di entrare in una discussione che alcuni tenevano sugli avvenimenti del giorno, e, poveraccio, fini con l'uscire dalla discussione e dal Caffè portandosi via due solennissimi schiaffi datigli da un certo Cascini, un pittore romano, il quale sapeva adoperare le mani meglio dei pennelli.

Ristabilita la dominazione pontificia, di quando in quando, qualcuno dei pensionati francesi rientrò nelle stanze del Greco, è vero ; ma ormai il legame che univa l'Accademia di Francia alla bottega di via Condotti s'era spezzato, e un po' per le vicende politiche e un po' per altre ragioni bene bene non si riallacciò più mai. Invece i legami fra la bottega famosa e i liberali nostri divennero sempre più stretti, poiché con l'avanzar degli anni la maggior parte di coloro che venivano in Roma dalle diverse provincie, o per scopo di propaganda o per altri motivi, preferì sempre agli altri luoghi di ritrovo il Caffè Greco.

Si capisce facilmente come a costoro, che di solito giustificavano i loro nomi falsi con passaporti americani, inglesi, maltesi o di altre parti del mondo, tornasse comodo di darsi per artisti e di intrufolarsi fra i frequentatori di un luogo il cui pubblico in massima parte era composto di stranieri. Gli sbirri, è vero, talvolta visitavano la bottega nonché le tasche degli avventori, ma prima di andare più in là ci pensavano due volte e anche quattro, perché temevano, in caso di un errore, di dover poi fare i conti con le diverse ambasciate, i quali conti, dopo somme non indifferenti di rimostranze e di rabbuffi, finivano sempre, dopo procedimenti lunghi e fastidiosi, con un totale di scuse umilianti che la polizia pontificia era costretta a fare ai rappresentanti dei governi esteri. er questo dunque la bottega del Greco divenne uno dei ritrovi più favoriti dei liberali; e negli anni vicini al 1870 servì spessissimo come luogo di riunione per cospirazioni o per la preparazione di moti e di imprese patriottiche ogni genere.

Giuseppe Monti, quando fu invitato ad unirsi a Gaetano Tognetti per esplorare i sotterranei della caserma Serristori e poi collocarvi i barili di polvere necessari a far crollare una parte dell'edificio, alle esortazioni assidue di chi lo istigava ad assumersi la difficile e perigliosa fatica rispondeva sempre:

— Ma io ho moglie! Ho un figlio che non ha ancora due anni! Questo lavoro che mi chiedete di fare non potrebbe esser fatto da un altro?

— Per sua disgrazia era scritto che il lavoro funesto dovesse farlo proprio lui! E una sera, alcuni ideatori di quel programma d'insurrezione, il quale, se doveva dare alla storia del Risorgimento i due gloriosissimi episodi di Villa Glori e del lanificio Ajani, doveva anche, purtroppo, interamente fallire, per indurre il Monti ad unirsi al Tognetti, lo condussero nel Caffè di via Condotti, e, fra le molte persone ivi raccolte, gl'indicarono un signore (Leone Vicchi vuole che fosse il Castellazzo), seduto incontro a loro a un tavolino presso il quale era altra gente, e qualificandolo come un personaggio di grande importanza, mandato qui dal Rattazzi per dirigere la ribellione destinata ad aprire all'Italia le porte di Roma, gli dissero:

— Vedi, se tu accetti di fare quanto ti si chiede, comunque vadano le cose, puoi essere sicuro di non avere niente da temere, perché il governo italiano non ti abbandonerà mai, e quel signore ti darà sempre tutto quello di cui avrai bisogno per sistemare stabilmente l'avvenire tuo, della tua moglie e del tuo figlioletto.

— Il Monti che era un povero muratore e sosteneva la famiglia lavorando a tanto la giornata in una delle prime case che sorgevano in via Nazionale, tracciata allora allora dal De Merode, prima di impegnarsi tentennò ancora; ma alfine, soppraffatto dalle molte parole e forse ammaliato dalle promesse lusinghiere, usci dalla bottega accettando di unirsi al Tognetti .e di eseguire insieme con lui quanto gli domandavano.

L'indomani, lo portarono con molta cautela in una casa in via del Pantheon ove ritrovò il gran personaggio da lui visto la sera innanzi al Caffè Greco, e glielo fecero giurare solennemente. Povero Monti! Superando ostacoli e difficoltà inenarrabili, egli quanto aveva giurato di fare lo fece, e fini col lasciare, unitamente al suo compagno, la gioventù e la vita su le tavole insanguinate di un patibolo.

Cesare Pascarella
Tratto da Prose

 
 
 

Giovedì 1 novembre

Post n°1625 pubblicato il 19 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Giovedì 1 novembre

Alle dieci al Gianicolo, nel giardino di villa Corsini, davanti all'Accademia reale di Spagna. Terrazza con un'ammirevole vista su Roma, in questa splendida mattinata d'ottobre. Un cielo azzurro chiaro, di una purezza ammirevole. Un vento leggero da nord. Il Testacelo, a destra, di un viola scuro sullo sfondo bluastro della campagna romana. L'Aventino con le sue tre chiese all'ombra, sullo sfondo chiaro dei monti Albani, pallidissimi e svaporati. Così pure il Palatino con i suoi cipressi, quadrato. Il Campidoglio confuso, appena distinto. La città parrebbe piatta, appena l'ondulazione dei colli, con sfondi pieni di un vapore azzurrognolo, molto delicato. Sotto il Gianicolo i quartieri nuovi, le grandi case quadrate abitate dal popolo miserabile, con la biancheria stesa alle finestre, a nascondere il Tevere. Sulla sinistra iniziano le torri e soprattutto le cupole. Appare solo qualche chiazza bianca, un pezzo di muro, facciate di case nuove. Il resto si perde in un grigio lillà finissimo.

Palazzo Farnese è in basso, una massa quadrata, giallastra. La cupola di San Pietro è all'estrema sinistra, isolata, sopra una linea di alberi e due pini marittimi.

Si vede solo la cupola sorgere da una piega del terreno, come se nascesse dal verde. La cupola è di un grigioazzurro pallido, quasi uguale al blu del cielo, ma un po' più grigio. Il campanile è giallo, pare sospeso.

Ma il vigore viene dato dall'Aventino, dal Palatino fra gli alberi. - Altre zone della città, in lontananza, si stagliano nell'ombra su sfondi chiari. A sinistra villa Borghese, il Pincio, una linea d'alberi a profilare il cielo. Castel Sant'Angelo, tutto tondo, in basso. Salgono grandi fumi grigi. Le tegole di palazzo Farnese sono rossastre. Sopra la terrazza da cui si gode questa vista scopro l'Acqua Paola, zampillante. Dietro palazzo Farnese si scorge la rotondità del Pantheon, basso.

Dietro ancora Montecitorio, giallissimo, con un orologio sulla facciata. Le alture del Viminale, bianche, le costruzioni nuove, i nuovi quartieri, cubi bianchi in cui si aprono i piccoli quadrati regolari delle finestre. A destra di palazzo Farnese, la cupola di Sant'Andrea della Valle. In fondo la torre di Nerone, rossastra. Poi, di botto, Santa Maria Maggiore: una torre quadrata, sottile, con il tetto appuntito e due campanili. A sinistra si vede il nuovo quartiere dei Prati di Castello, le case, cubi dalle finestre regolari.

San Pietro, il giorno di Ognissanti. Cerimonia nella cappella del Coro. Dalla grande navata non si sentono nemmeno i canti. I cantanti della cappella Sistina, l'ammirevole voce femminile. La cappella inondata di sole, tendoni rossi insanguinati dai raggi. E la mia impressione dell'immensa navata, le braccia del transetto e dell'abside grandi come una delle nostre comuni chiese. Un salone di gala gigante, una sala dei passi perduti, un palazzo di ricevimento ciclopico. Le lastre di marmo sul pavimento, le colonne rivestite di marmo colorato, le volte con i cassettoni dorati, le tombe di marmo con le loro statue di marmo. Museo freddo e grandioso. I mosaici delle volte, tutti gli affreschi delle volte, pagani, romani, di una maestà smisurata e trionfale. Niente vetrate alle finestre. Ovunque finestre quadrate, dai vetri quadrati, da cui piove una luce bianca. Quelle di sinistra, colpite in pieno dal sole, lasciano ricadere grandi quadrati luminosi, che gettano proiezioni chiare sullo splendore del marmo. La polvere danza, gli ampi raggi attraversano la larghezza della navata inondandola di gloria. E non una sedia, l'immensa distesa di marmo vuota, deserta all'infinito. Un pavimento da museo, da palazzo. Nessun angolo per raccogliersi, non un angolino d'ombra in cui inginocchiarsi (le nostre cattedrali romane e gotiche). La luce cruda rischiara tutto. È un tempio pagano, elevato al dio della luce e della pompa. L'anima, con i suoi misteri, è assente. L'atavismo, la fede piombano sul colosso di gala. - La statua di bronzo di san Pietro: alcuni ne strofinano l'alluce, lo baciano, ci posano la fronte, lo baciano di nuovo e lo puliscono.

Altri lo baciano senza strofinarlo. La confessione, piccole lampade che ardono. L'elaboratissimo baldacchino, fuso nel bronzo preso al Pantheon. - Confessionali per tutte le lingue, nel transetto di sinistra. Il prete attende, si cura delle anime, legge, scrive. Dopo la confessione, tocca con un lungo bastoncino. Le acquesantiere colossali, con i due angeli. E la mia idea: Pierre che entra un mattino e ascolta una messa mormorata in questa immensità. Non c'è nessuno, solo quattro o cinque turisti, il loro Baedeker alla mano. Significherà che le grandi cerimonie sono morte da quando Roma è capitale. Ci vogliono ottantamila persone per riempire la chiesa. Oggi, giorno di Ognissanti, i cinquecento presenti sembravano formiche nere smarrite. Un seminario francese. Un po' di gente. Le sensazioni di Pierre in questa grande sala d'opera, tanto chiara e attraversata dai brillanti raggi del sole, ma tanto vuota nella sua immensità, con il mormorio della piccola messa che vi farò svolgere.

Quattro o cinque povere donne inginocchiate. Pierre che arriva con il ricordo delle nostre cattedrali romaniche o gotiche, con la loro statuaria emaciata del medioevo, tutta anima, in questa maestà, in questa pompa vuota e tutta materiale. Occorrerebbero tutte le magnificenze papali per riempirla, le grandi sfilate, i cortei che accompagnano il papa.

I quartieri nuovi, soprattutto Prati di Castello. Vasti terreni su cui sono stati creati di botto progetti di quartieri. Vie a scacchiera, piazze. Grandi case quadrate, simili a caserme. Cinque piani. Alcune piatte come le facciate, ma in certi quartieri molto ornate, con colonnine, balconi, sculture. Altre, rientrate, più semplici, per la gente più povera. Si vede di tutto: terreni in cui sono state scavate fondamenta poi abbandonate, terreni su cui è ricresciuta l'erba, fino alle case finite, abitate. Case la cui costruzione è stata abbandonata al secondo piano, i pavimenti allo scoperto, le finestre sul vuoto, le pietre senza rivestimento. Case con il tetto ma simili a gabbie vuote, con pavimenti e finestre non rifiniti. Case terminate ma dalle persiane chiuse, completamente disabitate. Case abitate solo da una parte, il resto chiuso. Case infine completamente abitate, case superbe ma abitate dal popolino, la sporcizia che deborda dalle finestre, stracci che pendono dai balconcini scolpiti, puzza e miseria, donne spettinate, a malapena ricoperte da uno scialletto sporco, alle finestre. Tutta questa gente paga appena l'affitto. Mi dicono che alcuni si sono perfino installati in queste case come per diritto di conquista. Sono entrati e ce li hanno lasciati. E questi quartieri si trovano ovunque a Roma, ai Prati di Castello, sotto il Gianicolo, sui terreni di villa Ludovisi, fuori porta Pia, a San Lorenzo, vicino al Campo Verano, lungo la stazione, sul Viminale e l'Esquilino e anche altrove, vicino al monte Testaccio, credo (tutto da verificare).

Ecco, grosso modo, la storia. Gli italiani padroni di Roma hanno voluto costruire la terza Roma, la grande capitale moderna dell'Italia. L'hanno annunciato, dichiarando il proprio orgoglio e il sangue d'Augusto. Si sarebbe dimostrato al papa quello che l'Italia unita poteva fare della capitale. Il tutto sarebbe stato realizzato in una ventina d'anni, dopo il 1875.

Ma ad attivare ogni cosa c'era un'idea lucrosa, la speculazione sulla vendita dei terreni. Quello che si acquistava a cento soldi al metro si rivendeva a cento franchi. Un terreno era come un valore che passava di mano in mano: il tutto infiammato dall'orgoglio nazionale e dal lucro. La storia del principe Ludovisi, cui vennero offerti sei milioni per la sua villa. La vende. Poi, vedendo il valore salire e sperando che salirà ancora, riacquista i suoi terreni a 50 franchi per rivenderli a 100. Con questo giochetto ha perso i sei milioni della vendita e altri dodici di tasca propria. Cose simili sono accadute ovunque. Grandi signori clericali hanno speculato. Il papa stesso avrebbe perso 23 milioni, gran parte del tesoro lasciato da Pio IX. l crollo è avvenuto perché si è costruito senza misura e senza chiedersi chi avrebbe alloggiato nelle nuove case. Da una parte, la popolazione locale è soltanto raddoppiata, le folle attese non sono arrivate. Dall'altra, si ha avuto il torto di costruire case troppo belle, di cui il popolino non avrebbe potuto pagare l'affitto.

Quindi niente affitti, e le case sono rimaste a consumarsi, vuote. Per salvare la situazione, per riportarla a galla, occorrono gli abitanti, ma abitanti abbastanza ricchi da far sì che le case rendano ai proprietari. Ma tutto dice che un evento del genere non si realizzerà molto presto. Le somme finora rischiate, inghiottite dalle costruzioni a Roma, si calcolano in un miliardo. È stato fatto tutto troppo bello e troppo in fretta.

L'immenso ministero delle Finanze, in via XX Settembre, è vuoto. La Banca d'Italia, in via Nazionale, è un'ironia. Bisogna che approfondisca tutto questo lato finanziario. Ma che profonda ironia questo orgoglio nazionale che va in rovina e questo papa che perde i milioni nella capitale che maledice!

Ho visto il Pantheon, il monumento antico meglio conservato. All'interno è una chiesa e vi ho assistito a una cerimonia: oltraggioso. Ho visto San Luigi dei Francesi, una chiesa romana come tutte le altre, con i suoi marmi e i suoi affreschi. Ho visto San Lorenzo dai mosaici superbi, un'antica cattedra di marmo molto originale, una cripta in cui si scende da un'ampia scala. Vi si trova la tomba di Pio IX. Magnifici mosaici. Ho visto Sant'Agnese fuori le mura, l'antica chiesa per metà sotterranea, molto interessante. Si scende da un'ampia scala: a destra e a sinistra, incastrate nei muri, iscrizioni della chiesa primitiva.

Pomeriggio al Campo Verano. Cimitero immenso, tenuto ammirevolmente. In alto tutte le tombe della nobiltà romana. Un grande orgoglio nella morte. Marmi, cappelle, statue. È tutto bianchissimo, non si è sporcato sotto questo bei cielo. Somiglia un po' al Camposanto di Genova. Un grande quadrato con loggiati e una cappella in fondo. Cipressi, tassi. Siccome era Ognissanti c'era una folla immensa: popolo e piccola borghesia. L'insieme meno facoltoso che da noi. Niente abiti della festa, qualche bei fazzoletto. Assente anche il nostro raccoglimento, ma uno scalpiccio, un curiosare in giro. Tutto questo sotto il sole. Sembra che il pomeriggio si passi nelle osterie. Molta ostentazione e pompa nella morte. Dall'alto di Campo Verano, una bellissima vista sulla campagna romana. I monti Albani, i monti della Sabina. Niente villaggi prima di Albano, Frascati, Tivoli. Solo pascoli.

Già deserto nell'antichità, ma oggi un po' meglio coltivato. Roma vive del resto del regno, di Napoli e dell'Umbria (da rivedere).

Ho parlato del mio cardinale. Posso prendere un nobile romano, ma di nobiltà non troppo alta. Oggi, a parte il cardinale Bonaparte, non ci sono principi. C'è però un marchese, e un Altieri, che contava un papa fra i suoi antenati, è morto nel '67.

Posso dunque prendere un cardinale di una grande famiglia romana, ma dicendo che è l'ultimo. Abiterà nel palazzo di famiglia, senza dubbio in via Giulia, in riva al Tevere, con vista sull'Aventino e anche sul Palatino. Trastevere di fronte. San Pietro a destra. Non potrò dire che il palazzo è stato costruito con resti dell'antichità, perché solo i signori veramente grandi potevano permetterselo. Sarà un palazzo di famiglia del XV secolo, con i ricordi che riuscirò a metterci (da studiare). I Colonna e gli Orsini, la nobiltà più antica, anteriore ai papi. Si battevano, perseguitavano i papi. Da qui Avignone. Poi, al ritorno, i papi crearono a loro volta una nobiltà. I principi romani, coloro che hanno avuto un papa in famiglia. Oggi ci sono ancora delle grandi fortune, ma non sono più intatte. I Borghese rovinati, come tanti altri. Poi il sangue si mescola. Qualcuno è molto avaro. I palazzi vengono affittati, il padrone abita al secondo piano. Perfino il pianterreno viene affittato ai commercianti. Nelle grandi famiglie non si trovano più cardinali. Sono figli di mercanti. Dovrò organizzare la mia famiglia. Nella legge italiana non esiste il divorzio: devono ancora presentarlo e non passerà. Nei casi civili si può far valere l'impotenza o bisogna che il matrimonio sia stato contratto fuori dell'Italia. Devo rivedere il tutto, informarmi. Mi piacerebbe conoscere il principe Ludovisi che specula sulla sua villa (un clericale), parente del cardinale. E la nipote del cardinale dovrà sposare un finanziere (?) all'estero. È possibile? Non mi piace molto; dovrò verificare.

Emile Zola
Tratto da Diario romano
(appunti sul viaggio a Roma dal 31 ottobre al 4 dicembre del 1894 per conoscere l'ambiente dove dovrà muoversi il protagonista di "Rome" un romanzo che fà parte di un ciclo iniziato con "Lourdes" e finito con "Paris")

 
 
 

La toletta de la Padrona

La toletta de la Padrona

Li congressi de lei co Ppetronilla
sò ppropio un ride da slocasse l’ossa.
Ce vò ppiú arte pe appuntà una spilla
che ppe rregge li bbarberi a la smossa.

E ffa ttrippa, e sbrillenta, e nun attilla,
e strozza, e ffa bboccaccia, e cc’è ’na fossa...
Er color verde sbatte, er giallo strilla,
er rosso? è ttroppo chiasso: er bianco? ingrossa...

Eppoi, ggira e rriggira, se finissce
co l’andriè nnero, o de lana o de seta,
perché er nero, se sa, ddona e smagrissce.

Smagrissce? Uhm, parerà in un tippe-tappe,
ma ttu vva’ ccor passetto a mmente quieta,
e ssi ssò cchiappe trovi sempre chiappe

Giuseppe Gioachino Belli
26 marzo 1837

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
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