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Messaggi del 21/05/2015

L'antico Caffè Greco (4)

Post n°1631 pubblicato il 21 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Da quanto può vedersi nel quadro del Passini, parrebbe che quando ei lo dipinse nella bottega di via Condotti di cameriere ve ne fosse uno solo; ora invece ve ne son due, i quali rispondono, ma non con troppa premura, ai nomi di Nunzio e Salvatore.
Nunzio e Salvatore pur essendo abbastanza vecchi vengono comunemente chiamati «i due giovani», e tanto l'uno quanto l'altro dal continuo contatto con gli artisti hanno appreso un certo disprezzo per le forme esteriori, massime per ciò che riguarda il rispetto verso gli avventori, e un'aria di indipendenza indomabile che molto li onora. Ambedue servono, è vero; però quando vanno attorno per le stanze sorreggendo i vassoi scintillanti sui quali tintinnano e fumigano urtandosi insieme i bricchi, le tazze e i bicchieri, il loro passo, come direbbe la buon'anima di Francesco Domenico Guerrazzi, è quello di servi liberi in Caffè libero. Del resto tutti e due dalla lunga permanenza nella bottega e dal diuturno esercizio delle loro funzioni hanno imparata una certa tal qual filosofia, non senza una discreta dose di pessimismo bonario, che li porta a pigliare il mondo come viene, e l'avventore come Dio lo manda. E questo di solito per i gusti e per le abitudini differisce assai dal maggior numero dei suoi simili i quali popolano ordinariamente i Caffè dell'orbe terracqueo. Una delle sue caratteristiche, se non la prima, è quella di preferire l'acqua a tutte le bevande multicolori più o meno dolci ed amare. Difatti il numero dei bicchieri d'acqua che giornalmente e seralmente si consuma nelle pittoresche sale del Greco è inaudito. Chi di cotesti bicchieri volesse fare un computo in capo all'anno, anche approssimativo, dovrebbe, io credo, prima di mettersi al lavoro, inventare molti numeri nuovi! Ma a proposito di acqua mi torna a mente una graziosa storiella.

Un giovanotto, assiduo frequentatore del Caffè, oltre all'aver molto ingegno, aveva, cosa molto naturale, un picciol debito col padrone del negozio, e, cosa più naturale ancora, cotesto debito non lo pagava mai. Rebus sic stantibus il suo nome, che più tardi doveva esser scritto a lettere d'oro nel libro glorioso dell'arte, per allora rimaneva, purtroppo, vergato col nero inchiostro in un vile scartafaccio ove erano annotati i nomi di coloro che dovevano denaro alla bottega.
Il giovanotto, ogni giorno, giuocava or con questo or con quello qualche partita a scacchi e, abilissimo com'era, vinceva quasi sempre la posta: il prezzo di una tazza di caffè. Una volta i suoi amici furono sorpresi di sentirgli chiedere al cameriere, invece dell'abituale «tazza nera», un bicchierino di un liquore bianco ferocissimo, fabbricato, Dio ce ne scampi e liberi tutti! coi nòccioli delle ciliege.
—Non pigli il caffè? — gli chiesero.—No — rispose il giovanotto, vuotando in fretta il bicchierino — no. Il caffè m'urta troppo i nervi.
La risposta era persuasiva : gli amici non gli domandarono più nulla, e lui seguitò ad annaffiare le sue vittorie con l'infernale mistura; non gli domandarono pili nulla; ma ogni volta che veniva pronunciato il suo nome, non sapevano trattenersi dall'esclamare:
— Che peccato! Buono, bravo, giovane... Rovinarsi cosi!— E se qualcuno chiedeva qual cosa facesse egli mai per rovinarsi cosi gli rispondevano con voce accorata : — S'è dato ai liquori. — E soggiungevano: — Li beve come noi beviamo l'acqua.
Proprio vero! poiché la bottiglia del famoso liquore bianco, fabbricato coi nòccioli delle ciliegie, conteneva soltanto acqua pura.
In conclusione egli beveva bicchierini di acqua; gli altri li pagavano come se fossero pieni di liquore, e il cameriere, che sapeva tutto, portava il danaro al suo padrone. E fu così che il bravo giovanotto si fece, è vero, la fama di un indurito ubriacone, ma pagò il suo debito fino all'ultimo centesimo.
Ma oltre al grande amore che nutre per l'acqua, l'avventore del Caffè Greco si differenzia non di rado dai frequentatori degli altri Caffè per il conto in cui tiene la ne-gra infusione arabica; poiché, mentre generalmente cotesta infusione si suoi berla per digerire il desinare che s'è mangiato, nella bottega di via Condotti invece la si beve sovente per digerire il pranzo che non si mangerà. Gli artisti, è risaputo, più di ogni altra classe di persone, vanno soggetti a distrarsi, e perciò come talora si dimenticano di pagare la pigione dello studio, così qualche volta si scordano di desinare. Io di artisti afflitti da cotesti fastidiosi svagamenti dello spirito ne ho visti parecchi. Ne ricordo uno fra gli altri, che mi venne presentato da un mio conoscente, il quale avendo con lui una certa affinità di temperamento si onorava di essergli discepolo.
Era un francese; parlava poco e male il nostro idioma; e benché sapesse lavorare discretamente, un po' per colpa sua e un po' per colpa degli altri, quando arrivava alla fine della giornata gli ci mancavano sempre venti soldi a mettere insieme una lira. Poveretto! Aveva continuato per varii anni a combattere contro l'avversa fortuna, e dalla lotta terribile alfine era uscito così malconcio che, forse per consolarsi, s'era messo a studiare astronomia. Quando io ebbi il piacere di stringergli la mano, egli nella scienza degli astri aveva già fatto progressi spaventosi: tali quali Ipparco, Tolomeo, Copernico, Keplero, Galileo, Newton e Laplace non gli avrebbero sicuramente invidiati. La volta del ciclo era, si può dire, per lui la volta della camera da letto. Le stelle le conosceva tutte e di ciascuna sapeva il nome, il cognome, la patria e la condizione : nessuna delle loro abitudini gli era ignota, e poteva descrivere esattamente le più segrete caratteristiche della loro fisonomia.
Il suo discepolo, che di sicuro era in condizioni da poterlo affermare senza correr pericolo di essere smentito, una sera mi assicurò che il suo maestro se lo avesse voluto avrebbe potuto anche parlarci, con le stelle, perché ne conosceva la lingua. Veramente di questo io ho sempre un po' dubitato ; quello però di cui non sono mai stato dubbioso è che il francese spesso nelle notti serene s'inoltrava nella campagna con una lanternina e una cartella per andare a ritrattare una stella della quale s'era invaghito. Quando la trovava già alta nel cielo si metteva subito a disegnarla; se invece al cader della notte non era ancor sorta, l'aspettava; e appena la vedeva brillare fra le nebbie del lontano e sconsolato orizzonte accendeva la lanternina, vi accostava un foglio di carta e incominciava a lavorare; al primo apparire del giorno spegneva il lumicino, e mentre intorno a lui si alzavano al volo trillando festosamente le allodole, se ne tornava a Roma, voltandosi di tanto in tanto per salutare la sua stella che vaniva tremolando nella luce fredda dell'alba.
Il discepolo io lo vedevo spesso, perché, avendo egli saputo che scrivevo nel « Capitan Fracassa », nella speranza di potermi indurre a stampare sui giornali qualche poesia in onore del maestro, godeva a intrattenersi con me per raccontarmene le gesta; e io a dire la verità godevo non poco a sentirlo parlare. Una volta gli chiesi se alle gite notturne, delle quali mi discorreva sovente, prendesse parte; e mi rispose, turbandosi, di sentirsi troppo piccolo per poter andare in campagna di notte con un uomo tanto grande. La risposta non mi parve molto chiara : gli rivolsi altre domande e mi riuscì di fargli confessare come una notte certi brutti cani, attirati dal chiarore della lanterna del maestro, lo avessero assalito e quasi divorato.
—Sicché da quella notte...
—Non ci sono più andato, — mi rispose subito; e, dopo un gesto di terrore, alzò una gamba, si toccò il polpaccio e riprese con grande sincerità : — Non ci sono più andato perché, sebbene la mia venerazione per il mio maestro e per la sua arte astronomica sia eccezionale, io la vita umana la ritengo una cosa troppo sacra per essere data in pasto ai cani. Dico male?
—Benissimo! Però il vostro maestro ci va sempre in campagna, di notte?
—Sempre. Del resto, — aggiunse, crollando il capo — per tutto quello che riguarda la vita non abbiamo, purtroppo, le stesse idee. Le nostre opinioni sono molto diverse.
—Cioè?
—Ma, per esempio: lui non porta mai la camicia per ché la crede inutile, io invece la trovo necessaria; lui dice che meno si mangia e meglio si sta, io invece questo non lo posso ammettere; lui mi raccomanda sempre nel caso trovassi uno che mi offrisse un milione, di buttarglielo in faccia, e io questa raccomandazione la trovo...
—Superflua?
—No, ingiusta. E per quale ragione io dovrei rispondere con una villania a chi mi vuoi fare una gentilezza?
Ma niente affatto! Se domani uno viene da me e mi dice:
« Giovannino, eccovi un milione », io lo ringrazio, mi piglio il milione, e me lo metto nel portafoglio. Ma non basta. Lui, per esempio, vorrebbe anche persuadermi che se mi abituassi a mangiare il carbon fossile io potrei correre e fischiare come una locomotiva, e questa sua idea, a dire la verità, io la credo molto discutibile. Insomma, se lui mi ragiona sull'arte astronomica, io, secondo le mie forze, sono sempre disposto ad andargli appresso con gli occhi chiusi ; ma se invece mi parla delle cose che riguardano la vita, io non lo posso seguire.
—Ma l'andare in campagna, di notte, a disegnare le stelle mi pare che sia una cosa che riguarda l'arte.
—Ah! mille perdoni! È una cosa che riguarda l'arte, sì; ma anche la vita, perché ci sono i cani, — mi rispose; e ripetendo quel gesto di terrore, già fatto poco prima, e tornando a toccarsi il polpaccio, seguitò : — Del resto lui .è lui, e certe cose se le può permettere. E poi se non se le permettesse, non potrebbe fare quello che fa.
—Ma che cosa fa? - gli chiesi; ed egli, felice di potersi allontanare dai cani, il cui ricordo gli faceva ancora vedere le stelle, s'aggrappò immediatamente alla mia domanda e incominciò a discorrere con grande enfasi cercando di spiegarmi quale e quanta fosse la grandezza fisica e morale dell'opera sublime del suo maestro incomparabile.
Non ci potei capir nulla. Ma appunto per questo fui assillato dalla curiosità di vedere che diamine di roba il maestro incomparabile mettesse sulla carta nelle sue gite notturne; e qualche giorno dopo avendolo incontrato nel Caffè Greco me gli avvicinai e gli dissi se mi avrebbe permesso di visitare il suo studio.
— Impossibil! — mi rispose subito, e alzando lentamente l'indice della destra verso .il soffitto della stanza, proseguì: — II mio atelier non rimane sulla terra; mais si trova in ciclo, e si apre seulement quand vous dortnez.
Rimasi male. Allora egli, che in fondo era buono e gentile, avvistosi della impressione sgradevole cagionatami dalle sue parole, mi disse, sorridendo: — Mais pourtant non vi dispiacete: si vous non potete pas venir da me, faurais le plaisir di venir io a cercare di voi, chez vous. — Il giorno dopo, difatti, mantenne la promessa e mi portò a far vedere una cartella piena zeppa di fogli di carta di tutti i colori, sui quali tra un inferno di linee c'erano disegnate centinaia e centinaia di figure geometriche contornate da migliaia di punti, di virgole e di parole incomprensibili. Rimasi sbalordito; e non sapendo dir altro gli domandai a qual cosa avrebbe mai potuto servirgli tutta quella roba: e lui, dopo di avermi detto più volte, ridendo, che gli astronomi erano des fous, absolument des fous, divenne istantaneamente serio, e, abbassando la voce, come se mi svelasse un gran secreto, mi disse che ne avrebbe ricavato una serie di disegni astronomici per riordinare da cima a fondo tutto il sistema planetario dell'universo.
Purtroppo l'impresa formidabile lo sciagurato non potè condurla a termine ; poiché dopo qualche settimana ch'egli m'avea palesato il suo arcano, due caprari lo trovarono morto poco lungi dalle mura aureliane in un campo d'erbe selvatiche rilucenti di rugiada al primo bacio del sole.
Il suo discepolo inconsolabile ce ne portò l'annuncio al Caffè Greco dicendoci fra le altre cose come il poveretto dovesse certamente esser morto di fame perché erano tre giorni che non mangiava.
— Tre giorni! — esclamò con voce incredibile un bell'uomo panciuto; e avvicinata alle sue tumide labbra una tazza fumante colma di buon caffè, la rimise in fretta sul piattino, vi gettò dentro due pezzetti di zucchero e dopo qualche istante di silenzio dimandò: — Ma come si fa a rimanere tre giorni senza mangiare >. — Fissò con gli occhietti lustri il vuoto quasi per cercarvi la risposta, poi rimescolò il caffè, guardò i suoi vicini e, facendo spallucce, soggiunse: — Eh, già! Sempre originali gli artisti.
Proprio vero! Sempre originali gli artisti. Ma del resto tale originalità nelle stanze del Greco è più comune di quanto si crede; poiché, come osservava giustamente il mio amico Angelo Conti, è scritto nel libro del Fato che i pazzi più strani, quelli che noi potremmo chiamare l'aristocrazia della demenza, siano essi romani, italiani o dei più remoti paesi, debbano lasciare un segno della loro esistenza nella bottega di via Condotti.
Una sera, rammento, entrò nel Caffè un vecchietto ma-cro, rosso in volto e vestito di nero. Nessuno di noi l'aveva mai visto, ma egli ci strinse a tutti la mano; poi, dopo un indiino solenne, ci disse che egli era Donato Sacchetta, albergatore in Bomba, un piccolo paese dell'Abruzzo, ed ex professore di filologia comparata; e, con nostra grande meraviglia, ci comunicò di esser venuto apposta a Roma per esporre agli amici del Caffè Greco il suo sistema di cosmologia. Chiese un caffè, se lo bevve, e poi, mentre noi non ci eravamo ancora rimessi dalla sorpresa, incominciò a dire a voce alta: — Illustri signori! Il vero mezzo per scoprire la ragione delle cose è offerto dal linguaggio. Ogni parola racchiude la rivelazione di un mistero dell'esistenza universale. In questa maniera io ho potuto tuffarmi nel gran mare dell'Essere fra l'eterno flusso e l'eterno riflusso. Ora, se lo permettete, lo farò vedere a voi tutti. Io sono il mistico cignale che trionferà sul carro del possibile contro l'impossibile, io sostituirò alla matematica la filologia, io...

Cesare Pascarella
Tratto da Prose

 
 
 

La messa papale

Post n°1630 pubblicato il 21 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Questa mattina siamo andati, forse per la decima volta, ad ascoltare la messa del papa. È una specie di ricevimento della domenica alle Tuileries.

Quando il papa sta in Vaticano la cerimonia si celebra nella cappella Sistina, quando sta al Quirinale nella cappella Paolina; la messa si ripete tutte le domeniche e negli altri giorni festivi, e il papa, quando sta bene, non vi manca mai. Il Giudizio universale di Michelangelo occupa tutta la parete di fondo della cappella Sistina, grande come una chiesa. Nei giorni di cappella papale contro questa parete vien messo un arazzo del Barroccio rappresentante l’Annunciazione; davanti all’arazzo vien sistemato l’altare. In Francia sicuramente non sì sarebbe tanto barbari. Il papa fa il suo ingresso dal fondo della cappella e si siede alla sinistra del pubblico, su una poltrona dallo schienale molto alto, un vero trono sormontato dal suo baldacchino. Nel 1827 l’Ingres ha esposto un quadretto che dava un’idea perfetta della cerimonia e della cappella Sistina.

Lungo il muro, a sinistra, siedono i cardinali, i vescovi e i preti, tutti vestiti di rosso. Di fronte al papa, a destra dello spettatore, prendono posto i cardinali-diaconi, che sono in numero limitatissimo. La messa papale è il grande appuntamento di tutti i cortigiani; anche una enorme quantità di frati ha diritto ad assistervi, ed essi approfittano lungamente della concessione. Sono i generali degli ordini, i " procuratori ", i " provinciali ", ecc. Tutti costoro son separati dal pubblico da una cancellata di noce alta cinque piedi. Per uno straniero intraprendente non è affatto difficile intavolare una conversazione con uno di loro. Se poi il turista vuol proprio divertirsi, cerchi di esternare al suo interlocutore una sfegatata ammirazione per i gesuiti: vedrà la maggior parte dei monaci, specialmente quelli vestiti di bianco come il cardinale Zurla, tradire immediatamente una vivissima antipatia per i discepoli di Loyola.

Tutte queste conversazioni si svolgono prima dell’inizio del servizio divino, mentre si attende l’arrivo del papa. Uno dopo l’altro arrivano i cardinali. A mano a mano che entrano nella cappella, ciascuno di loro va a genuflettersi su un inginocchiatoio sistemato davanti all’altare e per tre o quattro minuti rimane assorto nella più fervida preghiera:

molti di loro compiono la cerimonia con molta dignità e compunzione. Fra i più devoti di questa mattina abbiamo notato il Gran Penitenziere cardinal Castiglioni e il bel cardinale Micara, generale dei cappuccini, che porta ancora la barba e l’abito del suo ordine, come tutti i cardinali che vengono dai frati, riconoscibili perché portano lo zucchetto rosso.

Fra i cortigiani abbiamo notato due frati elegantissimi, tutti vestiti di bianco. Son stati loro ad indicarci i cardinali a mano a mano che entravano nella cappella. La cura del vestire è di capitale importanza: i buoni monaci mostravano molta curiosità per le decorazioni e le croci e sembravano non apprezzare nessuno se non dall’abito.

25 dicembre 1828

Stendhal
Tratto da "Passeggiate romane", Ed. LATERZA 1973

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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