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Messaggi del 22/05/2015

Venerdì 2 novembre

Post n°1633 pubblicato il 22 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Emile Zola
Tratto da Diario romano
(appunti sul viaggio a Roma dal 31 ottobre al 4 dicembre del 1894 per conoscere l'ambiente dove dovrà muoversi il protagonista di "Rome" un romanzo che fà parte di un ciclo iniziato con "Lourdes" e finito con "Paris")

Venerdì 2 novembre

Tutta la giornata passata fra le rovine, un'indigestione di rovine, più che sufficiente a evocare la grandezza romana. Al mattino, per prima cosa, al Foro. Le colonne rimaste del Tempio di Vespasiano danno una grande sensazione di eleganza e di potenza, sotto il cielo blu. La basilica Giulia è solo indicata, ma molto chiaramente, a terra. La piccolezza del Foro sorprende sempre, se lo si paragona con altri monumenti come il Colosseo e le terme di Caracalla. Sembra che la vita romana si sia a volte rinchiusa in spazi piccolissimi (la casa di Livia ecc.) e altre volte distesa in spazi considerevoli. Perché? Il problema è risolto? Più lontano Patrio delle Vestali, l'antico «convento» delle Vestali: vestigia interessanti, dominate dai resti del palazzo di Caligola che scende dal Palatino. Quasi di fronte la chiesa di San Lorenzo in Miranda, installata nel tempio di Antonino e Faustino: notevole esempio di una chiesa che si colloca nel tempio di un'altra religione. Colonne di porfido rosso. Ma più sorprendente di tutto è la basilica di Costantino, con i suoi tre enormi atri e le tre volte spalancate con i loro cassettoni; il pezzo caduto dalla volta, un pezzo enorme. Che massa! Perché costruzioni tanto gigantesche, tanto spesse? Tornando, dalla Via Sacra che passa davanti alla basilica di Costantino, si ha una vista molto interessante sul Foro. La Via Sacra svolta e sale. Come dovevano venir scossi i trionfatori su questo grosso lastricato, nel loro carro senza sospensioni! Il Foro attuale è in rovina, grigio e desolato. Polvere ovunque. Niente erba, solo qualche filo tra i sassi della Via Sacra. E questo sotto il sole pesante dell'estate, con la misera ombra delle rare colonne ancora in piedi, la colonna di Foca e quelle dei templi. L'arco di Settimio Severo. I rostri, ecc. Ma ci sono dieci modi di ricostruire il Foro e io sono soltanto un artista che evoca.

Poi sono andato al Colosseo. L'enorme massa, il lato crollato, il lato in piedi con le sue aperture sul blu. Si aprono ovunque corridoi a volta, in cui le scale consumate sono come pendii. Il colosso è come un pizzo di pietra, con tutte le sue aperture sull'azzurro del cielo. Un cielo terso e chiarissimo, con voli di piccole nubi. Come facevano a coprirlo con il velum? L'evocazione di questo circo immenso, pieno di folla, con i suoi ottantamila spettatori, il palco dell'imperatore e le Vestali sotto. Una rovina cotta dal sole, dorata, maestosa e ancora gigantesca pur se semicrollata. L'arco di Tito, con il suo bassorilievo dei Giudei vinti e condotti a Roma schiavi, che portano il candelabro a sette braccia.

Nel pomeriggio sono andato alle terme di Caracalla, edificio gigantesco e inspiegabile. Due vestiboli immensi, con parti del pavimento in mosaico ben conservate. Un frigidarium con l'indicazione di una piscina in cui potevano bagnarsi contemporaneamente cinquecento persone. Un tepidarium a sua volta molto vasto, così come il calidarium, al cui fianco si trova un impianto di forni per il riscaldamento ancora visibile. E ogni tipo di annessi e connessi di cui si ignora l'uso. Ma lo straordinario è l'altezza delle sale, lo spessore dei muri, la massa spaventosa del monumento. Nessuna nostra fortezza del medioevo ha dimensioni tanto ciclopiche. Blocchi stravaganti di mattoni e cemento.
Bisogna aggiungere che il tutto era rivestito di marmi preziosi e ornato da statue. Un lusso schiacciante nella sua enormità. Per quale colossale civiltà? Le persone che ci passano sembrano formiche. Oggi sembrano rocce consumate, materiali agglomerati e ammucchiati per dimore di Titani.

Poi sono andato al Palatino: un succedersi, una profusione, un accumulo di palazzi. Ogni famiglia imperiale ha voluto il proprio. Si entra da via San Teodoro. Si passa sotto la casa di Tiberio (in alto). Si visita la grotta del Lupercale, in cui la lupa avrebbe allattato Remolo e Remo. Si passa davanti al paedagogium (scuole) e si sale allo stadium. La Domus Augustana è sotto villa Milis, come il tempio di Apollo. Ma lo stadium, che va fino al convento di San Bonaventura, è ancora decisamente riconoscibile dalle indicazioni, con il portico che lo circonda, la sua «meta» a ogni estremità, i suoi palchi e il colossale palco dell'imperatore (Apsis).
Le colonne erano rivestite di marmo. Poi, dietro, il palazzo di Settimio Severo. Ancora una costruzione colossale, con spigoli enormi di mura, volte gigantesche, sale, corridoi, scale ammucchiate. Il belvedere che si sporge e da cui si gode una vista tanto bella, il Colosseo a sinistra, le terme di Caracalla a destra, di fronte il Celio e in lontananza la campagna romana. (È da qui che l'imperatore di Germania ha potuto assistere una sera allo spettacolo del Colosseo illuminato dai fuochi del Bengala.) Si dice che da qui l'imperatore potesse assistere ai giochi che si tenevano nel circo Massimo, di cui non restano vestigia apprezzabili e che superava in grandezza tutto il resto. Sono ridisceso, quindi risalito per vedere la «Domus Flavia»: biblioteca, accademia, porticus e poi triclinium, con il grazioso nymphaeum con la fontana e il peristylium, sale che per metà si trovano ancora sotto villa Mills. Questa villa, acquistata credo dal governo, non sarebbe ancora stata pagata, motivo del ritardo negli scavi. Da qui ho visitato la casa di Livia, madre di Tiberio, di una piccolezza singolare in mezzo a tutti questi colossi.

Poi si passa nella casa di Tiberio, vastissimo palazzo di cui non resta nulla. Vi si trova un giardino molto piacevole, con lecci e cipressi. Dal bordo di una terrazza si ha una vista molto interessante sul Foro, in basso. Un giardino fatto per i sogni e revocazione. Ci può venire Pierre. Da qui si vede il Foro, la gigantesca basilica di Costantino e il Colosseo, che occlude un angolo di cielo. Il palazzo di Caligola è sotto: ancora un ammasso di muri enormi, sale crollate, corridoi giganti. Si dice che il palazzo comunicasse, attraverso una scala segreta, con il tempio delle Vestali, al di sotto. Villa Farnese, in cui Napoleone ha abitato prima di diventare imperatore e in cui ha vissuto a lungo il principe Napoleone, è ancora lì. Poi una distesa di giardini e vigneti. Una linea di cipressi corona il monte dal lato del Tevere. Lecci, pini marittimi. Più in là vigneti e fattorie in cui vanno a spasso le galline. Siamo scesi lungo una strada antica, il clivus victoriae (?).

Insomma, ho voglia di far lare a Pierre quello che ho fatto io, la visita delle rovine in una giornata. Voglio distruggerlo di stanchezza, indolenzirlo con le rovine e così evocare la grandezza romana, in un capitolo in cui darò voce a tutte le mie sensazioni, non di archeologo, ma di artista proiettato là dentro. E terminare con il giardino sopra villa Farnese, con il Foro a sinistra, la basilica di Costantino di fronte e il Colosseo a destra, mentre più in là si trovano le terme di Caracalla. Sempre le stesse rovine, le mura colossali, gli ammassi di mattoni annegati nel cemento, le volte con i loro cassettoni, il tutto ciclopico, e i rivestimenti di marmo per il pensiero, i mosaici, le statue. Farò sorgere dalla fatica e dallo stordimento revocazione della potenza romana. La Cloaca maxima. E tutto il resto che ho dimenticato. Occorrerebbe un po' di storia romana per classificare tutto.

Ho anche visto San Giovanni in Laterano, chiesa e grande ricchezza, come un tempio pagano. Ricostruita, o piuttosto rifatta in parte da Leone XIII, soprattutto l'abside (vedi Baedeker). Pavimento di marmo colonne. Ai due lati della navata centrale statue d< Bernini, di un movimento eccessivo. Soffitto piatte credo, dai ricchi cassettoni. Molto bella la facciate con le statue che si stagliano nel cielo blu. Gamie avrebbe preso la loggia centrale per l'Opera.
La sera sono anche salito sull'Aventino, ma attraverso un sentiero fra due muretti che sbuca davanti alla porta di un convento. Non ho visto niente. Le ti chiese. L'Aventino si vede solo dall'altro lato del Tevere, seguendo il fiume. Le tre chiese sono fra gli alberi.

 
 
 

L'antico Caffè Greco (5)

Post n°1632 pubblicato il 22 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

A questo punto, mentre tutti tacevamo guardandolo esterrefatti, e qualcuno si allontanava prudentemente, si fece avanti il professore Spettino, autore di un saggio critico e inedito su Jean-Baptiste Racine e libero docente di lingue vive e morte nella nostra Università. Allora fra i due professori si accese una disputa furibonda, tanto furibonda che per farla cessare dovettero intervenire altri tre interlocutori : il barbuto e placido proprietario del Caffè e due guardie di pubblica sicurezza. E forse non fu il sistema di Donato Sacchetta che, pochi giorni dopo, spinse lo Spettino ad entrare nella caserma dell'artiglieria al Macao ove prese a bastonare i cannoni, gridando che era giunta l'ora di distruggere tutte quelle orribili macchine da guerra; Povero Spettino! Lo fermarono, lo legarono e, mentre egli urlava: — Portatemi nel tempio della Fratellanza e della Pace! —- lo portarono al manicomio.
Un altro ne ricordo: un pittore milanese caduto rapidamente da una gloriosa giovinezza in una oscura e precoce vecchiaia. Lo riveggo ancora, vestito d'estate e d inverno con un soprabitone di colore giallognolo non fatto certo per le sue spalle, entrare nella bottega, traversarla a piccoli passi e andarsi a mettere a sedere in un angolo quasi buio. Non parlava mai con nessuno. Il suo volto scarno aveva l'impassibilità di una maschera. Se mai qualcuno gli rivolgeva la parola, rispondeva con un lento movimento del capo e ritornava subito immobile. Un giorno trovarono insanguinato e morente sopra uno dei gradini dell'obelisco del Popolo. S'era tagliate con un pezzo di vetro le vene dei polsi, e dopo di avere scritto sul tra vertino col proprio sangue: «Siate onesti», era caduto.
Il disgraziato, fra i commenti della folla, venne condotto all'ospedale, e le due parole formidabili furono cancellate subito con l'acqua di Trevi delle vicine fontane. Ma prima che le cancellassero, mentre illuminate dal sole spiccavano ancora fosche su la pietra gialla, un signore le lesse e domandò chi le avesse scritte. Tutti gli risposero: — Un pazzo.
Non sempre però il sanguigno e lugubre ammanto della tragedia ricopre le persone di coloro che nelle stanze del Greco rappresentano la follìa artistica internazionale. Fra cotesti illustri rappresentanti me ne torna alla memoria uno il quale sapeva travestire con tale sottile ironia e con tanta volgare buffoneria il suo nero pessimismo, inasprito continuamente dai disinganni e dalla fame, che al vederlo e all'udirlo non si poteva fare a meno di ridere. Di quanto gli era accaduto o gli accadeva realmente, non parlava quasi mai: lo lasciava raccontare alle rughe numerose e profonde del suo volto, al suo abito sbrandellato ove erano più asole che bottoni, ed a tutta la sua figura macra ed ossuta. I suoi discorsi, spesso illuminati da lampi inaspettati di comicità irresistibile e da stravaganze inaudite, si aggiravano ognora intorno a invenzioni meravigliose o sopra a visioni fantastiche di mondi strani e sconosciuti, e finivano quasi sempre con motti feroci che stroncavano una reputazione scroccata o frantumavano un'opera, così detta, d'arte, o frustavano a sangue un artista mediocre favorito dalla fortuna.
Un giorno entrò nel Caffè e ci disse di aver trovato finalmente dopo molte prove e riprove il modo di fare l'oro. Qualcuno sorrise; e un pittore, noto a tutti per i favori ottenuti umiliandosi dinanzi ai potenti, volendolo canzonare gli disse: — Fai l'oro? Ciò mi fa piacere, ma non mi sorprende. Io faccio l'argento. — Già! Come le lumache: strisciando — gli rispose il pazzo; e per quel giorno di oro e di argento non si parlò più.
Un'altra volta ci fece un lungo discorso sul noto proverbio: Impara l'arte e mettila da parte; e, dopo di averci dimostrato come per lui fosse giunto il momento di mettere da parte l'arte e di darsi all'industria, ci comunicò di avere impiantato un opificio per fabbricare i pennelli con le code dei pesci. Ma l'industria non gli riuscì. Allora si diede a fabbricar colori, e ne inventò uno giallo che aveva la densità delle terre, e, sia detto senza malizia, la trasparenza delle lacche e, non so perché, gli diede il nome di « capitone ». Era buono. Lo vendeva a una lira il tubetto e molti lo comperarono; ma adoperandolo, turbati da qualche sospetto, furono assillati dal desiderio di voler sapere con quali sostanze venisse fabbricato. Ohimè! un giorno strinsero il suo inventore con molte dimande, gli nominarono la materia prima con la quale essi temevano che il « capitone » fosse composto, e si sentirono da lui rispondere: — Può essere!
La rivelazione del segreto rovinò interamente l'industria del «capitone»; quei che ne avevano ancora si affrettarono a buttarlo via, e il suo inventore per passare in più spirabil aere si mise a scrivere un « opuscolo di estetica » intitolato: Viaggio patologico nella cllnica dell'arte moderna in Italia, nel quale dissertava sui premi di incoraggiamento istituiti dal Governo a vantaggio degli artisti. Egli ragionava così: — I premi per qual fine sono stati decretati?
Per comprare col danaro del pubblico le opere degli artisti. Benissimo! Ma quando un'opera d'arte è veramente buona, chi la compera lo si trova sempre. Colui, dunque, che vende il suo lavoro non ha bisogno di essere incoraggiato da nessuno: si incoraggia da sé. Coloro i quali non vendono i loro quadri e le loro statue, coloro che producono pessime opere d'arte, questi debbono essere incoraggiati perché, se a costoro non pensa il Governo ad aiutarli, chi mai ci penserà?
Dopo qualche mese che io avevo viaggiato patologicamente con lui in una stanza del Caffè Greco, mentre una luce tenue e dorata entrava dalla porta socchiusa e sparge-vasi dolcemente nelle camere silenziose, ove i camerieri dormicchiavano sdraiati su le panche vedove di avventori, lo incontrai per istrada, precisamente in via Nazionale, ove allora allora s'era chiusa una esposizione di belle arti. Appena egli mi vide da lontano, mi venne subito incontro agitando un giornale aperto e mi disse: — Ha visto; Ha inteso? Ha letto quali quadri sono stati comperati dalla Giunta Superiore per adornarne la Galleria di arte moderna? Si ricorda? Se la rammenta la mia lettura? Lo vede come la mia idea si fa strada? Lo capisce ora come il mio modo di pensare s'impone? — E, senza darmi il tempo di aprire la bocca, scoppiò in una risata fragorosa che fece fermare i passanti, mi voltò le spalle e agitando ripetu-tamente il giornale si allontanò.
Il pubblico del Caffè Greco non è più adesso simile a quello che io vi trovai quando incominciai a frequentarlo. Oggi molti di coloro che vi conobbi allora, o son savi o son sepolti; tuttavia la massima parte di quanti vi si recano al presente è data dagli artisti; e nelle serate in cui la pioggia è vicina, mentre i barometri romani inclinano gl'indici verso il segno della tempesta, vi si accendono ancora discussioni furibonde su argomenti più o meno artistici, le quali non si spengono se non quando la pioggia principia a cadere fragorosamente sul soffitto di vetri dell'ultima stanza. Non sempre però la pioggia arriva in tempo a pacificare gli animi inacerbiti.
Una sera due giovinetti, dopo di aver sorbito i loro caffè e averli trovati semplicemente borgiani, non avendo altro di meglio da fare, impresero ad esaminare quale delle due arti sorelle fosse più difficile ad essere esercitata, se la pittura o la scultura. I due contendevano già da un pezzo su l'arduo argomento quando un loro vicino, buttando via un mozzicone di sigaro, da lui dichiarato assolutamente infumabile, entrò buon terzo nella discussione : poco dopo, lagnandosi delle scarpe che glieli stringevano troppo, vi mise i piedi un altro; poi un altro ancora, e la controversia si ingiganti talmente che la stanza dove essa era nata non bastando pili a contenerla, si sparse a poco a poco nelle altre camere della bottega. Allora tutto il Caffè si divise in due schiere di combattenti: una guidata dagli scultori e l'altra dai pittori. La lotta ardeva furiosa e gli urli, le contumelie, le risate e gli applausi coprivano a volta a volta le voci squillanti degli oratori, quando un signore, senza riflettere a quanto avrebbe per avventura potuto capitargli fra capo e collo, ebbe il fegato di farsi avanti ad affermare che, secondo Spencer, la scultura era un'arte inferiore. All'udire il nome del filosofo gli scultori rimasero per qualche istante silenziosi, ma riavutisi subito dalla sorpresa chiusero la discussione con tali argomenti che il pover'uomo, se ancora campa, se li deve ancora ricordare.
Quietato il baccano, mentre le prime gocce di pioggia incominciavano a battere sui vetri del soffitto dell'ultima stanza, uno chiese: — E chi è questo Spencer ?
— E chi vuoi che sia? — gli risposero in parecchi. — Sarà uno dei soliti giornalisti.
Perché queste parole siano intese nel loro giusto valore, è bene avvertire che per la maggior parte dei frequentatori della bottega di via Condotti il vocabolo giornalista, massime se viene pronunciato atteggiando le labbra a una smorfia di disprezzo, non serve mai a designare chi scrive in un giornale, ma colui che in un giornale scrive di "cose d'arte" in genere e di quadri e di statue in specie. Del resto giornalisti veri e proprii io nel Caffè Greco non ce ne ho mai visti. Qualcuno forse può esserci capitato; ma se mai sarà stato un giornalista senza giornale, e allora sarà andato a confondersi fra quei frequentatori, dirò così, sporadici della bottega, fra i quali non è difficile di incontrare maestri di musica che non conoscono altre note all'infuori di quelle del trattore e del sarto, professori di pittura in qualche ospizio di ciechi, architetti senza archi e, quel ch'è peggio, senza tetto, ingegneri privi oltre a tante altre cose anche d'ingegno, medici che non esercitano più la professione, forse per filantropia, vecchi impiegati giubilati i quali non hanno altro giubilo tranne quello, come sogliono dire, di avere un'anima di artista, negozianti senza negozi, avvocati senza cause e quindi senza effetti, poeti in cerca di una lira, e talvolta qualche modello.
Fra questi, nei primi anni che io frequentai la bottega, ne conobbi uno che non ho mai più scordato.
Era un moro. Alcuni missionarii ritornando in Italia dall'Africa, dove avevano predicato la verità evangelica agli infedeli, se l'erano portato appresso, e lo avevano battezzato imponendogli il nome lietissimo di Natale; ma, purtroppo, il nostro buon Dio del povero Natale non si era curato tanto quanto forse, se l'avessero lasciato stare a casa sua, se ne sarebbe curato il suo Aliali; difatti, quando io lo incontrai in un angolo del Caffè Greco, il povero africano moriva di fame peggio di un europeo, e passava le giornate cercando inutilmente un'ora di lavoro, masticando qualche pezzo di sigaro, tossendo di tanto in tanto convulsamente e bevendo a sorsettini lentissimamente, se poteva procurarselo, qualche bicchierino di rum di cui era ghiottissimo. Non era bello, no; ma le forme caratteristiche della sua persona, le sue movenze svelte e sempre eleganti e il modo singolare con cui soleva manifestare i suoi pochi pensieri e le sue molte sensazioni me lo rendevano simpatico; e se entrando nel Caffè mi avveniva di vederlo da lontano, rannicchiato dietro il marmo bianco di un tavolino, me gli avvicinavo e dopo di avergli stretta la mano lunga, ossuta, scimmiesca, provando l'impressione di toccare un tessuto di seta, gli sedevo accanto. Quasi sempre io gli offrivo un bicchierino di rum, ed egli avvicinandovi le labbra grosse e guardandomi di sotto in su con gli occhietti socchiusi, mi ringraziava mandando fuori dalla gola un suono roco e tremolante simile a quello che fanno i gatti quando si accarezza loro la nuca. Parlava poco e alle mie domande rispondeva sempre con monosillabi; ma la povertà del suo dizionario sapeva compensare con gesti efficacissimi. I suoi discorsi li finiva sempre con le mani. Talvolta sorrideva mostrando i denti forti e bianchi, ma non rideva mai. Poveretto! Dove ei fosse nato non sapeva dirlo : quelli che lo avevano messo al mondo non li aveva conosciuti; e se gli chiedevo di raccontarmi qualche cosa della sua infanzia, alzava le spalle e le riabbassava dicendomi: — Non so. — Le sue rimembranze non andavano al di là della sua adolescenza, ed erano tutte assai più nere della sua epidermide. Quei tali che l'avevano lavato dal peccato originale, stimando forse con cotesta operazione idraulica di essersi liberati da qualsiasi altro obbligo verso di lui, lo avevano abbandonato, ed egli, discesi ad uno ad uno i gradini dolorosi della pili obbrobriosa miseria aveva finito a trovarsi in mezzo a certi saltimbanchi girovaghi, i quali, dopo di averlo incatenato e rinchiuso in una gabbia di ferro, lo andavano mostrando come un ferocissimo antropofago vivente e proveniente dalle foreste vergini della Patagonia: e, come se questo non bastasse, ogni sera, affinchè il rispettabile pubblico potesse avere una piccola idea del modo col quale il povero Natale divorava il suo simile, gli gitta-vano nella gabbia una gallina, ed egli, urlando e contorcendosi come un ossesso e scuotendo orribilmente le catene, la ghermiva, la spennava e la strangolava dinanzi agli spettatori inorriditi.
Dopo di averne fatte più di Carlo in Francia, capitato in Roma, senz'arte né parte, si incontrò con un pittore il quale cercava un nero per effigiarlo, non so veramente con quanta esattezza storica, in un quadro rappresentante lo sbarco di Cristoforo Colombo in America, e da allora incominciò a frequentare gli studi ove trovò una certa Resina, la figliuola di un ubriacone, che girava per le strade suonando un organetto a manovella, e se ne innamorò. Non la lasciava mai, e quando essa era a posare in qualche studio, se non poteva esserle vicino, l'aspettava in istrada pazientemente per poi accompagnarla fino all'uscio sgangherato di una casupola miserabile in un vico-letto nei pressi di Santa Maria Maggiore, ove ella abitava col padre e con l'organetto a manovella.
Un mio amico, che li conobbe al tempo dei dolci sospiri, un giorno mi diceva sorridendo, come ogni volta che li aveva visti salire, tenendosi stretti per la mano, su per la scannata della Trinità dei Monti, ove morivano i rintocchi dell'avemaria, e ogni volta che li aveva incontrati in via Sistina, mentre nella luce azzurra del crepuscolo tremolavano le fiamme gialle dei lampioni, non avesse mai potuto fare a meno di pensare allo Shakespeare. E, forse, chi sa» Chi sa se la povera Resina non si fosse veramente innamorata dell'africano udendolo narrare le sue sventure? E chi sa se egli, il moro, non la ripagasse di amore per la pietà che n'ebbe?
Erano arrivati al punto di volersi sposare; ma questa volta Brabanzio giunse in tempo per impedire alla natura di cadere in tanto errore. Non valsero né pianti, né preghiere. Se la disgraziata osava di nominargli il suo Natale, la risposta del birbaccione era sempre una : — Nun vojo turchi a casa mia. — E se la poveretta, pur avendo di lui un terrore indicibile, gli faceva osservare che Natale in fin dei conti era un cristiano, egli ribatteva prontamente : — Io a li cristiani neri nun ce credo. — Viveva alle spalle della sua figliuola e non voleva che gliela portassero via: ecco la verità. Non si sposarono dunque; ma seguitarono sempre a volersi bene, e si può dire che l'africano la sua Rosi-na non la lasciò se non quando, vinto da una tisi galoppante, fu obbligato di ritornarsene nel grembo del nostro Dio o forse in quello del suo Allah. La poveretta lo pianse con molte lacrime e poi passò ad altri amori meno neri, ma non meno disgraziati, e perduto il padre, cadde sotto le ugne di un brutto tipo : un formatore, il quale impadronitosi dell'organetto a manovella prese a suonarlo per le strade e più spesso sotto gli olmi, i ligustri e le acacie delle varie osterie suburbane; ma poi, annoiato dal dover sempre sentire la stessa musica, vi incollò sopra un foglio di carta con questa iscrizione: — Da vendersi o da affittare. Per le trattative diriggersi a me. — E quando in seguito a trattative laboriosissime gli riesci di disfarsene, dopo di essersi mangiato, giocato, e bevuto quel poco che ne aveva ritratto, ritornò a sporcarsi le mani col gesso, e, cavate le impronte di quasi tutte le parti del corpo della misera Rosina, che egli soleva chiamare ghignando «la mia signora », le andava offrendo per pochi baiocchi ai signori pittori di via Margutta.
Tutti e due finirono male. Lui, dopo di averne fatte tante, una meno legale dell'altra, non sapendo che cosa fare di peggio, essendosi messo a riempire con un metallo bianco di sua invenzione, molto simile all'argento, le forme cave di certe monetine da due lire, un giorno fu visto in mezzo a due gviardie di pubblica sicurezza e non se ne sentì più parlare; lei, povera figlia! una sera uscendo da una bettola si trovò trascinata, senza volerlo, in una rissa e fu raccolta morente per una grave ferita di coltello. La portarono in un ospedale, e colà, dopo qualche ora di tormenti atroci, quella pace che ella aveva cercato tante e tante volte invano nella vita la trovò nella morte.
Ed ora, giacché è necessario di concludere, permettimi, o amico lettore, che io chiuda questo mio « Caffè » più o meno « Greco », il quale conclude questo volume, rivolgendoti una domanda.
Dimmi la verità, ti ho annoiato?
Senti: una sera io mi trovavo nella vecchia bottega fra le cui storiche pareti ho cercato di intrattenerti come meglio ho potuto, quando un signore venne a sedersi a un tavolino accanto a me; chiese un caffè e se lo bevve in fretta; poi, torcendo le labbra in segno di disgusto, chiamò con voce alterata il cameriere, e, accennatogli con un'occhiata bieca il vassojo, gli disse: — Non vi vergognate di avvelenare il prossimo con questi intrugli?... Non vi vergognate?...
Il cameriere lo lasciò sfogare; guardò la tazza ove di caffè non ce n'era rimasta neppure una goccia, e gli rispose : — Caro signore, che cosa vuoi farci? Oramai l'ha bevuto!
FINE

Cesare Pascarella
Tratto da Prose

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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