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Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

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Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

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Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

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Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

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Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

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La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

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Messaggi del 30/05/2015

Erminia Fuà-Fusinato

Erminia Fuà-Fusinato (1834-1876):
Autrice di un libro di versi nei quali canta la famiglia, la patria, Dio, (Milano, Carrara);
d'un libro postumo di Ricordi pubblicati a Milano nel 1877 (ediz. Treves);
di Scritti letterari raccolti e ordinali da G. Ghivi-NAZZi (Milano, Carrara, 1883) a cui è premesso uno studio sull'autrice.

Fiori di serra e fiori di prato

Voi non fate per me, fiori di serra :
poco v'ho amato sempre, or vi rigetto.
Or vi rigetto, e dall'inculta terra
la mammola raccolgo ed il mughetto.

Sempre e solo quel fior coglier m'è grato
che si schiude spontaneo e non forzato.

Perch'io so ben che quando s'apre a stento
il fior, come l'amore, è presto spento.

E quando è spento il fior, come l'amore,
lascia una spina che ci punge il core!

Da: Antologia della Lirica Italiana - A Cura di Angelo Ottolini - Milano - Casa Editrice R. Caddeo & C., 1923, pag. 190

 
 
 

La età dell'oro

La età dell'oro

Et belli rabies et amor succcssit habendi.
(Virg. Aen. VIII, 327.)

Mia vaghezza fu sempre e mio sospiro
Di dir nette le cose e come stanno,
Senza curar mentr' io beffo o mi adiro
Se me n'abbia a seguire utile o danno;
Nè filantropo mai chiamo il vampiro
Nè d'eroe presto nome al saccomanno:
Io dico bene il bene è male il male
Ed apprezzo dai frutti il capitale.

E di quai frutti, che il Signor ci assista,
Di quai fruiti or ci dà la mala pianta
Arida, fosca, imbozzacchita e trista
Onde a' dì nostri il reo cultor si vanta?
Vorrebbe un galantuom perder la vista
E la somma dei sensi tutta quanta
Per non veder, per non sentir gli orrori
Di que' teneri suoi benefattori.

Oh grave insieme e pur giocondo tema
Da conciarne le groppe alla canaglia,
Sì che mentre per essa il mondo trema
Le girasse il rovescio alla medaglia !
Ma de' flagelli miei la forza è scema
E la forbice mia biascia e non taglia;
E più mia mente a nuove idee non s'apre,
Ridotta a ruminar come le capre.

Che s'io fossi così come vorrei
Aspro di stile e immaginoso e franco,
Sì che pei giambi corrosivi miei
Dovesse ogni fellon battersi il fianco,
Voi ne udreste uggiolar que' semidei
Di color rosso o verdolino o bianco,
La cui matta genìa da capo a fondo
Rifar presume e rinfronzire il mondo.

Digiuni di valor come di fede,
Poveri di pietà, ricchi d'orgoglio,
Pensan con urla e suon di mani e scede
L'aquile richiamar sul Campidoglio.
E il volgo intanto gocciolon li crede,
Nè mai dal grano distinguendo il loglio
A suon di trombe e tamburi e campane
Ballan ridde e tresconi e chirinzane.

O goffi merendoni, ite, anfanate
Dietro alle ciurmerie de' faccendieri
Che promettonvi il tempo delle Fate
Per mutarvi in giardini i cimiteri;
Come se il mondo per lor fagiolate
Più non fosse diraan quello di ieri,
E avesser d'un cialtron le gherminelle
Dal vecchio corso a disviar le stelle.

Traete, o poltracchini, o gaglioffacci,
In lunghe filatesse e a frotte a frotte
Dove offelle vi aspettano e migliacci
E fra giare e bicchier piena la botte:
Statevi a desco tra fraterni abbracci
Briachi a crapular sino alla notte
O fin che un gerofante in lingua sconcia
Sorgavi ad arringar dalla bigoncia.

Rauco vi griderà l'antesignano:
» Sacro un inno sciogliam, popolo mio:
Giunse pur l'ora, o popolo sovrano,
Che qual ti oppresse te ne paghi il fio.
Soli rimangan nel consorzio umano
Dio e popolo omai, popolo e Dio:
Ah siam fratelli quai ci volle il cielo
Al brillar della luce del vangelo!

Su dunque, ci leviam come un sol' uomo
L'insulto a vendicar de' privilegi;
Chè debbonsi al peccato e al fatal pomo
Gradi, opulenza, onor, titoli e fregi.
Iddio l'uom non creò per farlo domo
Sotto il flagel di sacerdoti e regi,
Ma dispose che al par godesser tutti
L'aria del cielo e della terra i frutti. »

Al vampo allor di resinose tede,
Con fiero piglio e giovanil baldanza,
L'orme seguite che vi segna il piede
D'un nuovo Don Chisciotte o Sancio Panza,
E là con lui correte ove la fede
Nella idea vi sospigne e la speranza,
Affocandovi il fiel sino alla morte
Per viver meglio e avvantaggiar la sorte.

Ah vi torni in pensier che siete prole
Di Fabii, di Scipioni e di Metelli,
Che quante genti rischiarava il sole
Sbarattavano a colpi di randelli.
Dunque il fulgor della prosapia vuole
Che di vil servitù rotti i cancelli
Tra gioiosi falò scendiate in piazza
A dar buon segno della vecchia razza.

Contro qual petto al vostro ardor non arde
Per miseria di cuor fiacco e pedestre
Armatevi di picche e di labarde
Di nuova civiltà nuove maestre:
Di nappe onusti, o vogliam dir coccarde,
Ite in tregenda a lapidar finestre,
Per crear quelle allegre luminarie
Generali, copiose e volontarie.

Mano, o seme d'eroi, mano a carrozze,
Raschiatone pria l'oro dalle sale,
E le pinte armi svergognate e sozze
Ne ardete a fascio colle immonde gale.
Stanchi alla fine e con enfiate strozze,
Per chiuder degnamente il baccanale,
Cercate fra i tizzon le ferrarecce,
Che son buone da far triboli e frecce.

Poi l'uzzolo a calmar d'oro e d'argento
Penetrate ne' templi, anime pie,
E come spira il nazional talento
Ponetevi a frugar le sacristie.
Perchè quel fasto? e che vi fan là drento
Tanti grassi tesor, tante algarie?
Madre è la Chiesa e figli voi: ciò mostra
Che la roba materna è roba vostra.

E pel soverchio che sleal bilancia
Pesò in vostra iattura agli epuloni
Ben vi saprete voi correr la lancia,
Che un dritto eterno ve ne fa padroni.
Beati i genî di Lamagna e Francia
Che i possidenti lor chiaman ladroni,
E prepaian dovunque armi ed attacchi
Da farne imbizzarrir l'ombre de' Gracchi!

Ma fin che indugî la gran legge agraria
Abbrancate bolcioni e faccelline
E accignetevi all' opra necessaria
D'arder palagî e sterminar cascine:
E se grato v'è più balzarle in aria,
Ite sotterra a profondar le mine,
Da infiammarsi con micce e seminelle
Per trarvi il gusto e scapolar la pelle.

Poi menzogne e calunnie alla moderna
E laide giullerie contro il monarca,
E strambotti da trivio e da taverna,
Chè tutto giova ad aiutar la barca.
Per gocciole si gonfia la cisterna
E di ferlini si ricolma l'arca.
Ognun cospiri allo stupendo scopo
Di dar l'erede al travicel d'Esopo.

Le son questesse, o eccelsi proletari,
L'alte dottrine d'amor patrio vero
Che v'injettan que' vostri baccalari
Col cappello alla Ernani o all' Espartero:
Questi sono i fecondi seminari
Della gran pianta del novello impero,
In cui vi basterà di aprir la bocca
Per aver l'imbeccata che vi tocca.

Farete allora in pace il vostro chilo
Senza stenti mai più, senza miseria:
A un cenno vostro verrà in barca il Nilo
Per ingrassar l' intisichita Esperia:
Non più tremuoti per ultimo asilo
V'apriran l'antro della ninfa Egeria;
E la grandine e il fuoco e l' acqua e il vento
Vi faran da guardiani dell'armento.

Per ogni figlio allor che Iddio vi mandi
Vi pioverà dal cielo un'altra vigna,
E scialeran con voi piccioli e grandi
Tra i favor di Pomona e di Ciprigna:
Fiano incogniti nomi editti e bandi
E la febbre quartana e la maligna:
Non gireràn più ladri a mezzanotte,
E guariran da sè le gambe rotte.

Gogne e galere a voi? nemmen per sogno,
Chè manderemo a spasso i tribunali.
Debiti e trufferie? quale bisogno
Se vivrem tutti a porzïoni uguali?
Ma della libertà quasi io vergogno
Di noverar gli effetti naturali:
Basti che d'ogni ben ne avremo a macca
E starem tutti in un ventre di vacca.

Voliam dunque animosi al secol d' oro,
Grazie alle tante coscïenze nette
Che han messo a parte nel civil lavoro
Quella manna-di-ciel delle gazzette;
E ringraziamo il venerando coro
Di smerigli, avoltoi, gufi e civette,
La cui maschia virtù vide e comprese
I profondi bisogni del paese.

Qui volgendomi a voi, buoni signori
Che sì benigni mi vi siete mostri,
Pria di por fine a' miei vani clamori
Imploro venia da' giudicii vostri
S' io vi dipinsi in languidi colori
La sceleranza di cotanti mostri,
E con morbide frasi abbia descritto
Quest'epoca di sangue e di delitto.

Nè vi sia grave ch'io con voi mi lagni
Che nella odierna socïal battaglia
Lasciando il giusto al reo troppi guadagni
Timida al paragon tenga puntaglia;
E appena il pravo umor ceda o ristagni,
Riponendo l'usbergo e la zagaglia
Tutto si riconcentri il nostro zelo
Nel goder gli ozî che ci ha fatti il cielo.

Deh ristretti fra noi, baldi e securi,
Campeggiam l'oste iniqua in faccia al sole,
Ed agli alunni di que' mastri impuri
Diam rimedio d'esempli e di parole.
Poi, mentre che si compia e si maturi
Sopra al genere uman quel che Iddio vuole,
Raccomandiamci alla bontà divina
E lasciam correr l'acqua per la china.

Giuseppe Gioachino Belli
Da "La età dell'oro", Roma, dalla Tipografia Salvucci, 1851, pag. 3

 
 
 

Un bon partito

Un bon partito

Hai sentito a cquer faccia de bbruscotto (1)
c’antra furtuna mo jj’è ccapitata?
Sposa Lalla (2) la fijja ch’è arrestata
de cuer Cencio (3) che mmorze (4) galeotto.

Se la sò lliticata in zett’o otto,
perc’ortre de la dota a la Nunziata, (5)
cuattr’antre Compagnie l’hanno addotata,
e mmó ttiè cquella che jj’è uscita al lotto. (6)

Certi cazzacci che ssanno li studi
vorebbeno sta cosa criticalla,
perché cce vonno a ttutti cuanti iggnudi.

Va bbe’ cche ffijja a un galeotto è Llalla,
ma la su’ dota de trescento scudi
sò ttrescento raggione pe sposalla.

Giuseppe Gioachino Belli
Roma, 8 dicembre 1832 - Der medemo

Note:
1. Faccia pronta.
2. Accorciativo di Adelaide.
3. Simile di Vincenzo.
4. Morì.
5. La Confraternita dell’Annunziata, e varie altre sogliono annualmente dotare varie fanciulle con alcune decine o unità di scudi.
6. Cadauno de’ cinque numeri estratti al lotto porta seco il nome di una zitella che si dota con cinquanta scudi.

 
 
 

Viaggio in Italia 1

Post n°1669 pubblicato il 30 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Roma, 1° novembre 1786.

Si, io sono finalmente nella capitale del mondo. Se avessi visitato Roma quindici anni fa, in buona compagnia e guidato da un uomo intelligente, l'avrei anche allora apprezzata molto. Ma dovendo esser solo e dovendo guardare e giudicare tutto con i propri occhi, è bene che questa felicità mi sia stata concessa solo ora.

Ho attraversato correndo i monti del Tirolo; Verona, Vicenza, Padova e Venezia le ho vedute bene; Ferrara, Cento e Bologna di corsa e Firenze appena intravveduta. La brama di arrivare a Roma era così forte e cresceva così smisuratamente da ogni passo che non potevo più stare fermo e sono rimasto a Firenze solo tre ore. Adesso son qui tranquillo e, spero, tranquillo per tutta la vita. Poiché comincia, si può ben dire, una nuova vita, quando si vede con gli occhi tutto quello che già si conosce con la mente. Ed io ora vedo viventi tutti i miei sogni di gioventù; le prime acqueforti di cui io abbia memoria (mio padre aveva molte vedute di Roma appese in una sala della nostra casa) io le vedo ora in realtà; e tutto ciò che in pittura ed in disegno» in rame ed in legno, in sughero ed in gesso da lungo tempo conoscevo, sta ora nell'insieme avanti a me; dovunque vado trovo una vecchia conoscenza in un mondo nuovo, tutto è come io lo pensavo e tutto è nuovo. La stessa cosa posso dire per le mie idee e per le mie osservazioni. Non ho avuto nessun pensiero nuovo, non ho trovato niente che fosse del tutto estraneo alla mia mente; ma il vecchio è diventato così determinato, così vivace e così concatenato da sembrare nuovo.

Quando l'Elisa, che Pigmalione aveva creato secondo i suoi desideri ed a cui aveva dato verità ed esistenza, poté andare dall'artista e dirgli: Io sono! non era essa infinitamente più viva del marmo lavorato?

Come poi è moralmente salutare di vivere in mezzo ad un popolo così voluttuoso, sul quale si è tanto scritto e parlato e che ogni straniero giudica secondo una misura che porta seco! Io perdono chi lo offende e lo denigra, perché esso sta troppo lontano da noi e per uno straniero è troppo difficile e costoso entrare con esso in rapporti....

Roma, 7 novembre.

Sono qui da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografia della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l'altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.

Confessiamolo pure, è un'impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione. Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.

Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell'antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all'osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova. Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.

Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente» quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare. Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti Dovunque si vada o si stia si è sicuri d'aver davanti agli occhi un quadro vario e complesso. Palazzi e ruine, giardini e deserti, vastità ed angustia, cupole e stalle, archi di trionfo e colonne spezzate, e spesso tutte queste cose così vicine le une a le altre che si potrebbero disegnare in un solo foglio. Ma ci vorrebbero migliaia di bulini per esprimere quello che vorrebbe dire una sola penna! E poi la sera si torna a casa stanchi ed esausti per l'ammirazione e per la meraviglia...
 in una luminosità ed una quiete dì cui avevo da molto tempo perduta ogni traccia. La mia antica abitudine di vedere e dì leggere le cose come esse sono, la mia costanza nel lasciarmi guidare solo dagli occhi, la mancanza in me d'ogni preconcetto, hanno campo d'esercitarsi ogni giorno e mi rendono beatamente felice. Tutti i giorni un nuovo oggetto meraviglioso, immagini tresche, grandi e preziose, ed un tutto che, si pensi a lungo o si sogni, non si raggiunge mai neppure con l'immaginazione.

Oggi sono stato a vedere la piramide di Cestio e questa sera sono salito al Palatino, sulle mine del palazzo dei Cesari, mine che s'ergono come pareti di roccia. E impossibile dame un'idea anche lontana. Qui non c'è niente di meschino, tutto è grandioso, e se anche qualche cosa qua e là non è bella o è banale, tutto concorre alla grandiosità complessiva.

Quando ora mi riconcentrò in me stesso, e lo faccio volentieri in simili circostanze, provo una sensazione che mi rende incomparabilmente felice, tanto che ho perfino il coraggio di esprimerla. Chi sì guardi intorno qui, con serietà e con occhi che sappiano vedere, deve necessariamente acquistare un concetto della solidità che non poteva avere prima. Lo spirito viene portato alla forza e raggiunge una serietà gaia e senza aridità. A me sembra, per esempio, di non aver mai ammirato le cose di questo mondo così giustamente come ora. E mi rallegra già il pensiero delle benefiche conseguenze che ne risentirò per tutta la vita.

E lasciatemi ammassare tutto ciò come capita, l'ordine verrà poi da sé. Non sono venuto qui per godere solamente; voglio applicarmi ai grandi oggetti e raggiungere una grande maturità di spirito, prima dei quarant'anni...

Roma, 11 novembre.

Oggi sono stato alla Ninfa Egeria, poi alle Terme di Caracalla e sulla via Appia a vedere le tombe ruinate e quella meglio conservata di Cecilia Metella, che da un giusto concetto della solidità dell'arte muraria. Questi uomini lavoravano per l'eternità ed avevano calcolato tutto, meno la ferocia devastatrice di coloro che son venuti dopo ed innanzi ai quali tutto doveva cedere. Come ardentemente ho desiderato oggi che tu fossi qui! Gli avanzi dei grandi acquedotti lasciano un'impressione enorme. Che scopo nobile e bello quello di donare a tutto un popolo l'acqua, ed in una forma prodigiosa! Siamo passati davanti al Colosseo che già annottava. Quando si son vedute tante cose sembra di nuovo piccolo, eppure è così grande che l'anima non ne può contenere l'immagine. Si ricorda più piccolo, si torna indietro a guardarlo e si trova più grande della prima volta...Roma, 20 dicembre.

E pure tutte queste cose mi destano maggiore preoccupazione e fatica che piacere. Continua senza posa ad impossessarsi di me la sensazione di una rinascita. Venendo qui sapevo bene che avrei imparate molte cose; ma che dovessi tornare tanto indietro nella scuola, per rifare tutto daccapo, questo non l'immaginavo neppure. Ma ora mi son convinto e mi sono abbandonato alla corrente e la soddisfazione cresce in proporzione del sacrificio che devo fare. Sono come un architetto che volendo innalzare una torre abbia preparato delle cattive fondamenta e che, accortosene in tempo, demolisce volentieri ciò che ha già innalzato, cerca di allargare il suo piano, di migliorare tutta l'opera sua e gioisce già della solidità certa della sua costruzione futura. Voglia il cielo che al mio ritorno si possano constatare le conseguenze morali di questi mesi passati in un mondo più vasto. Sì, anche il senso morale, oltre che l'artistico, sta subendo il grande rinnovamento...

Wolfgang Goethe
Tratto da: Viaggio in Italia, 1787, trad. Tornei, Officine Poligrafiche Italiane, edizione, 1905, Roma.

 
 
 
 
 

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