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Messaggi del 26/08/2015

Il Novellino 1-3

Post n°1949 pubblicato il 26 Agosto 2015 da valerio.sampieri
 

Il Novellino

LE CIENTO NOVELLE ANTIKE

LIBRO DI NOVELLE
ET DI BEL PARLAR GENTILE

LE CIENTO NOVELLE ANTIKE
[1525]

Questo libro tratta d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be' risposi e di belle valentie e doni, secondo che, per lo tempo passato, hanno fatti molti valenti uomini.

I

Quando lo nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente con noi, infra l'altre sue parole, ne disse che dell'abbondanza del cuore parla la lingua. Voi, ch'avete i cuori gentili e nobili, in fra li altri, acconciate le vostre menti e le vostre parole nel piacere di Dio, parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore nostro, che n'amò, prima che elli ne criasse, e prima che noi medesimi ci amassimo. E se, in alcuna parte, non dispiacendo a Lui, si può parlare, per rallegrare il corpo e sovvenire e sostentare, facciasi con più onestade e con più cortesia, che fare si puote. Ed acciò che li nobili e gentili sono, nel parlare e nell'opere, quasi com'uno specchio, appo i minori, acciò che il loro parlare è più gradito, però che esce di più dilicato stormento, facciamo qui memoria d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori, secondo che, per lo tempo passato, hanno fatto già molti. E chi avrà cuore nobile e intelligenza sottile sì li potrà simigliare per lo tempo che verrà per innanzi, ed argomentare, e dire, e raccontare, in quelle parti dove avranno luogo, a prode ed a piacere di coloro, che non sanno e disiderano di sapere. E se i fiori, che proporremo, fossero mischiati intra molte altre parole, non vi dispiaccia; ché 'l nero è ornamento dell'oro e, per un frutto nobile e dilicato, piace talora tutto un orto e, per pochi belli fiori, tutto uno giardino. Non gravi a' reggitori; ché sono stati molti, che sono vivuti grande lunghezza di  tempo, e in vita loro hanno appena tratto uno bel parlare, od alcuna cosa da mettere in conto fra' buoni.


II

Della ricca ambasceria, la quale fece lo Presto Giovanni al nobile imperaDore Federigo.

Presto Giovanni, nobilissimo signore indiano, mandòe ricca e nobile ambasceria al nobile e potente imperadore Federigo: a colui che veramente fu specchio del mondo, in parlare ed in costumi, ed amò molto dilicato parlare ed istudiò in dare savi risponsi. La forma e la intenzione di quella ambasceria fu solo in due cose: per volere, al postutto, provare, se lo 'mperadore fosse savio in parlare ed in opere. Mandolli, per li detti ambasciatori, tre pietre nobilissime, e disse loro: - Donatele allo 'mperadore e direteli, dalla parte mia, che vi dica quale è la migliore cosa del mondo. E le sue parole e risposte serberete, ed avviserete la corte sua e costumi di quella: e quello che inverrete raccontarete a me, sanza niuna mancanza. - Furo allo 'mperadore, dove erano mandati per lo loro signore; salutaronlo, sì come si convenia, per la parte della sua maestade e per la parte dello loro soprascritto signore. Donaronli le sopradette pietre. Quelli le prese e non domandò di loro virtude: fecele riporre, e lodolle molto di grande bellezza. Li ambasciadori fecero la domanda loro, e videro li costumi e la corte; poi, dopo pochi giorni, addomandaro commiato. Lo 'mperadore diede loro risposta e disse: - Ditemi al signor vostro, che la miglior cosa di questo mondo si è ‹‹misura››. - Andaro li ambasciadori, e rinunziaro e raccontaro ciò ch'aveano veduto e udito, lodando molto la corte dello 'mperadore, ornata di bellissimi costumi, e il modo de' suoi cavalieri. Il Presto Giovanni, udendo cioe che raccontaro i suoi ambasciadori, lodò lo 'mperadore, e disse ch'era molto savio in parola, ma non in fatto, acciò che non avea domandato della virtù di cosie care pietre. Rimandò li ambasciadori ed offerseli, se li piacesse, che 'l farebbe siniscalco della sua corte. E feceli contare le sue ricchezze, e le diverse ingenerazioni de' sudditi suoi, e il modo del suo paese. Dopo non gran tempo, pensando il Presto Giovanni che le pietre, ch'avea donate allo 'mperadore, avevano perduta loro virtude, da poi che non erano per lo 'mperadore conosciute, tolse uno suo carissimo lapidaro, e mandollo celatamente alla corte dello 'mperadore e disse: - Al postutto, metti lo 'ngegno tuo, che tu quelle pietre mi rechi: per niuno tesoro rimanga. - Lo lapidaro si mosse, guernito di molte pietre di gran bellezza, e cominciò, presso alla corte, a legare sue pietre. Li baroni e cavalieri veniano a vedere di suo mistiero. L'uomo era molto savio; quando vedeva alcuno, che avesse luogo in corte, non vendeva, ma donava. E donò anella molte, tanto che la lode di lui andò dinanzi allo 'mperadore. Lo quale mandò per lui, e mostrolli le sue pietre. Lodolle, ma non di gran vertude. Domandò, se avesse più care pietre. Allora lo 'mperadore fece venire le tre care pietre preziose, ch'elli desiderava di vedere. Allora il lapidaro si rallegrò, e prese l'una pietra, e mìselasi in mano, e disse così: - Questa pietra, messere, vale la migliore città, che voi avete. - Poi prese l'altra e disse: - Questa, messere, vale la migliore provincia, che voi avete. - E poi prese la terza e disse: - Messere, questa vale più che tutto lo 'mperio. - E strinse il pugno, con le soprascritte pietre. La vertude dell'una il celò, che nol potero vedere; e discese giù per le gràdora, e tornò al suo signore Presto Giovanni, e presentolli le pietre con grande allegrezza.



III

D'un savio greco, ch'uno re teneva in pregione, come giudicò d'uno destriere.

Nelle parti di Grecia ebbe un signore, che portava corona di re: ed avea grande reame, ed avea nome Filippo e, per alcuno misfatto, tenea un savio greco in pregione. Il quale era di tanta sapienzia, che, nello 'ntelletto suo, passava oltr’alle stelle. Avvenne un giorno, che a questo signore fu rappresentato, delle parti di Spagna, un nobile destriere di gran podere e di bella guisa. Addomandò lo signore mariscalchi, per sapere la bontà del destriere. Fulli detto che, in sua pregione, avea lo sovrano maestro, intendente di tutte le cose. Fece menare il destriere al campo, e fece trarre il greco di pregione, e disseli: - Maestro, avvisa questo destriere, ché mi è fatto conto che tu se' molto saputo. - Il greco avvisò il cavallo e disse: - Messere, lo cavallo è di bella guisa, ma cotanto vi dico, che il cavallo è notricato a latte d'asina. - Lo re mandò in Ispana, ad invenire come fu nodrito, e invennero che la destriera era morta ed il puledro fu notricato a latte d'asina. Ciò tenne il re a grande maraviglia, ed ordinò che li fosse dato un mezzo pane il dì, alle spese della corte. Un giorno avvenne, che lo re adunòe sue pietre preziose, e rimandòe per questo prigione greco, e disse: - Maestro, tu se' di grande savere, e credo che di tutte le cose t'intendi. Dimmi, se ti intendi delle virtù delle pietre, qual ti sembra di più ricca valuta? - Il greco avvisò e disse: - Messere, voi quale avete più cara? - Lo Re prese una pietra, intra l'altre molto bella, e disse: - Maestro, questa mi sembra più bella e di maggior valuta. - Il greco la prese e mìselasi in pugno, e strinse, e puòselasi all'orecchie, e poi disse: - Messere, qui ha un vermine. - Lo re mandò per maestri, e fecela spezzare: e trovaro, nella detta pietra, un vermine. Allora lodò il greco d'oltre mirabile senno, e istabilìo che uno pane intero li fosse dato, per giorno, alle spese di sua corte. Poi, dopo molti giorni, lo Re si pensò di non essere legittimo. [Lo] Re mandò per questo greco, ed èbbelo in luogo sacreto, e cominciò a parlare e disse: - Maestro, di grande scienzia ti credo, e manifestamente l'hoe veduto, nelle cose in ch'io t'ho domandato. Io voglio che tu mi dichi, cui figliuolo io fui. - Il greco rispose: - Messere, che domanda mi fate voi? Voi sapete bene, che foste figliuolo del cotale padre. - E lo Re rispose: - Non mi rispondere a grado. Dimmi sicuramente il vero: e se nol mi dirai, io ti farò di mala morte morire. - Allora il greco rispose: - Messere, io vi dico che voi foste figliuolo d'uno pistore. - E lo Re disse: - Vògliolo sapere da mia madre. - E mandò per la madre, e costrinsela con minacce feroci. La madre confessò la veritade. Allora il Re si chiuse in una camera con questo greco, e disse: - Maestro mio, grande prova ho veduto della tua sapienza: priègoti che mi dichi, come queste cose tu le sai. - Allora il greco rispose: - Messere, io lo vi dirò. Il cavallo conobbi a latte d'asina essere nodrito, per propio senno naturale, acciò ch'io vidi ch' avea li orecchi chinati, e ciò non è propia natura di cavallo. Il verme nella pietra conobbi, però che le pietre naturalmente sono fredde, e io la trovai calda. Calda non puote essere naturalmente, se non per animale, lo quale abbia vita. - E me, come conoscesti essere figliuolo di pistore? - Il greco rispose: - Messere, quando io vi dissi del cavallo cosa così maravigliosa, voi mi stabiliste dono d'un mezzo pane per dì; e poi, quando della pietra vi dissi, voi mi stabiliste uno pane intero. Pensate ch’allora m'avvidi, cui figliuolo voi foste. Ché, se voi foste suto figliuolo di re, vi sarebbe paruto poco di donarmi una nobile città; onde a vostra natura parve assai di meritarmi di pane, sì come vostro padre facea. - Allora il Re riconobbe la viltà sua, e tràsselo di pregione e donolli molto nobilemente.

 
 
 

Iacopo Marmitta

XIII

Di M. Iacopo Marmitta

1

"Poiché in questa mortal noiosa vita
Il fin di tutti i mali è sol la morte,
Per non viver più in grembo a l’empia morte,
Che morto tiemmi in sì dolente vita,

Forza è ch’io stesso rompa di mia vita
Lo stame e togli con inganno a morte
La gloria ch’ella spera nel dar morte
A me, c’ho in odio il lume della vita.

So ben che cosa lieve fia la morte
A sì gran mal; però, se già la vita
Viver non seppi, or saprò gir a morte".

Così disse il buon Tosco e a l’altra vita
Tosto ne gì, cangiando in chiara morte
La sua infelice e tenebrosa vita.

2

"Chi può sì degna ed onorata impresa,
Figlio, biasmar, quantunque a la tua bella
Patria, di donna fatta vile ancella,
Non sia la cara libertate resa ?

Se la tua voglia di giust’ira accesa
Al propio sangue fu cruda e rubella,
Quinci si vede quanto fosse quella
Sol al publico ben, né ad altro intesa.

O quante volte già, di meraviglia
Pieno e di sdegno, dissi: ov’è il valore
De’ nostri antichi ? u’ son le destre ardite ?".

Così, rasserenate ambe le ciglia,
Arno del novo Bruto il chiaro onore
Cantava, e gli rendea grazie infinite.

Iacopo Marmitta
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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