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Messaggi del 27/08/2015

Battista Dalla Torre

XV
Di M. Battista Dalla Torre

1

Vicina Ecco, ch’ascolti i miei lamenti,
E quantunque fra sassi e tra le frondi
Occultamente a gli occhi miei t’ascondi,
Mostri pietà de’ miei gravi tormenti,

Tu raddoppi i miei tristi ultimi accenti,
Tu col mio spesso il tuo dolor confondi:
S’io grido Furnia, e tu Furnia rispondi,
E meco s’io mi doglio ti lamenti.

Te sola ho provato io ninfa pietosa,
Come quella cui forse ancor soviene
De l’amato Narciso la durezza.

Eguale arde ambidue fiamma amorosa,
Eguale è ’l nostro amor, pari le pene,
Ed ambidue già vinse egual bellezza.


2

Ninfa, che ’n questa oscura grotta ascosa
Co’ miei spesso accompagni i tuoi sospiri
E meco spesso incontra il ciel t’adiri,
Mostrandoti del mio dolor dogliosa,

Ben s’assomiglia al tuo, Ninfa pietosa,
Questo mio stato, pien d’aspri martiri
Dapoi che la mia speme, i miei desiri
Posi in donna crudele e disdegnosa.

Te condusse ad amar l’empia tua sorte
Il superbo Narciso, e me conduce
L’ingrata Furnia a dolorosa morte.

Per te raggio di sol qua giù non luce,
Qui per me son tutte le gioie morte:
Tu fuggi da le genti, io da la luce.


3

Se mai l’orgoglio tuo ti mosse a sdegno,
Del cielo domator santo Cupido,
Abbandona di Cipro il propio nido,
Esci, gran re, fuor de l’antico regno,

Spiega l’ali, signor, senza ritegno
Là dove Alcon con doloroso grido
Tutto ’l ciel empie e tutto il nostro lido,
E ti chiama d’imperio e d’onor degno.

"Che ti giova", dice egli, "in pioggia d’oro,
O superbo fanciullo, aver cangiato
Giove, il gran re del cielo, in cigno, in toro,

Se la mia Furnia vedi aver sprezzato
Le tue fort’armi ed ogni forza loro ?
Come tu il cielo, ed ella ha te domato".


4

"Ben m’aveggio morir tutto il tuo affetto,
Furnia, in te sol, come in te prima nacque;
Fuor che ’l tuo sempre ogni altro amor ti spiacque,
Né mai pietà di me ti scaldò il petto.

Siati essempio l’incauto giovinetto
Ch’odiando altrui tanto a se stesso piacque,
Che fatto un fior presso a le gelide acque
Con la forma perdé voce e intelletto.

Ma pria che perdi così bella spoglia,
Cara, benché crudel, nemica mia,
Eterna fia l’alta mia piaga acerba".

Così gridando Alcon vinto di doglia
Risponder la pietosa Ecco s’udia,
Che di Narciso ancor memoria serba.


5

E queste verdi erbette e questi fiori,
Colti di man di vaghe pastorelle
Quando il sol volea dar loco a le stelle,
Alcon ti sparge, o madre de gli Amori;

Alcon, che per gli antichi estinti ardori
Superbo, e per le a te voglie rubelle,
Or di maggior che pria fiamme novelle
Racceso, oggi ti rende i primi onori.

Tu, dea di Cipro, or che ’l suo crudo orgoglio
Contra il tuo gran poter non ha più loco,
Perché ’l vinto nemico ancora offendi?

Doma Furnia, più dura assai che scoglio,
Sì che seco arda d’uno istesso foco,
O ne la prima libertà lo rendi.


6

Quanto fu sempre grave il mio tormento
E la durezza altrui, Ninfa, tu ’l sai,
Che ’n questo ombroso speco ascosa stai
E t’accordi col mio tristo concento.

Mentre io di Furnia meco mi lamento,
Tu rinovelli gli tuo’ antichi guai,
E mostrando pietà de’ nostri lai,
Meco Furnia crudel chiamar ti sento.

Questa ti tesse Alcon bianca corona
D’odorati narcisi, Ecco amorosa,
Per la pietate c’hai del suo dolore,

E tra tutti gli fior questi ti dona,
Acciò che quel che sovra ogni altra cosa
Ardesti indarno, uom già, godi almen fiore.


7

Nel tempo che levar l’Aurora suole,
Surgendo Furnia, Alcon volto a la dea:
"Non t’arrossir, non ti sdegnar", dicea,
"Che Furnia vinca te, che vince il Sole.

O quante volte in queste piaggie sole
L’han veduto Licori e Galatea
Celarsi, quando quella si vedea
Uscir di rose ornata e di viole.

E ben n’avea ragion: che la natura
Così non fe’ giamai cosa più bella,
Come di lei non fe’ pietra più dura.

O felice più ch’altra pastorella,
Ch’al ciel gli onori e le ricchezze fura,
Cui con l’Aurora e ’l Sol cede ogni stella !".

Battista Dalla Torre
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545

 
 
 

Il Novellino 4-7

Post n°1951 pubblicato il 27 Agosto 2015 da valerio.sampieri
 

Il Novellino

LE CIENTO NOVELLE ANTIKE

LIBRO DI NOVELLE
ET DI BEL PARLAR GENTILE

LE CIENTO NOVELLE ANTIKE
[1525]

Questo libro tratta d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be' risposi e di belle valentie e doni, secondo che, per lo tempo passato, hanno fatti molti valenti uomini.

IV

Come un giullare si compianse, dinanzi ad Alessandro, d'un cavaliere, al quale elli avea donato, per intenzione che 'l cavaliere li donerebbe ciò che Alessandro li donasse.

Stando Alessandro alla città di Giadre con moltitudine di gente ad assedio, un nobile cavaliere era fuggito di pregione. Ed essendo poveramente ad arnese, misesi ad andare ad Alessandro, che donava larghissimamente, sopra li altri signori. Andando per lo cammino trovò uno uomo di corte nobilemente ad arnese. Domandollo dove andava. Lo cavalier rispose: - Vo ad Alessandro, che mi doni, acciò ch'io possa tornare in mia contrada onoratamente. - Allora il giullare rispose e disse: - Che vuoli tu ch'io ti doni? E tu mi dona ciò che Alessandro ti donerà. - Lo cavaliere rispose: - Donami cavallo da cavalcare, e somiere e robe e dispendio convenevole a ritornare in mia terra. - Il giullare li le donò, ed in concordia cavalcaro ad Alessandro; lo quale aspramente avea combattuto la città di Giadre, era partito dalla battaglia e faceasi, sotto un padiglione, disarmare. Lo cavaliere e lo giullare si trassero avanti. Lo cavaliere fece la domanda sua ad Alessandro, umile e dolcemente. Alessandro non li fece motto, né li fece rispondere. Lo cavaliere si partì dal giullare e misesi per lo cammino, a ritornare in sua terra. Poco dilungato lo cavaliere, li nobili cittadini di Giadre recaro le chiavi della città ad Alessandro, con pieno mandato d'ubbidire a lui, sì come a lor signore. Alessandro allora si volse inverso i suoi baroni e disse: - Dov'è chi mi domandava ch'io li donasse? - Allora fu tramesso per lo cavaliere, ch'addomandava il dono. Lo cavaliere venne, ed Alessandro parlò e disse: - Prendi, nobile cavaliere, le chiavi della nobile città di Giadre, che la ti dono volentieri. - Lo cavaliere rispuose: - Messere, non mi donare cittade; priègoti che mi doni oro, o argento, o robe, come sia tuo piacere. - Allora Alessandro sorrise e comandò che li fossero dati duemila marchi d'argento. E questo si scrisse per lo minore dono, che Alessandro donò mai. Lo cavaliere prese i marchi e donolli al giullare. Il giullare fu dinanzi ad Alessandro e, con grande 'stanzia, addomandava che li facesse ragione; e fece tanto, che fece restare lo cavaliere. E la domanda sua si era di cotale maniera, dinanzi ad Alessandro: - Messere, io trovai costui in cammino: domanda'lo ove andava, e perché. Dissemi, che ad Alessandro andava, perché li donasse. Con lui feci patto. Dona'li, ed elli mi promise di donare ciò che Alessandro li donasse. Onde elli hae rotto il patto, c'ha rifiutato la nobile città di Giadre e preso li marchi. Perch'io, dinanzi alla vostra signoria addomando, che mi facciate ragione, e sodisfare quanto vale più la città che i marchi. - Allora il cavaliere parlò, e primamente confessò i patti, poi disse: - Ragionevole signore, que' che mi domanda è giucolare, e in cuore di giullare non puote discendere signoria di cittade. Il suo pensero fu d'argento e d'oro, e la sua intenzione fu tale; ed io ho pienamente fornita la sua intenzione. Onde la tua signoria proveggia nella mia diliveranza, secondo che piace al tuo savio consiglio. - Alessandro e suoi baroni prosciolsero il cavaliere, e commendâronlo di grande sapienzia.




V

Come uno re commise una risposta a un suo giovane figliuolo, la quale dovea fare ad ambasciadori di Grecia.

Uno Re fu, nelle parti di Egitto, lo quale avea uno suo figliuolo primogenito, lo quale dovea portare la corona del reame, dopo lui. Questo suo padre, dalla fantilitade, sì cominciò e fecelo nodrire intra savi uomini di tempo; sìcché anni avea quindici [e] giammai non avea veduto niuna fanciullezza. Un giorno avvenne, che lo padre li commise una risposta ad ambasciadori di Grecia. Il giovane, stando sulla ringhiera per rispondere alli ambasciadori, il tempo era turbato, e piovea. Volse gli occhi, per una finestra del palagio, e vide altri giovani, che accoglievano l'acqua piovana e facevano pescaie e mulina di paglia. Il giovane, vedendo ciò, lasciò stare la ringhiera e gittossi subitamente giù, per le scale del palagio, ed andò alli altri giovani, che stavano a ricevere l'acqua piovana, e cominciò a fare le mulina e le bambolitadi. Baroni e cavalieri lo seguirono assai, e rimenàronlo al palagio. Chiusero la finestra, e 'l giovane diede sufficiente risposta. Dopo il consiglio, si partìo la gente. Lo padre adunò filosofi e maestri di grande scienza: propuose il presente fatto. Alcuno de' savi riputava movimento d'omori, alcuno fievolezza d'animo; chi dicea infermità di celabro, chi dicea una e chi dicea un'altra, secondo le diversità di loro scienzie. Uno filosofo disse: - Ditemi, come lo giovane è stato nodrito? - Fulli contato, come nodrito era stato con savi e con uomini di tempo, lungi da ogni fanciullezza. Allora lo savio rispose: - Non vi maravigliate, se la natura domanda ciò ch'ella ha perduto: ragionevole cosa è bamboleggiare in giovanezza, ed in vecchiezza pensare.



VI

Come a David re venne in pensiero di volere sapere quanti fossero i sudditi suoi.

David re, essendo re per la bontà di Dio, che di pecoraio l'avea fatto signore, li venne un giorno in pensero di volere al postutto sapere, quanti fossero i sudditi suoi. E ciò fu atto di vanagloria; onde molto ne dispiacque a Dio, e mandolli l'angelo suo e feceli così dire: - David, tu hai peccato. Così ti manda a dire lo Signor tuo: - O vuoli tu stare tre anni in inferno, o tre mesi nelle mani de' nemici suoi, cioè tuoi, o stare al giudicio delle mani del tuo Signore? - David rispose: - Nelle mani del mio Signore mi metto: faccia di me ciò che li piace. - Or che fece Iddio? Punillo, secondo la colpa: ché quasi la maggior parte del popolo suo li tolse per morte, acciò ch’elli si vanagloriò nel grande novero. Così lo scemò ed appicciolò il novero. Un giorno avvenne che, cavalcando David, vide l'angelo di Dio, con una spada ignuda, ch'andava uccidendo. E comunque elli volle colpire uno, e David smontòe subitamente e disse: - Messere, mercè per Dio! Non uccidere l'innocenti; ma uccidi me, cui è la colpa. - Allora, per la dibonarità di questa parola, Dio perdonò al popolo, e rimase l'uccisione.



VII

Qui conta, come l'angelo parlò a Salamone, e disse che torrebbe Domenedio il reame al figliuolo, per li suoi peccati.

Leggesi di Salamone, che fece un altro dispiacere a Dio, onde cadde in sentenzia di perdere lo reame suo. L'angelo li parlò, e disse così: - Salamone, per la tua colpa tu se' degno di perdere lo reame. Ma così ti manda lo Nostro Signore [a dire]: che, per li meriti della bontà di tuo padre, elli nol ti torrà nel tuo tempo; ma, per la colpa tua, lo torrà al figliuolto. - E così dimostra i guidardoni del padre meritati nel figliuolo, e le colpe del padre punite nel figliuolo. Nota che Salamone studiosamente lavorò sotto il sole, con ingegno, di sua grandissima sapienzia. Fece grandissimo e nobile regno. Poi che l'ebbe fatto, providesi; ché non voleva che 'l possedessero aliene rede, cioè strane rede fuori del suo legnaggio. Ed a ciòe tolse molte mogli e molte amiche, per avere assai rede. E Dio provide, Quelli che è sommo dispensatore, sì ch’ei, tra tutte le mogli ed amiche che erano cotante, non ebbe se non un figliuolo. Ed allora Salamone si provide di sottoporre ed ordinare sì lo reame, sotto questo suo figliuolo (lo quale Roboam avea nome), ch'elli regnasse, dopo lui, certamente. Ché fece, dalla gioventudine infino alla senettute, ordinare la vita al figliuolo, con molti ammaestramenti e con molti nodrimenti. E più fece, che tesoro li ammassòe grandissimo e miselo in luogo sicuro. E più fece, ché incontanente poi sì brigò, che in concordia fu con tutti li signori, che confinavano con lui, ed in pace ordinò e dispose, sanza contenzione, tutti i suoi baroni. E più fece, ché lo dottrinò del corso delle stelle ed insegnolli avere signoria sopra i domòni. E tutte queste cose fece, perché Roboam regnasse dopo lui. Quando Salamone fue morto, Roboam prese suo consiglio di gente vecchia e savia: propose e domandò consiglio, in che modo potesse riformare lo popolo suo. Li vecchi l'insegnaro: - Ragunerai il populo tuo, e con dolci parole dirai, che tu li ami, sì come te medesimo, e ch'elli sono la corona tua e che, se tuo padre fu loro aspro, che tu sarai loro umile e benigno. E, dove elli li avesse faticati, che tu li sovverrai in grande riposo; e se in fare il tempio furo gravati, tu li agevolerai. - Queste parole l'insegnaro i savi vecchi del regno. Partissi Roboam, e adunò uno consiglio di giovani, e fece loro somigliante proposta. E quelli li addomandaro: - Quelli con cui prima ti consigliasti, come ti consigliaro? - E quelli il raccontò loro, a  motto a motto. Allora li giovani dissero: - Elli t'ingannaro, perché i regni non si tengono per parole, ma per prodezza e per franchezza. Onde, se tu dirai loro dolci parole, parrà che tu abbi paura del popolo, onde esso ti soggiogherà e non ti terrà per signore, e non ti ubbidiranno. Ma fae per nostro senno: noi siamo tutti tuoi servi, e 'l signore può fare de' servi quello che li piace. Onde di’ loro con vigore e con ardire, ch'elli sono tutti tuoi servi, e chi non t’ubbidirà, tu lo pulirai, secondo la tua aspra legge. E se Salamone li gravò in fare lo tempio, e tu li graverai [in altro], se ti verrà in piacere. Il popolo non t'avràe per fanciullo; tutti ti temeranno, e così terrai lo reame e la corona. - Lo stoltissimo Roboam si tenne al giovane consiglio: adunò il popolo e disse parole feroci. Il popolo s'adirò; i baroni si turbaro, fecero posture e leghe. Giuraro insieme certi baroni; sicché in trentaquattro dì, dopo la morte di Salamone, perdé, delle dodici parti, le dieci del suo reame, per lo folle consiglio de' giovani.

 
 
 

Francesco Coppetta

XIV

Di M. Francesco Coppetta

1

Quando col ventre pien donna s’invoglia
D’esca vietata, nel toccar se stessa
Lascia del van desio la forma impressa
Ne la tenera ancor non nata spoglia.

Giunta poi l’ora, con tormento e doglia
Pon giù la soma che la tenne oppressa,
E l’informato già sigillo in essa
Aperto scuopre ogni materna voglia.

Tal io veggendo il mio desir conteso
Mi batto il petto, e ne rimane sculto
L’amoroso pensiero ond’io son grave.

Ma s’io vengo a depor piangendo il peso
Qual dentro di mie voglie è il segno occulto
Di mostrarsi in palese ardir non have.


2

Rivedrò pur la bella donna e ’l loco
Ov’io lasciai, chiude oggi un lustro a punto,
L’arso mio cor, e non s’è mai disgiunto
Per sì lunga stagion dal suo bel foco;

Troverò in lei nulla cangiato o poco
Quel suo mortal ch’è col divin congiunto,
Ma io dagli anni e da l’ardor consunto
Le sarò più che prima a scherno e gioco.

Trovi almeno appo lei fede sì salda
Tanta mercé che del bel viso altiero
Pasca quest’avidi occhi e non l’encresca.

E se raggio d’amor punto la scalda,
Dica tra sé: "Fido amator sincero,
A sì lungo digiun breve è quest’esca".


3

Di quel sugo letal ch’a morte spinse
Chi l’Indo e ’l Perso con vittoria scorse
Nuovo Antipatro al gran MEDICI porse,
E due gran lumi un licor breve estinse.

E se la terra IPPOLITO non vinse,
Con Alessandro di splendor concorse,
E l’avria secondato in arme forse,
Ma la toga fatale il brando scinse.

Or si puon dar due traditori il vanto
D’aver due volte impoverito il mondo:
Già Macedonia, or è l’Italia in pianto.

Commosso è ’l Tebro e l’Arno insino al fondo:
Questo di Pietro gli serbava il manto,
Quel di Porsenna il bel scettro secondo.

Francesco Coppetta (pseudonimo di Francesco Beccuti)
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 
 
 

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