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Messaggi del 28/08/2015

Francesco Maria Molza 2

XVI

Di M. Francesco Maria Molza

11

Da la più ricca vena il più pregiato
Oro ritrova, e da’ più colti e lieti
Orti le rose, e puri gigli mieti
Dal più riposto e rugiadoso prato;

Questi insieme confusi ’l viso amato
Faran che in parte ornar non ti si vieti,
E ’l gran desir, saggio pittore, acqueti,
Che per sì alta cagion al cor t’è nato.

Indi cinamo e nardo, e ciò che pasce
Nel suo più vago ed odorato seno
L’unico augello, in darli spirto accogli.

Ma più tosto che ’l tuo ivi non lasce,
GIULIO, temo io, però che in quel bel seno
Mirar senza morir, Amor, ne togli.


12

Gli occhi leggiadri e di luce ebbri ardente
Che né fuggir, né sofferir son oso,
Allor ch’ogni mortal prende riposo
Al suon mi destan di sospir sovente.

E parmi esser talor sì a quei presente
Che men sento ’l martir farsi gravoso,
Poi trovo ogni esser mio sì loro ascoso
Che forza è che seguirli io mi sgomente.

Pur chiudo gli occhi e ’l vano error lusingo
Per aver qualche pace, infin che ’l mare
Il sol lasciando a noi col carro torni.

Non però solo una favilla estingo
Dell’adorno mio foco, o delle amare
Notti ritrovo più tranquilli i giorni.


13
Mentre me verso il bel gorgoneo fonte
Per non segnato calle invita spesso
Un possente desir ch’al cor s’è messo
Di girvi appresso con rime alte e pronte,

Non sia che la serena e vaga fronte
Più mi si nieghi, e sofferir da presso
Quegli occhi vaghi in cui si legge espresso
Com’altri al tempo faccia inganni ed onte;

Sol che mi porga questa speme ardire,
Mostrandomi talor di poca luce
Qualche scintilla, e mi si scuopra intorno,

Di farmi, spero, a tutto ’l colle udire
Con sì fervide note, alma mia duce,
Che invidia muova a più di mille e scorno.


14

Talor madonna folgorando muove
Ver me sì fiero e dispietato sguardo,
Ch’io dico: "S’al fuggir son pigro e tardo,
Amor vedrà di me l’ultime prove".

Ma poi mirando come alor mi trove
Infermo a sì possente e fiero dardo,
Raffrena ’l colpo di cui pero ed ardo,
Quel che de l’arme non avien di Giove.

Qual s’udrà mai sì scaltro e caro ingegno
Che in rime stringa non usate e rare
Ciò ch’a pena pensar meco son oso,

Ed alzi lei tanto al celeste regno
Che con sì chiaro essempio ’l ciel impare
D’esser nel mezzo ’l folminar pietoso?


15

Santa, sacra, celeste e sola imago,
Nella qual Dio se stesso rappresenta,
Ornar terreno stile indarno tenta,
Spesso mi dice un pensier scorto e vago.

Ma l’alma, che di ciò non d’altro appago,
Perché più volte sé delusa senta
Non so come fin qui non si sgomenta,
Pur quel seguendo ond’io mi struggo e impiago;

E vuol ch’io speri dal mortal diffetto
Cantando allontanarmi, e gir sì lunge
Ch’a lei possa piacer qualche mio detto.

O se per sorte là dove ella aggiunge
Di girle appresso non mi sia interdetto,
Beato ardir, ch’or mi lusinga e punge!


16

Donna, ch’ogni felice e chiaro ingegno
Con l’estrema di voi men degna parte
Stancar potete, ed all’antiche carte
Far con le nuove pur onta e disdegno,

Poiché ’l mondo d’amarvi non è degno,
Cui grave peso sì da voi diparte
Che ’ndarno tenta ogni sua forza ed arte
Per giunger sì riposto ed alto segno,

L’orme di Lui, ch’a suo diletto bella
Vi fece, che se stesso amando mira
E di sempre gioir seco non cessa,

Seguite, e con pietosa umil favella
Dite: "Più l’arco di costor non tira",
E sforzate i desir nostri a voi stessa.


17

Anima bella e di quel numer una
C’han fatto il secol lor vivendo chiaro
Di virtù, di valor, di pregio raro,
Quanto ’l ciel in mill’anni non aduna,

Già solei tu con vista assai men bruna
Consolar il mio stato aspro ed amaro,
Or mi ti mostri di pietà sì avaro
Ch’io porto invidia ad ogni rea fortuna.

Forse vuoi dirmi in cotal guisa: "Scrivi
La domestica fraude e il fier licore,
Di che ancor t’odo sospirar sovente,

O pur da i foschi ed inameni rivi
Volano i sogni temerarii fuore,
E d’error vani altrui empion la mente".


18

Torbida imago e ne l’aspetto scura
Pur mi ti mostri e di pietà rubella,
Spirto gentile, allor ch’arde ogni stella
E la notte le piaggie e i colli oscura.

L’alma del tuo gioir certa, e sicura
De la vita ch’or meni in ciel più bella,
Da sé discaccia vision sì fella
E poco larve sì mentite cura;

E membrando ch’omai volge il quinto anno
Che spinto dal tuo bel carcer terreno
Salisti al ciel con passi pronti altiero,

Si riconforta in così duro affanno,
E spera in breve entro l’empireo seno
Teco godendo avvicinarsi al vero.


19

Piangi secol noioso e d’orror pieno
Ed ogni senso d’allegrezza oblia,
Di valor nudo in tutto e leggiadria,
Orrido e fosco, già lieto e sereno,

Che ’n te venuto è sul fiorir pur meno
Quel chiaro germe che d’alzar tra via
Era gli antichi onor, la cortesia,
Che vivendo mai sempre egli ebbe in seno.

E tu, che visto pompa hai sì crudele,
Altiero fiume, sotto l’onde il crine
Ascondi, e ’l corso a’ tuoi bei rivi niega,

E tosco amaro in te rinchiudi e fele
Simile a quello onde con duro fine
Alma sì bella dal mortal si slega.


20

La bella donna, di cui già cantai
Sì novamente e con sì caldo affetto,
Cangiato ha in reo il suo leggiadro aspetto
Ch’armavan sì felici e vivi rai.

Io, che udir tuon giamai tal non pensai,
Perduto ho in un momento ogni diletto,
E di tal piaga offeso l’intelletto
Ch’altro non penso più che traer guai.

Al chiuder d’i begli occhi onesti e santi
Sparver d’Amor le gloriose insegne
Per colmarne d’eterni e duri pianti.

Alzovvi Morte le sue scure e indegne
Inanzi tempo: o rari e bei sembianti,
Chi fia che senza voi viver più degne?

Francesco Maria Molza
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Quanno ridete...

Quanno ridete...

Quanino ridete voi, dentro a l'occhietti
Ve ride amore e v'arisprenne in viso:
Quanno ridete voi, su in paradiso
Rideno tutti quanti l'angeletti.

Ci'avete la maggia su quer soriso,
L'incanto in que' la bocca da bacetti,
E que li denti bianchi e piccoletti
Pareno trentadu' vaghe de riso.

E que' li du bucetti a 'le ganasse?...
Ah! quelli poi, fann'ammattì la gente.
So du bellezze rare da lodasse.

Voi sete bella assai quanno ridete,
E me piacete tanto, speciarmente
Pe' que' li du' bucetti che ciavete!!

Antonio Camilli
Tratto da: Poesie Romanesche, Roma, Tipografia Industria e Lavoro, 1906, pag. 16

 
 
 

Francesco Maria Molza

XVI

Di M. Francesco Maria Molza

1

Dormiva Amor entro ’l bel seno accolto
De la mia donna sonno dolce e queto,
Quando le guancie e ’l caro sguardo e lieto
Sentì cangiarsi, e sé dal gioir tolto;

E di faville armato e ’n foco avvolto,
Volando a parte onde mai sempre mieto
Pace e dolcezza, e ’l gran desir acqueto,
Repente se l’offerse a mezzo ’l volto;

E quanto di vergogna avea nel core
Acceso il casto e pellegrino affetto,
Tanto con le sue mani ei vi dipinse:

A me scese per l’ossa un dolce ardore
Sì ratto che mai ’l ciel da’ nembi infetto
Non corse balenar sì presto o cinse.


2

Né mai racemi ne l’estivo ardore
Colorì ’l sole in sì vezzoso aspetto,
Né da’ bei pomi a piegar ramo astretto
Sì vago mise e sì natio colore,

Né di rose i bei crin cinta mai fuore
Portò l’Aurora dì chiaro ed eletto,
Né giunse onor a fino avorio schietto
D’Africa e Tiro prezioso umore,

Né stella seguì mai purpurea face
Allor che ’l ciel cadendo a basso fiede,
Né girò ’l volto Primavera intorno,

Né vaghezza fu mai, ch’ad alma pace
Simile apporti a quella che al cor riede
Membrando il variar del viso adorno.


3

L’atto avante avrò sempre in che onestade
Somma refulse, e ’l bel cortese giro
Per cui, se ’n donne atti leggiadri i’ miro,
Sogno mi sembra e fumo ogni beltade.

Ma perché a questa poi o ad altra etade
Ridir non posso (che troppo alto aspiro),
Meco sovente e con Amor m’adiro,
Sì trovo a i bei desiri erte le strade.

Allegro in vista dimostrossi il cielo
E prese qualità dal bel rossore
Che ’l mio sole in quel punto avea sì adorno

Per fregiarne se stesso, allor che fuore
Fra la rugiada a noi si scuopre e ’l gielo
La bella Aurora, e ne rimena ’l giorno.


4

SCIPIO, che lunge dal tuo patrio lido
L’antiche mura del figliuol di Marte
Riverente contempli a parte a parte,
Che belle rivedere ancor mi fido,

Se cosa eguale al gran publico grido
Brami trovar, c’hai letto in tante carte,
Là donde Amor giamai non si diparte,
Mira de l’alma mia fenice il nido.

So che dirai, solo ch’uno atto avante
Di lei ti rechi, o ’n bel sembiante altero
Rida ella o pensi, e ’n ciò se stessa segua:

"Quanto i termini già produsse inante
Roma del grande ed onorato Impero,
Tanto costei con suo’ begli occhi adegua".


5

CARO, che quanto scopre il nostro polo
Spiegate per lo ciel sì larghi i vanni
Ch’ogni acuto veder par che s’appanni,
Che dietro s’assicuri al vostro volo,

Poiché ’l viso che tanto onoro e colo
Ornar mi vietan duri e lunghi affanni,
Voi con l’inchiostro, onde a la morte inganni
Fatto più volte avete unico e solo,

Cantate la divina alma beltate
Di lei c’ho sempre inanzi, ond’ella goda
Accolta dentro a più leggiadro stile.

A le calde mie voglie ed infiammate
Assai fia degna ed onorata loda
Se desto a cantar voi, cigno gentile.


6

Il cangiar dolce del celeste viso,
Ove Amor rivelò casto e pudico
L’ultimo sforzo, e di viltà nimico
D’ogni basso pensier mostrò diviso,

Chiari ne fe’ sì come in Paradiso
L’un l’altro onora e con sembiante amico
Apre ciò che ’l cor chiude, e nol ridico
Mai ch’io non tremi di pietà conquiso.

Cotal fra bei ligustri vergognosa
Espero mira da i superni chiostri
Aprir ben nata e leggiadretta rosa,

Né più risplende, per ch’altri l’inostri,
Candido avorio. In somma fu ben cosa
Degna, saggio signor, de gli occhi vostri.


7

Qual vago fior, che sottil pioggia ingombra
E d’umor cuopre rugiadoso e lieve,
Riluce allor che parte ’l giorno breve
E ’l caldo il ghiaccio alle campagne sgombra,

Cotale ’l mio pensier madonna adombra
Sotto abito che poco o nulla aggreve
Coprir gigli, ligustri, oro, ostro e neve,
E far con atti schifi a se stesso ombra.

Bagnava ’l ciel le piaggie d’ogni ’ntorno
Sparse di color mille e di viole,
Ch’incontro i raggi de i bei lumi aperse;

Ma rose non però scorse in quel giorno
Simili a quelle che ’l cor brama e cole,
Né fior altrove sì leggiadro asperse.


8

Alma Fenice, che dal sacro nido
Al ciel v’alzate con sì salde penne
Che quanto con Atlante Ercol sostenne
Empite di famoso e chiaro grido,

Mentre ch’Amor, in cui poco mi fido,
Quel ch’a gli anni miglior più si convenne,
Per ch’io vi segua ’l cor par che m’impenne
Da questo nostro ad ogni estremo lido,

A me, già volto alla stagion più ria
Che i colli imbianca e al gennaio vicino
Ch’al fin la vita d’ogni ben dispoglia,

Piacciavi in parte agevolar la via
Col vostro volo, s’è pur mio destino
Ch’io cangi ’l pelo e non l’accesa voglia.


9

Invido sol, se le due chiare stelle
De la nuova cagion de’ miei tormenti
Soffrir non puoi, e quei be’ raggi ardenti,
Di cui sempre sarà ch’arda e favelle,

A che tua forza par che rinovelle
E ’n mille guise di turbar ritenti
Gli occhi sopra ’l mortal corso lucenti,
Te ricoprendo di nubi atre e felle?

Ben era di guidar l’aurato carro
Più di te degna, e con sembiante umano
Il giorno dispensar da quel bel seno.

Ma che le conte sue fattezze narro,
Se vinto alzando pur l’altr’ier la mano
Il ciel lasciasti lor franco e sereno?


10

Quando fra l’altre donne altera giunge
Questa fenice che ’l mio cor possiede,
Ove che gli occhi giri o mova ’l piede,
Ogn’altrui vista a sé sola congiunge;

Né però doglia interna alcuna punge
Ch’oscura e senza pregio allor si vede,
Anzi benigna e riverente cede,
Sì dal nostro uso in tutto si disgiunge.

Felice voi, che d’ogni invidia avete
I segni disturbati alteramente,
Tante ’l ciel grazie in que’ begli occhi pose.

A me, cui più d’ogni altro ’l cor ardete,
Amor cose discopre a voi presente
Che sono al mondo ed alle genti ascose.

Francesco Maria Molza
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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