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Messaggi del 25/01/2016

Rosso Malpelo (1)

Post n°2518 pubblicato il 25 Gennaio 2016 da valerio.sampieri
 

Rosso Malpelo

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano « la cava di Malpelo », e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora non serviva più, e s'era calcolato così ad occhio col padrone per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va' là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre.
Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericoloso nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l'avvocato.
Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del padrone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in pieno; e intanto borbottava: - Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto - il cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse: ohi! ohi! anch'esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: « Tirati indietro! » oppure « Sta' attento! Sta' attento se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa ». Tutt'a un tratto non disse più nulla, e Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense.
Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l'ingegnere che dirigeva i lavori della cava ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, perch'era gran dilettante. Rossi rappresentava l'Amleto, e c'era un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L'ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento, ma passarono altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto ci voleva una settimana.
Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell'affare di mastro Bestia!
L'ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran chiacchierìo non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva più nulla di umano, e strillava: - Scavate! scavate qui! presto! - To'! - disse lo sciancato - è Malpelo! - Da dove è venuto fuori Malpelo? - Se tu non fossi stato Malpelo, non te la saresti scappata, no! - Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio duro a mo' dei gatti. Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e tale schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall'altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l'asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: - Così creperai più presto!
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: « Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così! ». E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: « È stato lui, per trentacinque tarì! ». E un'altra volta, dietro allo sciancato: « E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! ».
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com'era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, e gli diceva: - To'! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca o dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora confidava a Ranocchio: - L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.
Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne avrai tanti di meno addosso.
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. - La rena è traditora, diceva a Ranocchio sottovoce; somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui.
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio piagnuccolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso e lo sgridava: - Taci pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te. - Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo.
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore dì lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Adunque, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e sbracato com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo di ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più, e se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.

Giovanni Verga
Da "Vita dei campi" (1880)

(continua)

 
 
 

Campa, e llassa campà

Campa, e llassa campà

Ma cche ffajòla, Cristo, è diventata
sta Roma porca, Iddio me lo perdoni!
Forche che state a ffà, ffurmini, troni, (1)
che nun scennete a fanne una panzata?

S’ha da vede, per dio, la buggiarata
ch’er Cristiano (2) ha d’annà ssenza carzoni,
manco si cquelli poveri cojjoni
nun fussino de carne bbattezzata!

Stassi a sto fusto (3) a ccommannà le feste,
voría bbe’ (4) mmaneggià li giucarelli
d’arimette er ciarvello in de le teste.

E cchiamerebbe Bbonziggnor Maggnelli, (5)
pe’ ddijje du’ parole leste leste:
sor è, (6) ffamo campà li poverelli.

Note:
1 Tuoni.
2 L’uomo.
3 Stasse a me.
4 Vorrei bene.
5 Monsignor Mangelli, Presidente dell’Annona e Grascia.
6 Sor È, come dicesse: «Signor tale».

Giuseppe Gioachino Belli
19 febbraio 1830 - De Peppe er tosto
(Sonetto 20)

 
 
 

Alfieri: Saul

Post n°2516 pubblicato il 25 Gennaio 2016 da valerio.sampieri
 

Parere dell'autore
Le antiche colte nazioni, o sia che fossero più religiose di noi, o che in paragone delle altre stimassero maggiormente se stesse, fatto si è che quei loro soggetti, in cui era mista una forza soprannaturale, esse li reputano i più atti a commuovere in teatro. E certamente non si potrà nè dire nè supporre, che una città come Atene, in cui Pirrone, e tanti altri filosofi d'ogni setta e d'ogni opinione pubblicamente insegnavano al popolo, fosse più creduta e meno spregiudicata che niuna delle nostre moderne capitali.
Ma comunque ciò fosse, io benissimo so, che quanto piacevano tali specie di tragedie a quei popoli, altrettanto dispiacciono ai nostri; e massimamente quando il soprannaturale si accatta dalla propria nostra officina. Se ad un così fatto pensare non avessi trovato principalmente inclinato il mio secolo, io avrei ritratto dalla Bibbia più altri soggetti di tragedia, che ottimi da ciò mi pareano. Nessun terna lascia maggior libertà al poeta di innestarvi poesia descrittiva, fantastica, e lirica, senza punto pregiudicare alla drammatica e all'affetto; essendo queste ammissioni o esclusioni una cosa di mera convenzione; poiché tale espressione, che in bocca di un Romano, di un Greco ( e più ancora in bocca di alcuno de' nostri moderni eroi) gigantesca parrebbe e sforzata, verrà a parer semplice e naturale in bocca di un eroe d'Israele. Ciò nasce dall'avere noi sempre conosciuti codesti biblici eroi sotto quella sola scorza, e non mai sotto altra; onde siamo venuti a reputare in essi natura, quello che in altri reputeremmo affettazione, falsità, e turgidezza.
L'aprire il campo alle immagini, il poter parlare per similitudini, potere esagerare le passioni coi detti, e render per vie soprannaturali verisimile il falso; tutti questi possenti ajuti, riescono di un grande incentivo al poeta per fargli intraprendere tragedie di questo genere, ma le rendono altresì, appunto per questo, più facili assai a trattarsi; perchè con arte e abilità minore il poeta può colpire assai più, e oltre il diletto, cagionar maraviglia. Quel poter vagare, bisognando, e il parlar d'altro, senza abbandonare il soggetto; e il sostituire ai ragionamenti poesia, e agli affetti il maraviglioso; era questo un gran campo da cui gli antichi poeti raccoglieano con minor fatica più gloria. Ma il nostro secolo, niente poetico, e tanto ragionatore, non vuole queste bellezze in teatro, ogniqualvolta non siano elle necessarie ed utili, e parte integrante della cosa stessa.
Saul, ammessa da noi la fatal punizione di Dio per avere egli disobbedito ai sacerdoti, si mostra, per quanto a me pare, quale esser dovea. Ma per chi anche non ammettesse questa mano di Dio vendicatrice aggravata sovr'esso, basterà l'osservare, che Saul credendo d'essersi meritata l'ira di Dio, per questa sola sua opinione fortemente concepita e creduta, potea egli benissimo cadere in questo stato di turbazione, che lo rende non meno degno di pietà che di maraviglia.
David, amabile e prode giovinetto, credo che in questa tragedia, potendovi egli sviluppare principalmente la sua natia bontà, la compassione ch'egli ha per Saùl, l'amore per Gionata e Micol, ed il suo non finto rispetto pe' sacerdoti, e la sua magnanima fidanza in Dio solo; io credo che da questo tutto ne venga David a riuscire un personaggio ad un tempo commoventissimo, e maraviglioso.
Micol è una tenera sposa e una figlia obbediente;nè altro dovea essere.
Gionataa ha del soprannaturale forse ancor più che David; ed egli in questa tragedia ne ha più bisogno, per poter mirare di buon occhio il giovinetto David,il quale preconizzato re dai profeti, se non era l'ajuto di Dio, dovea parere a Gionata piuttosto un rivale nemico, che non un fratello. L'effetto che risulta in lui da questa specie di amore inspirato e dalla sua totale rassgnazione al voler divino, parmi che sia di renderlo affettuosissimo in tutti i suoi detti al padre, alla sorella, e al cognato; e ammirabilissimo, senza inverisimiglianza, agli spettatori.
Abner è un ministro guerriero, più amico che servo a Saulle; quindi egli a me non par vile, benché esecutore talora dei suoi crudeli comandi.
Achimeléch è introdotto quà, non per altro, se non per avervi un sacerdote, che sviluppasse la parte minacciante e irritata di Dio. mentre che David non ne sviluppa xche la parte pietosa. Questo personaggio potrà da taluno, e non senza ragione, esser tacciato d'inutile. Nè io dirò che necessarioegli sia, potendo benissimo stare la tragedia senz'esso. Ma credo, che questa tragedia non si abbia intieramente a giudicare come le altre, colle semplici regole dell'arte; ed io primo confesso, che ella non regge a un tale esame severo. Giudicandola assai più su la impressione che se ne riceverà, che non su la ragione che ciascheduno potrà chiedere a se stesso della impression ricevuta, io stimo che si verrà così a fare ad un tempo e la lode e la critica del soprannaturale adoprato in teatro.
Tutta la parte lirica di David nel terz'atto, siccome probabilmente l'attore (quando ne avremo) non sarà musico, non è già necessario che ella venga cantata per ottenere il suo effetto. Io credo, che se un'arpa eccellente farà ad ogni stanza degli ottimi preludj esprimenti e imitanti il diverso affetto che David si propone di destare nell'animo di Saùl, l'attore dopo un tal preludio potrà semplicemente recitare i suoi versi lirici; ed in questi gli sarà allora concesso di pigliare quella armoniosa intuonazione tra il canto e la recita, che di sommo diletto ci riesce allor quando sentiamo bem porgere alcuna buona poesia da quei pochissimi che intendendola, invasandosene, non la leggendo e non la cantando, ce la sanno pure fare penetrar dolcemente per gli orecchi nel cuore. Se questo David sarà dunque mai qual dev'essere un attore perfetto, egli conoscerà, oltre l'arte della recita, anche quella del pporger versi; e s'io non mi lusingo, questi versi lirici in tal modo presentati, e interrotti dall'arpa maestra nascosa fra le scene, verranno a destare nel cuore degli spettatori un non  kinore effetto che nel cuor di Saulle.
Quanto alla condotta, il quart'atto è il più debole, e il più vuoto, di questa tragedia. L'effetto rapido e sommamente funesto della catastrofe, crederei che dovesse riuscire molto teatrale.
In qiesta ragedia l'autore ha sviluppata, o spinta assai più oltre ce nelle altre sue, quella perplessità del cuore umano, così magica per l'effetto; per cui un uomo appassionato di due passioni fra loro contrarie, a vucenda vuole e disvuole una stessa cosa. Questa perplessità è uno dei maggiori segreti per generar commozione e sospensione in teatro. L'autore, forse pre la natura sua un poco perplessa, non intendeva questa parte nelle prime sue tragedie, e non abbastanza ha saputo valersene nelle seguenti, fino a questa, in cui l'ha adoprata per quanto era possibile in lui.
Ed anche, per questa parte, Saùl mi pare molto più dottamente colorito, che tutti gli eroi precedenti. Ne' suoi lucidi intervalli, ora agitato dalla invidia e sospetto contra David, ora dall'amor della figlia pel genero; ora irritato contro ai sacerdoti, or penetrato e compunto di timore e di rispetto per Iddio; fra le orribili tempeste della travagliata sua mente, e dall'esacerbato ed oppresso suo cuore, o sia egli pietoso, o feroce, non riesce pur mai nè disprezzabile, nè odioso.
Con tutto ciò un re vinto, che uccide di propria mano se stesso per non essere ucciso dai soprastanti vincitori, è un incidente compassionevole sì, ma per quest'ultima impressione che lascia nel cuore degli spettatori è un accidente assai meno tragico, che ogni altro dall'autore finora trattato.

Al Nobil Uomo Il Signor Abate Tommaso Valprega di Caluso.

Da che la morte mi ha privato dell'incomparabile Francesco Gori a voi ben noto, non mi rimane altro amico del cuore, che voi. Quindi non mi parrebbe avere, per quanto io 'l possa, perfettamente compita questa mia tragedia, di cui forse a torto io singolarmente mi vò compiacendo, se ella in fronte non portasse l'amatissimo vostro nome. La dedico dunque a voi; e tanto più volontieri e di cuore, che voi, dotto in molte altre scienze, da tutti siete conosciuto dottissimo nelle sacre carte, delle quali, per la profonda vostra intelligenza della lingua ebraica, bevete al fonte.
Il Saulle perciò, più che ogni altra mia tragedia, si aspetta a voi. Che di buon grado siate per accettarlo, mercè l'amicizia nostra, non dubito: che degno di voi lo stimiate, ardentemente desidero.
Trento, 27 ottobre, 1784.
Vittorio Alfieri

 
 
 

Lisetta sparla ...

Post n°2515 pubblicato il 25 Gennaio 2016 da valerio.sampieri
 

Lisetta sparla ...

Eh! la signora je la crocchia forte! (1)
Tutti li giorni cià 'na simpatia:
prima er tenente de cavalleria
e adesso er professore de pianforte.

Er marito? Fa er tonto (2). Certe vorte
viè a casa a un'ora, pranza, rivà via,
se ripresenta pe' l'avemmaria,
rimagna, fuma un sighero e risorte (3).

Lui fa er geloso quanno vô bajocchi;
lei, che lo sa, lo pija co' le bone,
je dà la pila (4)... e allora chiude l'occhi.

Diventa bono, affabbile, gentile...
Ma che marito! Quello è un ciancicone (5)
approvato dar Codice Civile!

Note:
1 Gli dà sotto!
2 Lo stupido.
3 Riesce.
4 Il danaro.
5 Sfruttatore di donne.

Trilussa

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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