Creato da RachelDavidson il 20/09/2013

Ti Racconto

Ricordi ed emozioni da raccontare

 

 

L'UOMO: SE LO CONOSCI....FORSE LO EVITI.

Post n°4 pubblicato il 06 Ottobre 2013 da RachelDavidson
 
Foto di RachelDavidson

E poi c'è lui: l'UOMO. 

Oh, non ne ce n'è solo uno. Ce ne sono alti, bassi, mori, biondi, rossi, grassi, magri... tutti diversi li uni dagli altri. E a noidonne sembrerà persino di averne incontrato uno UNICO nel suogenere. Il nostro eroe, il nostro paladino, il riferimento assoluto della nostra vita, che farà impazzire il nostro cuore e che ci farà dire frasi da romanzo rosa del tipo: “non ho mai amato così in vita mia”. Il film del nostro matrimonio si avvierà quindi nella nostra mente non più lucida, prevedendo l'abito dei nostri sogni, i fiori, la musica ed il nostro “lui” che ci delizierà il cuore regalandoci una lacrima proprio lì, sull'altare o dovunque sia, alla visione di noi, bellissime per un giorno ed i piedi sollevati da terra di mezzo metro.

Già...

Tempo massimo 12 mesi e scopriremo un mondo parallelo in cui i calzini e le mutande avranno il dono dell'invisibilità, pur giacendo nel cassetto in bella vista; in cui maglie e giacche scompariranno all'improvviso per tornare visibili SOLO ai nostri occhi: un mistero degno di XFiles. 

Il nostro cavaliere errante si trasformerà in un Hobbit con la vista da talpa incapace di vedere tinte rosa, capelli alla dark o abiti da coniglietta sexy nonostante frecce luminose a evidenziare la novità. 

Il tempo minimo dedicato al sonno sarà equiparato a quello di un neonato e in caso di calamità naturali o atti di terrorismo ci converrà studiare un sistema automatico di espulsione, se vogliamo si alzi dal letto in un tempo utile a scampare al disastro. 

Saremo destinate a trasportare buste e pesi disumani mentre “lui”ci guarderà in sequenza prima in volto poi le mani, quindi le mani poi in volto, continuando ad occupare lo spazio oramai definitivamente ed inesorabilmente auto-assegnato del divano senza che i neuroni gli suggeriscano le seguenti mosse nell'ordine: 

  1. TUA moglie è stanca 

  2. alzati 

  3. prendi le buste 

Ma non sarà sempre così, ovviamente. Il nostro uomo ci sorprenderà, come le volte in cui ci ricorderà prontamente cosa dobbiamo fare. Che carino!! 

Così dopo esserci lavate e vestite al mattino in due minuti, portato i figli a scuola, 8 ore di lavoro, presi i figli da scuola, fatta la spesa ecco che arriverà un suo dolcissimo sms “sono a casa non mi va di uscire. Passi tu dalla lavanderia?” ed in quel preciso momento la bomba di Hiroshima diventerà in confronto una innocua stellina di Natale.  

Il marito malato è il non plus ultra nella vita di una donna. I suoi lamenti sono intercettabili dai satelliti militari causando disturbi radio e suscitando timori di invasione aliena. La “malattia” durerà giorni durante i quali occorrerà munirsi dei seguenti corredi ed accessori:

a) copertina in pile (“ho i brividi! Ho i brividi!”) 

b) pappagallo ospedaliero (“non ce la faccio ad arrivare in bagno...”) 

c) termometro ad infrarossi (“come cavolo si usa 'sto coso?“) 

d) Vassoio pronto per l'uso con tramezzini, fette biscottate,marmellata, brodo di pollo, spremuta di arance, torta della nonna, caffè, the e fiorentina al sangue (“non ho molta fame, ma se mi venisse, non ce la faccio ad alzarmi”) 

e) 5 confezioni da 25 pacchetti cadauna di fazzoletti di carta (e relativo bidone extra large per raccoglierli se non vuoi ritrovarteli anche nel cassetto del TUO comodino). 

Dopo 15 giorni di questa vita, il raffreddore sarà finalmente debellato. 

Parlar male dell'uomo/marito è come sparare sulla croce rossa. E' una specie a sé che pur composta da diversi elementi, assumono tutti le medesime abitudini e atteggiamenti. Donna, amica mia, avrai molta difficoltà a trovare eccezioni.  

Esiste, poi, la specie “rapace” ossia l'uomo in perenne caccia. Le tecniche di abbordaggio sono davvero esilaranti e con l'avvento dei social network, hanno assunto aspetti stupefacenti, ma l'elenco è davvero lungo. Di questo parleremo un'altra volta...

 
 
 

IN PUNTA DI PIEDI

Post n°3 pubblicato il 05 Ottobre 2013 da RachelDavidson
 
Foto di RachelDavidson

C'è un posto nel cuore dove bisogna entrare in punta di piedi, specie nei cuori di chi ha chiuso la speranza, induriti dal dolore. Pensava questo Roberto, entrando nel suo abituale bar per il suo quotidiano caffè prima di entrare in ufficio.

Un pensiero che non sapeva neanche lui perchè gli fosse venuto in mente. A volte pensava a se stesso come un cavaliere solitario, a volte come un cretino che vagava tra un letto e un altro di donne in cerca di distrazioni. Non esisteva una LEI. Non riusciva a trovarla o semplicemente non voleva.

Ieri sera l'ultimo "incontro". Una donna seducente e affascinante incontrata in un pub. Nome? Forse Luisa. Cognome ignoto. Il tempo di due chiacchiere e si erano ritrovati in una camera d'hotel.Lei si era spogliata appena entrati, lui avrebbe preferito bere prima qualcosa, ma non ebbe modo nè tempo di esprimere l'intenzione.

Un sesso veloce, senza troppi fronzoli, a tratti violento, fatto di godimento e sospiri. Senz'anima.

Lei gli aveva morso ripetutamente l'orecchio in modo maldestro, convinta gli piacesse e lui aveva taciuto. Che senso avrebbe avuto? Di lì a poco ognuno avrebbe chiuso le porte all'altro e addio. Ma quel movimento ripetuto gli aveva tolto la passione, costringendolo ad osservare quell'amplesso per quello che era: piacevole e stimolante ginnastica. E si sorprese di se stesso.

Quando ebbero finito, lei si rivestì con la stessa velocità con cui si era spogliata. Si girò verso di lui ancora nudo nel letto e si chinò per baciarlo su una guancia:

< Bellissimo, grazie. Forse ci si becca ancora... >

E così se ne andò sorridendo, chiudendosi la porta dietro.E lui lì, imbambolato in quel letto da cui per la prima volta dopo anni non aveva ricevuto soddisfazione. Oh.... no che la donna non fosse stata all'altezza, ma non era questo il punto. E allora qual era?

< Ciao Walter!! > entrò nell'androne del palazzo dove si trovava il suo ufficio salutando vivacemente il custode, come ogni mattina. Rivolse sorrisi e alzò la mano almeno altre dieci volte prima di infilarsi nell'ascensore. E lì sospirò. Si tolse quel sorriso forzato e restò in silenzio attendendo di arrivare al 24esimo piano.

Al terzo piano l'ascensore aprì le porte. Entrò tra gli altri una donna che continuando a rovistare nella borsa non si accorse di lui andandogli a sbattere contro rovinosamente.

 < Oh, mi scusi!! > Urlò lei con gli occhi tra lo spavento e la vergogna. Poi guardò a terra e si piegò a raccogliere quanto caduto nell'urto da quella borsa misteriosamente enorme.

Roberto ebbe giusto il tempo di dire < ma si  figuri> prima di vederla scomparire tra le gambe altrui alla ricerca dei pezzi perduti. La vedeva piegata sulle ginocchia come un gallina appollaiata farsi strada in un ascensore affollato tendendo la mano alla cieca. Aveva i capelli scompigliati, vestita confusamente e quella borsa, che ancora teneva stretta in grembo, era oramai mezza vuota e arrotolata. Ne ebbe quasi pena, come si potrebbe per una creatura abbandonata dal mondo.

L'ascensore si fermò al 24esimo piano e finalmente potè uscirne, avviandosi al suo ufficio.

< Mi scusi.... ! > Sentì alle sue spalle, ma no si voltò pensando non lo riguardasse. Poi ancora:

< Mi scusi...ehi....mi scusi per favore! > Il tono più alto, un rumore fastidioso di tacchi sul pavimento lo costrinsero a girarsi.

Era lei, la donna dell'ascensore che voleva proprio lui. Gli si avvicinò ansimando, perline di sudore le ricoprivano i contorni del naso, la borsa, ancora lei, che scendeva sulle spalle malamente. Un disastro di donna, si disse tra sè e sè.

< Mi scusi - accennando un sorriso tra il respiro affannoso - io.... ecco.... volevo scusarmi....sono stata maldestra...le avrò anche fatto male....ecco.... volevo scusarmi, sì...>

< Ma no! > provò a dire imbarazzato< No no! Volevo farmi perdonare....> gli rispose con un piglio deciso decisamente stonato con tutto quel guazzabuglio di apparenza disordinata e improvvisata.

< Ecco - riprese - mi piacerebbe offrirle un caffè.... - poi rapidamente forse perchè aveva notato lo sguardo perplesso di Roberto - no no...non ORA. Capisco forse è occupato, ma un giorno, chissà. Io lavoro qui...è il mio primo giorno di lavoro...  - e fece una risatina isterica - ecco... quindi forse ci incontreremo spesso... e quindi... che dice? >

A Roberto tutto quel dire suonò come una minaccia. Rapidamente riflettè sulla cosa: cosa avrebbe comportato incontrarla tutti i giorni in ascensore con il suo sguardo implorante che attendeva da lui una riposta? Un incubo. Quindi tanto valeva togliersi il pensiero, subito.

< No, veramente io ora sarei libero. Cioè dieci minuti, non di più. Quindi perchè no!? >

E si accorse persino lui di quanto forzato suonasse il suo tono entusiasta.

Lei prima sgranò gli occhi sorpresa, poi gli fece un gran sorriso che a Roberto ricordò quello della nipotina davanti ad un nuovo gioco da scartare.

E restò così, muta, a fissarlo per pochi interminabili secondi.

< Lei può ora? > incalzò Roberto

E come risvegliata da un sogno, accennò di sì col capo.

< Andiamo al bar di sotto? > Insistette lui. E si avviarono all'ascensore.

Lei sembrava in trance, ammutolita da tanta grazia. O semplicemente, pensò Roberto, non era abituata a sentirsi dire di sì da un uomo. Di lei, in quei pochi minuti, si era fatta un'idea ben precisa. Una donna probabilmente sola, che trascorreva le sue serate chiuse in casa a vedere un bel film da lacrime garantite, con un gatto sul letto al suo fianco, che sognava il grande amore. Una vita senza sesso sicuramente. Una donna da cui fuggire, perchè in breve avrebbe fatto di lui il proprio principe azzurro, anche senza il suo permesso.

Entrarono nel bar ed ordinò due caffè. In ascensore avevano deciso di darsi del tu - piccola concessione tanto per salvare le apparenze - e si erano presentati. Roberto, piacere. Anna, piacere. Anche il nome, si disse Roberto, da favoletta della nonna.

< Bene > esordì lei al banco, mentre aspettavano il caffè < sono felice che tu abbia accettato subito, così ci togliamo il pensiero... >

Roberto la guardò incuriosito.. come "ci togliamo il pensiero" ? Lei sembrò intuire i suoi dubbi così riprese a parlare:

< Sì, beh, conosco bene gli uomini come te. Non porti la fede, quindi non sei sposato, ma sei elegante e affascinante, avrai molte donne. Sicuramente molto diverse da me. Avevi due scelte: o continuare ad evitarmi per il futuro o accettare subito. Quindi hai deciso di "liberarti" di me in breve...>

E lo guardò con i suoi occhi imploranti attendendo un riscontro. E gli sorrideva persino...

< Io... > per la prima volta Roberto non sapeva che dire e aveva perso la sua solita sicurezza..Si sentì indagato nel suo intimo.

< Tranquillo - lo interruppe lei con tono accondiscendente - Non è niente. Non sono offesa, sono abituata. Nessun uomo mi prende sul serio, fino a quando non mi conosce almeno...>

Roberto tacque. All'improvviso quell'ammasso di abiti su di un corpo scialbo, cominciò a catturare il suo interesse..E lei sembrò capirlo. Si spostarono al tavolo e lei gli raccontò la sua vita, i suoi sogni, le sue speranze. Era una donna sopravvissuta ad un matrimonio umiliante e violento. Si era ribellata, era fuggita, adattandosi a vivere ovunque, facendo ogni tipo di lavoro pur di rendersi indipendente. Era una donna forte, risoluta, dalle idee chiare. Odiava i film d'amore e i gatti. Roberto l'ascoltò per tutto il tempo e per la prima volta non desiderò essere altrove. Quando lei terminò, fu lui a raccontargli di sè e smise solo quando entrambi si accorsero che fuori il sole era tramontato.

Allora lei si alzò.

< Devo andare > senza sorridere < è stato bello parlare con te. Ciao > Così...senza aggiungere altro.

 Roberto la vide uscire dal bar senza girarsi. Come al solito era sempre lui che vedeva le donne della sua vita uscire da una porta, ma sentì qualcosa di nuovo: una donna era entrata in punta di piedi nel suo cuore.

 
 
 

L'albero del giardino della mia infanzia

Post n°2 pubblicato il 04 Ottobre 2013 da RachelDavidson
 
Foto di RachelDavidson

Ricordo ancora quei pomeriggi d'estate, nel silenzio ovattato di un paese addormentato dalla calura. La brezza faceva ondeggiare le foglie dell'albero che troneggiava nel giardino dei miei nonni, alla cui ombra riposavano immobili un tavolo e quattro sedie di cemento, ma scolpite in modo da sembrare legno.

La maggior parte dei miei pomeriggi li trascorrevo lì, a leggere. Non dormivo come il resto della famiglia e amavo quei momenti di silenzio e solitudine, un silenzio rotto solo dal motore lontano di un trattore che lavorava lungo le pendici della collina e di tanto in tanto dal pianto di un bambino troppo piccolo per sopportare il caldo.

Erano anni in cui l'aria condizionata era solo uno strumento per hotel ed auto di gran lusso. Anni in cui il calore era una carezza dolce e sopportata; o forse erano solo anni in cui ero troppo giovane per esserne infastidita.

Intorno a me la natura era vitale, molto diversa dal paesaggio perfettamente lineare e ordinato dall'uomo, in cui vivo ora. Nessuna siepe ben tagliata, nessun giardino all'inglese la cui erba non è libera di crescere e realizzarsi, nessun albero piantato ad arte nelle giuste distanze per non disturbare il vicino. Niente di tutto questo. Intorno a me alberi liberi di espandersi su cespugli e rovi padroni dei loro spazi. Spazi condivisi con l'uomo, tra un cancello e un forno artigianale, tra un'aia rudimentale e un orto improvvisato. Tutto aiutava a sentirmi parte di quel mondo selvaggio al punto da non pensare esistesse un'alternativa, la stessa che avrei scoperto anni dopo. Nessuno si sarebbe sognato di tagliare l'edera solo perchè invadeva il giardino a fianco: era un unico mondo condiviso.

Mio nonno era il primo a svegliarsi. Scendeva le scale di lato, un piede alla volta, con i suoi pantaloni arrotolati mezzi scesi sui fianchi, la maglietta bianca e poi a passo rapido andava verso l'orto per raccogliere quella che potrei definire la sua merenda. Avremmo scoperto molto dopo l'importanza della merenda o di certi alimenti, ma per mio nonno e tutti quelli della sua generazione il cibo era qualcosa di molto importante da cogliere dalla natura, senza artifici. Lo vedevo chinato a scegliere le foglie morte e ripulire l'orto al volo, poi scegliere i pomodori pronti per essere colti e tornare verso la fontana a lavarli; quindi risaliva le scale che portavano in cucina e uscirne poco dopo con del pane bagnato: pane e pomodoro, la sua merenda.

Il pane era quello raffermo, il più vecchio, che la nonna aveva fatto la settimana prima – il pane si faceva una volta a settimana per tutti e non si buttava, si riciclava – posato nel piatto ad asciugare, condito con un filo d'olio e poco sale.

Si sedeva di fronte a me senza dire una parola e cominciava a mangiare.

Io restavo a guardare i suoi capelli bianchi radi e disordinati,quel suo modo rapido e a tratti nervoso di mangiare. Non era un piacere il suo, ma una necessità. Da anni aveva rinunciato al piacere del cibo, da quando, durante la guerra, a causa di un proiettile gli avevano ridotto di metà lo stomaco. Doveva mangiare poco e spesso.

Oggi alcuni di noi sono costretti a ridursi lo stomaco a causa dell'obesità. Tempi moderni potremmo dire, ma mio nonno non apparteneva alla modernità. Era un fascio esile di nervi e muscoli, che aveva cresciuto la famiglia una volta finita la guerra con il lavoro dei campi, due occhi color nocciola perforanti ed un sorriso ironico e sbirlengo.

“Che leggi?” mi chiese all'improvviso sempre a capo chino continuando a mangiare.

“I promessi sposi” Gli risposi dopo aver letto la copertina, quasi non ne ricordassi il titolo.

“I promessi sposi?!” Mi chiese, alzando lo sguardo col suo sorriso appena accennato.

“Sì” Gli risposi a mia volta sorridendogli “ Che c'è di strano?”

“Nulla. Ma ti piace?”

“Certo! Mi fa ridere Don Abbondio!”

“A 11 anni ti piacciono i Promessi Sposi?”

Lanciai una risata. Mio nonno conosceva bene il libro e sapeva chela maggior parte degli studenti lo odiavano essendo un testo da leggere e studiare durante il primo anno delle scuole medie.

“Mi sono fatta avanti” gli risposi “così se mi fosse piaciuto non lo avrei odiato l'anno prossimo”

“Mi sembra giusto” e continuò a sorridere e mangiare, senza guardarmi.

Ho molti altri dialoghi avuti con mio nonno da ricordare, in ogni momento della nostra vita insieme, dalla mia infanzia a quando donna gli ho parlato l'ultima volta oramai quasi incapace di riconoscermi.

Di lui ritornano sempre quei suoi occhi buoni e le parole piene di sarcasmo e acume, la sua saggezza antica che mi ha indicato tante volte la giusta via da percorrere.

Ma quel giorno, quel momento, lo ricorderò più di altri perché quella sensazione di essere amata, accettata, senza barriere non l'ho mai più provata.

 
 
 

CHI SONO?

Post n°1 pubblicato il 24 Settembre 2013 da RachelDavidson
 
Foto di RachelDavidson

Potrei essere chiunque, una formichina tra tante che ogni giorno affronta questo mondo di pusillanimi. Un essere vivente che ogni giorno al risveglio si chiede il motivo della sua esistenza su questa terra e nonostante non abbia risposta, ogni giorno decide di ricominciare a lottare. Perché vivere oggi è lottare. Lottare contro la stupidità, l'indifferenza, le ingiustizie, la paura altrui.

Ma non sono solo questo. Sono sogni, desideri, ironia. Questo sarà un lungo viaggio, un continuo altalenarsi di visioni oniriche e realtà, di "favole" o di pensieri sparsi. Perché? Perché ho voglia di urlare e di raccontare, semplicemente.

 
 
 
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