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Malvagità Paradossa

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« TERENZIOMessaggio #131 »

Post N° 130

Post n°130 pubblicato il 20 Settembre 2006 da Il_capo_dei_cattivi

Comitato per la liberazione delle storie:

Chi si appropria di una storia e vuole tenerla solo per sé, commette un furto.

Una teoria dimostrata con tre ipotesi ed un assioma (insomma ‘na palla mostruosa)

Ipotesi n°1:

Ogni singolo uomo, ogni insieme di persone da tutta la storia del tempo si accompagna con una inderogabile necessità: Il bisogno di narrare storie e di sentirsele raccontare.

E’ certo che si potrebbe provare a confutare questo mio ultimo e fulgido assioma rischiando però di snaturare definitivamente quel poco di umano che ci è rimasto tra implementazione di videofonini UMTS, cosce di mezzapunta fluidificante di fascia, conticorrenti e natiche di Velina.

L’homo Economicus (quello Sapiens che l’ha preceduto su questa terra pare si sia estinto contemporaneamente allo spegnersi dell’attività sessuale del caro Ailuropoda melanoleuca più noto come Panda gigante) si è sino ad adesso sfamato (pur rimanendone perennemente ancora famelico) di storie.

Questo trova finalmente una ragione all’esistenza di “Beautiful”, “Un Posto al sole”, “Centovetrine”, Anna dai Capelli Rossi”, “Mazinga Z”, “il Grande Mazinga” e dei loro inconsulti spettatori.

Ma non è solo questo: se il cervello della signora Susanna (che guarda regolarmente Il bello della Donne 4) e quello di Giacomino (che capisce davvero qualcosa di cos’è e come funziona Yu-Gi-Ho), non ospitasse diversi tipi di storie forse non avremmo niente di simile a ciò che siamo soliti considerare un cervello umano.

Anzi, mi piace pensare che se i nostri antenati non si fossero divertiti a narrare e a riprodurre fiabe e leggende, bubbole e realtà, miti e minchiate (oltre a sviluppare la manualità, la scienza e la tecnologia) probabilmente non ci troveremmo con un cerebro pensante fatto così come lo conosciamo.

Se è da allora che partiamo, dagli albori del uomo si potrebbe spaziare partendo da Omero o dalla Genesi della Bibbia, per attraversare la Stele di Rosetta e le tavolette in cuneiforme sumero, per arrivare all’antico poema epico indiano Mahabharata od ai Sutra tibeto-cinesi.

In tutti questi scritti (lontani nel tempo e nello spazio) troveremmo comunque e sempre l’elemento comune di chi-come-quando-perché è stata data vita all’universo, le saghe di amori e di grandi famiglie, di omicidi e drammi, grandi gioie liberazioni, lacrime, guerre, deliri onirici, indigestioni… eccetera eccetera continuando con titoli diversi ma con oggetti simili per i cinquemila anni successivi al più antico dei testi citati.

Ipotesi n°2:

Se per una volta non considerassimo questa nostra umanità barbara come centrale di tutto l’universo, ed invece giochiamo ad “umanizzare” le cose, potremmo pensare che siano le storie stesse ad aver bisogno di essere raccontate.

Nuovo abbacinante assioma questo mio. E nuovo tentativo di confutarlo che verrà facilmente smantellato.

Immaginiamo quindi uno scenario apocalittico in cui si smette in tronco di raccontare storie. Ma non solo, infatti, in quello stesso Armageddon culturale, si smette anche di stamparle, di leggerle, di metterle in scena, di immaginarle e tutte quelle altre cose lì che si fanno con le storie (incluso toccarsi nel segreto del bagno, proprio lì nell’intimo): esse sembrerebbero così destinate ad un estinzione.

Esse invece sorprendono, sembrano seguire un proprio istinto, una forza vitale che le spinge a traboccare dai vincoli imposti.

A questo titolo, in un antologia di Wu-ming 2 e Wu-ming 4, trovo un paragone interessante (che qui riporto a braccio non avendo abbastanza intelletto per trovarne la fonte originale): Le storie tendono a non accettare i limiti naturali di un singolo habitat sia esso organico, come il cervello, o inorganico, come un libro. Dal punto di vista delle storie, infatti, gli esseri umani sono soltanto un habitat molto favorevole per permettere alla specie di mantenersi viva.

Si può qui prendere dunque in considerazione, come esempio, il parente anziano, od il vicino di casa, o quello che incontrate mentre “scendete il cane che lo piscio”, insomma, abbiamo tutti da qualche parte il classico vecchio un po’ rincoglionito, cagaminchia e logorroico che ci assale pacificamente con i suoi racconti, spesso tristi, spesso “si stava meglio quando si stava peggio”, spesso senza capo ne coda, spesso antichi: ecco, se assumiamo che le storie abbiano bisogno di essere tramandate, di menti in cui riprodursi, di un terreno di coltura che permetta loro di evolversi capiamo perché  molti anziani sentono il bisogno di raccontare le loro vicende.

Sono le storie che aumentano di pressione dentro di loro sentendo l’urgenza di combattere per non morire dentro e con il loro temporaneo contenitore.

Ipotesi n°3:

La vita delle storie, seppur ora “umanizzate” ed autonome, non è però semplice.

Quando penso a questa mia ipotesi mi sembra di vedere una scena di quei filmati sulla riproduzione del Ofiuco d’acqua dolce di Quark Speciale dove gli spermatozooi sono le storie e l’ovulo è il cervello umano.

Il luogo piú ambito che tutte le storie vogliono raggiungere, è il cervello umano.

Più di amebe, tulipani e gattopardi (e di tutte le altre combinazioni creative di catene di DNA e cellule staminali) il cervello umano è l'unico luogo in cui una storia può finalmente allattarsi, svilupparsi, riprodursi.

Però, per fortuna, la nostra mente non è, allo stesso tempo, l'unico ambiente in cui una storia può vivere (dico “per fortuna” perché se penso ad alcuni dei vostri cervelli rabbrividisco dall’orrore). Esistono anche altri “supporti”, anche e su questi essa non vive, ma sopravvive: dopo le solite tavolette Sumere, i geroglifici delle piramidi, ci sono i libri di carta,poi le videocassette ed DVD (anche quelle con i tuoi filmetti zozzi), le EPROM.

Sono opportunità questi “supporti”. Opportunità che consentono alle storie di sopravvivere e raggiungere, prima o poi, quanti più cervelli possibile e tra questi “supporti”, i blog, interattivi e multimediali, confusi e rissosi, diventano sempre di più luoghi in cui le storie possono sopravvivere indipendentemente dai singoli cervelli che le hanno generate.

E’ quindi spiegata limpidamente la mia ragione che chiarisce la ragione per cui i blog hanno codesto successo, ma come spesso accade, le conseguenze di una teoria sono molto più importanti, per la sua accettazione, della teoria stessa.

Per questo è ora di passare a meglio chiarire che centrano in tutto questo agli autori, tutti questi milioni di “geni creativi” che affollano le comunità di tutto i mondo, (Dan Brown e soci in testa).

Innanzi tutto, accettata la mia tesi, si può tranquillamente ridimensionare il ruolo degli artisti, dei giornalisti e dei loro avvocateschi copyright manager.

Chi si assume il compito di raccontare le storie (che come si è già lungamente dimostrato vivono per conto loro) a parole, od in musica, od al cinema è solo un «riduttore creativo di complessità» (definizione questa, rubata al collettivo dei Luther Blisset).

Il narratore non è più un creatore ma semplicemente uno strumento, un pirla, un trasduttore, uno scatolotto che trasforma le storie di una comunità in un tormentone musicale estivo, in una soap-opera di successo, in un polpettone romantico che sbanca i botteghini, in un best-seller.

Accettare questa conseguenza della teoria in oggetto quindi pone l’umanità intera davanti ad una rinuncia: quella di non poter apporre la proprietà esclusiva sulle nostre storie.

Le storie sono di tutti. Appartengono alla collettività, ed è solo grazie ai cervelli di molte persone che possono mantenersi sane ed efficienti nella riproduzione.

Chi si appropria di una storia e vuole tenerla solo per sé, commette un furto. 

(Assioma)

Il narratore che vive del suo lavoro, non lo fa vendendo storie che sono solo sue, ma raccontando storie che sono ANCHE sue, attraverso performance o grazie ad oggetti particolari, i libri, CD ecc ecc che vengono venduti come qualsiasi altro prodotto, secondo la povertà intrinseca delle leggi di mercato.

Il contenuto della narrazione, della musica, dell’immagine invece, può soltanto essere restituito alla comunità, che deve potersene servire liberamente. Liberamente significa: pagando il giusto e quindi garantendo guadagni giusti.

Non parlo di abolizione di diritti d’autore, l’autore deve potersi mantenere in vita con il proprio lavoro almeno quanto il minatore in galleria, ma parlo di equilibrio.

Infine, le storie hanno bisogno di circolare e di replicarsi con tutti i mezzi possibili. Qualsiasi provvedimento cerchi di limitarle sotto questo aspetto è un attentato contro l'evoluzione della cultura e quindi, poiché le comunità e gli individui hanno, a loro volta, bisogno di storie, si tratta di un vero e proprio crimine contro l'umanità.

Queste implicazioni sono forse estreme. Ma forse lo sono solo in apparenza.

Tutto sommato, l'idea di “proprietà privata intellettuale” appartiene a un periodo assolutamente breve e recente della Storia e ogni giorno che passa appare sempre più come il tentativo di vincolare e ridurre una delle attività umane più naturali, collettive e irrinunciabili: raccontare il mondo attraverso le storie.

Ma non c’e certo da stupirsi di questo in un epoca in cui anche il nostro patrimonio biologico sta diventando brevetto di questa o quella multinazionale.

CONCLUSIONE:

Non temete, questo periodo di “ristrettezze” passerà, e non avverrà per opera vostra, accadrà ad opera delle storie stesse che troveranno comunque modo di sopravvivere.

 

 

 

 

 

 

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Commenti al Post:
Raymond_Radiguet
Raymond_Radiguet il 20/09/06 alle 09:45 via WEB
Quindi la conclusione qual è? Geniale come sempre caro Omero :)
 
pilarmivida
pilarmivida il 06/10/06 alle 12:47 via WEB
capo, secondo te c'è qualcuno che ha letto tutto il post?!
 
oocchidaorientale
oocchidaorientale il 14/10/06 alle 17:26 via WEB
Il capo dei cattivi se n'è andato... Se metto su una raccolta di firme si potrebbe farlo tornare con la forza?
 
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