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Antropologia del mito, del rito e dell'archetipo femminile nell'opera di Thomas Hardy. Una proposta di analisi.

Post n°55 pubblicato il 14 Dicembre 2009 da marcalia1
 
Foto di marcalia1

L'opera narrativa e poetica di Thomas Hardy sembra offrire, in pieno Vittorianesimo, un interessante orizzonte antropologico intorno alle credenze magiche ancorché ai sentimenti religiosi delle culture subalterne. D'altronde, saldamente radicato nella contea natia (il Dorset) che, insieme alle regioni sud-occidentali dell'Inghilterra, avrebbe trasfigurato nella sua arte come locus mitopoietico dell'immaginario antropologico (il Wessex), lo scrittore pare riformare in materia letteraria gran parte della tradizione popolare magico-religiosa sotto la lente culturale della credenza "mitica". Sul piano delle strategie narratologiche, un assunto preliminare di tal genere corrisponde al presupposto di 'isotopia' formulato da Greimas per il quale nell'articolazione del racconto, posto su due livelli narrativi, ad un contenuto topico dell'enunciato si trova aggiunto un contenuto correlato, nel senso globale che entrambe le sezioni discorsive divengono imprescindibili ai fini di una lettura totalizzante e profonda del messaggio mitico. Sennonché l'etnologia, specie quella della scuola demartiniana, ha di fatto spiegato come il ricorso alla pratica magica, frutto di un sapere arcaico e mai dimenticato, altro non sia che una tecnica mediante la quale l'individuo, sottomesso alle forze naturali e sociali incontrollabili, ritiene ingenuamente di poter scongiurare e risolvere la crisi della sua presenza nella storia e nel mondo: in altre parole tutte le superstizioni, le preghiere, i riti, le credenze in genere diventano un apparato "magico" con il quale è permesso alla comunità, che condivide ed accetta tale cultura, di sopravvivere alle contingenze negative del quotidiano. Proprio per la ragione allora di riformare, attraverso il romanzo e la poesia, tutto il mondo secolare di un'identità subalterna e fortemente legata ai valori tradizionali del sapere popolare, Hardy può essere considerato come un "eroe della presenza" che mette in campo, col ricorso all'immaginario fittizio dei suoi luoghi narrativi popolati da epifanie antiche, un insieme di regole "mitiche" col quale, da una più ampia interpretazione, egli se ne serve per scongiurare la fine di una natura millenaria - quella lenta e paziente legata ai cicli della terra e scandita dai ritmi celesti del sole e della luna - per offrire un orizzonte di salvezza che presume, in ultima analisi, la catastrofica intromissione dei più moderni mezzi del progresso, segni iconografici del disvalore di una nuova cultura accerchiante e distruttiva. D'altronde, seguendo l'indirizzo ermeneutico proposto da Michail Bachtin, il macrotesto narrativo hardiano potrebbe ascriversi alla categoria letteraria del cosiddetto «romanzo di prove», ove tutto l'intreccio pare snodarsi attorno alla lotta dell'eroe con il mondo e all'affermazione sociale o meno di sé. Pertanto, in una lettera datata 1902 e indirizzata allo scrittore Rider Haggard, Hardy commentava amaramente le avvisaglie minacciose di un mondo 'mitico' in deleteria trasformazione, oltraggiato com'era dalla perdita dell'identità storica e soprattutto della memoria collettiva di un passato che si era trascinato, fino allora, indenne da aliene contaminazioni: «For one thing», notava, «village tradition - a vast mass of unwritten folk-lore, local chronicle, local topography and nomenclature - is absolutely sinking, has nearly sunk, into eternal oblivion».

Di fianco a questo arsenale di ritualità magiche e di credenze superstiziose, l'opera di Thomas Hardy implica poi un forte richiamo alle immagini interiorizzate della donna, che la psicologia del profondo identifica come "archetipi" collettivi o configurazioni del principio femminile. Diverse protagoniste dei suoi romanzi incarnano aspetti contrapposti di tale principio, sempre però riuniti sotto il segno uterino e globalizzante della Grande Madre psichica, la quale si configura nell'inconscio come un'epifania potente che agisce a livello inconsapevole nelle percezioni umane. Nella mia tesi di laurea, dal titolo Miti ed archetipi in Tess of the d'Urbervilles di Thomas Hardy, avevo analizzato la figura della protagonista, Tess, avvalendomi di questa categoria interpretativa. Si era venuta così a delineare non solo la figura di una «Pure Woman» in possesso di una grande forza di volontà che, quantunque soggiogata dall'inerzia tipica di una fatalista, aveva saputo sfidare sia la prepotenza virile sia la condanna borghese, ma anzi ne era emersa l'immagine arcaica di una donna mitologica che al contempo evocava consapevolmente almeno tre modellizzazioni inconsce della costellazione archetipale femminile: l'oscura potenza tellurica dei cicli vegetativi della rinascita, quale Demetra, il mistero oscuro dei riti lunari arcaici come Artemide ed infine la sacralità di un'antica vestale-sacerdotessa nella celebrazione sublimata di una misteriosa liturgia autosacrificale (l'immagine di Tess dormiente sulla Pietra del Sole a Stonehenge). Oltretutto, anche l'ultima opera narrativa hardiana (Jude the Obscure) pare reggersi sopra le dicotomie archetipologiche della donna, che nel romanzo divengono effettivamente categorie narrative simmetricamente differenziate: infatti, mentre Arabella Donn è l'epifania palese dell'archetipo afroditico, ovvero esprime la sessualità "materica", voluttuosa, infranta dai tabù imposti, insomma essenza, a dire una donna-corpo, Sue Bridehead all'opposto si configura come una donna-anima, essendo protesa alla contemplazione intellettuale, alla spiritualità, quasi una creatura eterea, impalpabile, la cui natura prettamente algida e distaccata produrrà fatali conseguenze su Jude, la controparte virile.

La mia proposta di ricerca verterebbe dunque sull'approfondimento critico ad all'analisi, secondo i principi comparativi dell'antropologia culturale, del "macrotesto" hardiano intorno agli aspetti magico-religiosi presenti nei suoi lavori narrativi e poetici, nonché alla ricerca ed all'interpretazione dell'archetipo femminile, il quale sembra attraversare la sua opera come cifra tipica della modellizzazione antivittoriana della donna. Non solo. Proprio in virtù di questa presenza onniricorsiva del femminile, presenza che non è mai lasciata sullo sfondo della vicenda narrativa, risulterebbe non priva di spunti critici un ulteriore raffronto delle protagoniste femminili nell'opera di Hardy con quelle dei romanzi di D.H. Lawrence, che è accomunato proprio al primo non solo perché Lawrence stesso dedicò ad Hardy uno studio incentrato sul tentativo di definire con precisione le nozioni di mascolinità e femminilità, quanto a maggior ragione nella pratica della riplasmazione letteraria del corpo, che da soggetto passivo, secondo la morale puritana e fallocratica del Vittorianesimo, assurge invece ad agente attivo, fortemente vissuto come desiderio carnale, bramato sessualmente, morbosamente attrattivo, tutti motivi che paiono dunque proiettare Hardy verso le istanze moderniste, collegandolo perciò a Lawrence finanche nella riproposizione di una teologia carica di reconditi significati sessuali, realizzata per esempio nel racconto The Man Who Died, laddove l'atto misterico diventa rito religioso in cui la donna-archetipo svolge un ruolo di primo piano nella vicenda religiosa del Cristo risorto. Sul piano metodologico, l'approccio ad un simile progetto di ricerca sarebbe configurato intorno ai concetti del magico e dell'archetipo dell'inconscio, rispettivamente formulati da Ernesto de Martino e Carl Gustav Jung. Simili categorie interpretative permettono anche l'analisi approfondita del "sogno", artificio retorico presente in Hardy a più riprese, sia in ambito narrativo (per esempio nel racconto The Withered Arm nonché nel romanzo Tess of the d'Urbervilles) sia in ambito poetico, in cui la sospensione del tempo e delle azioni indotte dallo stato onirico offrono lo spunto per una evocazione inconscia di un'era pagana mai del tutto svanita nel corso della storia religiosa, quella del druidismo celtico (come sembrerebbe emergere nella poesia The Shadow on the Stone). Se dunque il macrotesto hardiano può essere incluso nella categoria del "tragico", allora si comprende meglio la struttura del dramma mitico nella sua opera. Difatti inizialmente tutti i drammi erano sacri e magici, perché implicavano l'idea centrale del sacrificio eroico. Ma soprattutto la tragedia, che secondo l'etimo greco più accettato significherebbe 'canto del capro' in riferimento alla plasmazione culturale di origine totemica di Pan o Dioniso, come dramma vero e proprio si legherebbe non tanto alla tragica azione scenica quanto piuttosto all'estasi religiosa, propriamente in relazione al sogno: di fatto, 'dramma' è giustamente affine all'inglese dream, 'sogno', analogia presente anche in altre lingue germaniche come il norreno draumar ed il tedesco Traum. Simile identità semantica può spiegare probabilmente la tragica natura sacrificale delle sue eroine, come per esempio Tess in dormiente attesa dei gendarmi sulla Pietra del Sole a Stonehenge. Sembra pertanto sussistere nel macrotesto hardiano una relazione enunciativa tra l'azione drammatica e il sogno: ma come dramma sacro vero e proprio, il sogno si legherebbe pertanto in Hardy non tanto alla tragica azione scenica, nel senso originario greco di drâma (azione) quanto piuttosto all'estasi come dream, propriamente ad uno stato modificato di coscienza. Gli studi di linguistica, grazie soprattutto al merito di Louis T. Hjelmslev, hanno proposto una bipartizione fra i linguaggi cosiddetti di denotazione e i linguaggi propriamente di connotazione, intendendo con la seconda categoria non tanto l'interpretazione letterale dell'opera quanto piuttosto ciò che viene chiamato, a seconda dei casi, 'senso profondo' e 'senso simbolico' impliciti nell'arte dell'enunciazione narrativa. Questa distinzione fra i due ordini di significazione, apparentemente scontata, chiama però in causa il serio problema di fondo in merito alla diegesi descrittiva che è dicotomizzata - secondo il ben noto approccio ermeneutico di Genette - per un verso all'ordine 'decorativo' e dall'altro all'ordine 'esplicativo e simbolico', quest'ultimo di tipo connotativo perché teso appunto a rivelare e a giustificare la messa in scena dei personaggi come segno, causa ed effetto della descrizione. Non a caso Hardy muove proprio intorno alla confutazione estetica del cosiddetto 'naturalismo realistico' ed al lavoro indirizzato in tal senso dal roman expérimental suggerito, sotto la spinta del processo empirico delle scienze, da Émile Zola. Di per sé, la stessa esperienza si caratterizza come una fantasmagoria; pertanto, secondo Hardy, l'accumulazione fallimentare dei dettagli naturalistici intenzionati a mostrare scientificamente la realtà oggettiva si risolve poi alla lunga nella dimostrazione di un'illusione ulteriore. La più profonda verità esiste perciò solo in virtù di quel narratore che sia dotato della capacità di catturare il significato sepolto nell'opera. L'essenza intima di un oggetto, la quidditas della sua natura, per Hardy null'altro sono che un'emozione che esse sanno procurarci; a dire una percezione, an unadjusted impression, un'impressione trascendentale appunto, che come l'inscape di Hopkins, l'epifania di Joyce o il correlativo oggettivo di T.S. Eliot rappresentano immagini interiori, verità profonde, situazioni del reale che assommando in sé una valenza semantica nascosta, siano in grado di trasmettere al lettore l'intima unicità delle cose. D'altronde è stato fatto notare che, lasciando ampio spazio all'emotività del lettore, «la voce hardiana [...] pare proiettata verso l'istanza modernista». Sennonché, di ciascuna impression percettiva hardiana dettata all'indagine narrativa di quegli aspetti magico-religiosi e mitici della natura umana, il mondo vittoriano analizzato dallo scrittore diventa il paradigma assoluto di ogni ricerca basata sull'antropologia ed i prodotti fantastici generati dell'inconscio.

 

 
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