Creato da saulferrara il 08/04/2012

Saul Ferrara

Diario di uno scrittore

 

 

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Sul Morbido Guanciale della Follia

Post n°4 pubblicato il 12 Aprile 2012 da saulferrara

 

Racconti tratti dalla raccolta “Sul Morbido Guanciale della Follia”

   Neve Appena Caduta

 

 

 

Racconterò per l’ennesima volta come si sono svolti realmente i fatti, anche se questi non sembrano avere nulla a che fare con la realtà. A memoria d’uomo era stato l’inverno più rigido che si fosse mai registrato nell’intera regione; per giorni aveva nevicato incessantemente, con una abbondanza tale da rendere impraticabili le vie principali ed interrompendo così ogni collegamento con i paesi vicini. In seguito ci fu riferito che dalla valle era addirittura impossibile distinguere il nostro paesello abbarbicato sulla cima dei monti dal resto del paesaggio, perché la neve aveva coperto tutto trasformando l’orizzonte in una vasta distesa bianca. La taverna del Cacciatore era l’unico posto dove non si pativa il freddo e fu lì che la vidi. In piedi, davanti al bancone, stringeva con entrambe le mani una tazza fumante e prima di avvicinarla alle labbra per sorseggiarne la bevanda contenuta, soffiava il fumo stringendo la bocca a forma di cuore. I suoi lineamenti erano chiari e delicati come neve appena caduta. Bella, distante e pericolosa come una rupe, sembrava volermi chiamare a sé. In un piccolo centro dove tutti gli abitanti si conoscono fin dalla nascita un forestiero non solo si nota subito ma desta una sorta  di diffidente curiosità, e quella donna, avvolta da un mantello di pelliccia bianca, emanava un così misterioso magnetismo che io me ne sentii subito attratto come una falena dalla luce. Messa da parte la mia inguaribile timidezza mi avvicinai e le dissi “E’un tempo da lupi!” pentendomi subito per la banalità della frase. Lei mi sorrise dolcemente e poi rivolgendo lo sguardo verso la finestra disse “Il laghetto sicuramente si sarà gelato, deve essere bellissimo. Vorrei vederlo“. La donna con una pausa studiata aspettò che le sue parole facessero presa su di me, lasciandole aleggiare come docili aquiloni spinti dal vento. Chiunque, anche uno un po’ imbranato come me avrebbe colto in quel discorso apparentemente casuale un invito e subito mi offrii di accompagnarla. Una volta rimasti da soli cercai di soddisfare la mia curiosità, domandandole come fosse riuscita a raggiungere il nostro paese in quei giorni di bufera. “Sono scesa dall’alto!” rispose con un tono tanto severo da ammutolirmi e così, in silenzio, ci incamminammo verso il laghetto. Durante il tragitto, senza farmi vedere, osservavo con rapidi movimenti degli occhi il profilo imbronciato della donna; sembrava preoccupata, come se dovesse affrontare un lungo viaggio e non una, se pur difficile, passeggiata nei boschi nelle prime ore di un pomeriggio di sole. Quando passava vicino ad un albero o a qualunque altra cosa che interrompesse con una variazione cromatica il candido paesaggio nevoso, sembrava che questi colori, come deformati da una lente, gli attraversassero le guance come se fossero trasparenti: il suo volto sembrava fatto di finissimo cristallo. Riprese a nevicare e la neve appena caduta era così soffice da rendere più faticosa la marcia, ma quella misteriosa donna continuava imperturbabile a camminare verso la meta, senza mostrare alcun segno di stanchezza. Qualche volta si allontanava di alcuni metri dal sentiero per fermarsi a gesticolare senza parlare in direzione degli alberi, e fu in occasione di una di queste brevi deviazioni che mi accorsi che i suoi piedi non affondavano nel delicato tappeto di neve. Mi voltai per osservare il tratto di bosco che fino ad allora avevamo percorso, notando subito che dal candore della neve spiccavano i segni scuri di una sola fila  di orme: le mie.  Prima non avevo dato troppo peso all’apparente trasparenza del suo volto, attribuendo quel curioso fenomeno ai bizzarri scherzi della rifrazione che si possono verificare in presenza di neve e ghiaccio, ma come potevo ignorare o spiegare l’assenza di impronte? Il mio primo impulso fu quello di scappare a gambe levate, allontanandomi il più presto possibile da quella creatura, ma la paura mi paralizzava. Poi, riflettendo, mi convinsi che se l’avessi accompagnata fino al laghetto, distante ormai poche centinaia di metri, mantenendo così il mio impegno, lei mi avrebbe lasciato andare via senza farmi del male. E così feci. Il lago ghiacciato sembrava un disco d’argento su cui i riflessi della luce del sole, verticalizzandosi, formavano una colonna di una luminosità accecante. Quel fascio di luce si alzava maestoso fino al cielo, fondendosi con le poche nuvole, che gonfie e dense, si stavano dilatando fino ad avvolgere in un ampio abbraccio la terra. “Va via non perdere tempo, i lupi hanno sentito la tua presenza!” mi disse, prima di immergersi in quella colonna di luce, scomparendo così alla mia vista. “Lupi?!  Non ci sono lupi in questa regione, l’ultimo è stato ucciso un secolo fa!” dissi ad alta voce, rivolto più a me stesso per incoraggiarmi che alla donna, ormai svanita come un fiocco di neve caduto su di una cima innevata. Non feci in tempo a concludere la frase che si alzarono inequivocabili degli ululati minacciosi. Stentavo a crederci, non c’erano lupi in questa regione, ed anche se ci fossero stati non avrebbero mai attaccato un uomo di  giorno, ma avevo assistito a troppe cose inspiegabili per fidarmi della ragione e così scappai. Corsi a rotta di collo lungo lo stretto sentiero, rischiando più volte di scivolare e finire rovinosamente contro i rami bassi degli alberi, e correndo ripetevo nella mia mente, come facevo da bambino prima di addormentarmi, una vecchia filastrocca che si recitava per tenere lontano l’uomo nero. I miei più terribili incubi infantili stavano prendendo forma nella realtà, ed io mi opponevo ad essi difendendomi con le stesse armi puerili che usavo da bambino. Durante la fuga, preso da una paura indicibile, misi un piede in fallo ed iniziai a rotolare sulla neve una, dieci, cento volte. Pensavo che non mi sarei mai più fermato ed avrei continuato a girare per sempre come una biglia impazzita, quando una staccionata di legno arrestò quel vorticoso moto. L’urto contro i paletti fu forte ma mai quanto la sorpresa di scoprire lì vicino l’esistenza di una piccola abitazione dal tetto spiovente. Conoscevo quei posti come le mie tasche ed ero pronto a giurare che in quel punto preciso non c’era mai stata una casa, grande o piccola che fosse. Per fortuna, tranne che per delle contusioni, non avevo niente di rotto e mi alzai dolorante ma tutto intero. Dalla casa uscì un uomo curvo, ingobbito, che per aiutarsi a camminare utilizzava una lunga scure come bastone. Si avvicinò e fissando i miei abiti con occhi che per via delle pesanti rughe erano ridotti a sottili fessure esclamò: “Tu devi venire dal dopo!Su entriamo”. La piccola abitazione era arredata solo da un lungo tavolo rettangolare, due sedie e un pagliericcio, e gli utensili, anche se sparsi sul pavimento, sembravano posti secondo un certo ordine. “Il mio compito è quello di dare ospitalità a chi si perde” disse il vecchio “Qui spesso capita gente del prima, sono molto rare le visite di quelli del dopo. Come si vive nel tuo tempo?” “Bene” balbettai, non comprendendo il senso delle sue parole. Il vecchio mi offrì del formaggio e un pezzo di pane su una ciotola di legno ma sentendomi troppo stanco e confuso per mangiare, rifiutai il cibo ed accettai il vino che sorseggiai direttamente da una piccola anfora di terracotta. “Ora va a dormire. Domani non nevicherà” disse, indicandomi il misero giaciglio. Mi addormentai subito, scivolando in un profondo sonno privo di sogni, in uno stato di quiete che ora rimpiango di aver irrimediabilmente perduto. Doveva essere qualcosa di molto simile al nirvana di cui parlano i buddisti, la pace infinita del nulla assoluto, e non perdonerò mai l’energumeno che mi risvegliò (lui sostiene di avermi salvato), per avermi sottratto a quel dolce vuoto. Con le sue mani callose prese a scuotermi finché non mi svegliai e, aperti gli occhi, notai subito che la casa e il vecchio erano scoparsi. Mi trovavo sdraiato sulla neve con quell’uomo sopra di me, che non faceva altro che chiedermi come stavo e cosa fosse successo, ed io iniziai a raccontare per filo e per segno tutto quello che era accaduto, ed oggi, a distanza di anni, non faccio che ripetere e ripetere lo stesso racconto. Adesso sono stanco e vorrei ritrovare la dimensione magica di quel sonno interrotto troppo tempo addietro, ma anche qui, in questa stanza dalle pareti bianche e morbide come neve appena caduta, non mi vogliono lasciare in pace: più volte al giorno entra un uomo in camice bianco che vuole che io ricominci daccapo a raccontare.

 

 

 

Numero 11

 

 

 

Allargare il passo… devo allargare il passo… senza perdere la frequenza… il respiro si rompe tra le tempie… li ho alle calcagna… sono vicini…sono maledettamente vicini.

 

Avevo appena due anni quando mia madre mi portò in collegio, affidandomi alle mani nodose di quattro suore ed alle loro storielle del cazzo fatte di angeli invisibili, tutti presi a spiare e a denunciare le mie cattive azioni, e naturalmente c’era anche il lupo malvagio, sporco e con gli occhi gialli, che veniva di notte a prendere i bambini disubbidienti per mangiarseli. Quando serravo forte la bocca, rifiutandomi di ingurgitare le porcherie che ci passavano, le suore si facevano più serie del solito e minacciavano “ Se non mangi tutto stanotte verrà il lupo a prenderti”. Poverine, erano convinte che mi cagassi addosso! Se solo avessero sospettato che la cosa che più desideravo allora era proprio quella di essere rapito dal lupo, per sparire con lui nel suo regno di zolfo! Nel collegio rimasi fino all’età di dodici anni e durante tutto questo periodo, di mia madre conobbi soltanto il suo profumo tenue, quasi privo di carattere, e quelle odiose caramelle che s’incollavano sempre al palato, dono immancabile delle sfuggenti e rare visite che mi faceva, durante le quali mi prometteva senza convinzione che sarei tornato a casa. Casa? Ma se non sapevo neanche cosa fosse una casa! Ero cresciuto in quel cazzo di collegio fatto di lunghi corridoi pregni dell’odore inconfondibile del disinfettante e da enormi camere bianche, bianche come il latte e senza un disegno, dove le suore con la loro tonaca nera spiccavano come ombre di avvoltoi. Poi, prima di andarsene, mi carezzava la testa rasata ed io speravo che non tornasse più.

 

Più veloce, sempre più veloce… non posso farmi raggiungere, non ora, non questa volta…Il sudore cola dalla fronte, la gola è arsa, e queste gambe dure come se fossero di legno… ma io ho imparato ad ignorare, so ignorare tutto.

 

Durante l’intera permanenza nel collegio mi fu assegnato un numero, l’undici. Lo trovavo ovunque, dominava, scritto con un pennarello rosso, sopra la testiera del letto su cui dormivo; era ricamato sulle mutande, sui calzini, in tutti i miei indumenti ed era perfino rozzamente inciso sulle mie posate, e col tempo questo numero diventò per me un secondo nome. Gli altri bambini erano tutti più grandi di me e questo mi creò molti problemi, non tanto durante le ore di lezione in aula quanto nelle ore ricreative: ero considerato il moccioso che puzzava ancora di latte e non mi lasciavano giocare con loro. Così, da solo, iniziai a correre intorno al collegio. Lo facevo senza fermarmi, finché non mi chiamavano per rientrare in classe. In poco tempo imparai tutto di quel piccolo percorso, il dislivello delle mattonelle, le pietre insidiose che affioravano dal terreno e le crepe delle aiuole. Correvo, correvo sempre di più ed intanto le mie gambe si irrobustivano.

 

Sto correndo come non ho mai fatto prima… Vincerò. L’ho capito quando alla partenza mi hanno dato il pettorale con il numero undici.

 

Uscito dal collegio le cose per me peggiorarono. Non potevo più correre. I parenti sostenevano che se lo avessi fatto la gente del paese avrebbe sicuramente pensato che ero un po’ svitato. In quel cesso di provincia il pensiero della gente era ovunque, come la merda di cane, e per non lordarti dovevi stare immobile. Lavoravo nell’officina di mio cognato, un uomo rozzo dai baffi setolosi che lo facevano rassomigliare ad un cinghiale. Ovviamente non ricevevo nessuna retribuzione, ma lui, in cambio mi avrebbe offerto la sua esperienza ed insegnato a vivere una vita normale, fatta di feste di piazza, partite al biliardo e tante, tante schedine. Mio cognato sapeva tutto del mondo; riusciva a posteggiare senza nessuna difficoltà nel piccolo spazio del garage e prima di chiunque altro ad individuare un fuorigioco.

 

Un giorno una giornalista mi domandò a che cosa penso durante una maratona. << A correre.>> risposi, ma in verità avrei dovuto risponderle che penso solo a scappare dal mio passato.

 

Poi vennero loro, gli aghi, le medicine, le mani forti per trattenermi. L’ignoranza e la cattiveria mi hanno rubato una parte della mia vita. Quei giorni, nei miei ricordi, sono come tanti fotogrammi di una pellicola non impressionata.

 

Mentre corro le persone mi incitano, urlano che sono il primo. Davanti a me è rimasto solo il tappeto blu che segna gli ultimi metri dall’arrivo. Gli spettatori si stanno preparando ad accogliermi con uno scroscio di applausi. Quando taglierò il traguardo aprirò le braccia, le alzerò al cielo affinché  tutti dicano che oggi ha vinto il numero undici.

 

 

 

Il Ponte

 

 

 

Luigi contava i giorni con le dita, ogni giorno un dito, ogni dito un giorno. Mancavano soltanto tre giorni ed egli fissava attonito quelle tre dita alzate per poi subito chiuderle, stringendo con forza il pugno fino a sentire le unghie premere contro il palmo, come se bastasse nascondere le dita per far scomparire il tempo, le mura e tutto quello che era accaduto. Durante quei lunghi mesi di internamento che con velata ipocrisia viene chiamata degenza, Luigi non aveva fatto altro che pensare a Clarissa ed al roseo ovale dei suoi capezzoli che risaltavano su quella pelle bianca e profumata come lenzuola lasciate ad asciugare al sole, eppure viziosa ed impura come lo sperma che Luigi, masturbandosi, spruzzava frettolosamente sulle mattonelle del cesso prima che un infermiere entrasse a controllare cosa stesse facendo. Clarissa non era mai andata a trovarlo, forse ancora scossa per quello che aveva visto. Quel giorno maledetto, purtroppo, c’era anche lei quando aveva cominciato a scalciare e sbavare come un cavallo imbizzarrito che lotta con il morso nel tentativo di liberarsi dalle briglie. A Luigi ogni giorno veniva comunque recapitata una sua lettera che egli senza aprire posava delicatamente sulle altre formando una piccola torre di carta. Clarissa certo non poteva sospettare che per colpa dei farmaci che gli somministravano Luigi riuscisse a malapena a trovare la concentrazione necessaria per leggere il nome del mittente, ma per lui il fatto di sapere che quella donna non lo aveva dimenticato come tutti gli altri era stato sufficiente a farlo sopravvivere in quel posto. Durante l’ora ricreativa che trascorreva nel piccolo parco adiacente alla casa di cura, Luigi aveva preso l’abitudine di osservare criticamente quello che facevano gli altri pazienti, come per studiarne il comportamento, e da questo concludere che lui non era e non sarebbe  stato mai come loro. Mario, ad esempio, tentava ogni giorno senza riuscirci di costruire un ponte con pietre, ramoscelli e tutte le cartacce che trovava sparse per terra. Secondo Luigi quel ponte in miniatura non era altro che l’estremo tentativo di ridurre il vuoto che esiste tra il malato e la normalità: pertanto il ponte serviva a Mario per attraversare l’abisso e, abbandonando la sponda del buio, raggiungere quella della luce. “Un pazzo osservando un altro pazzo può forse giungere a queste conclusioni? Certo che no!” diceva a se stesso Luigi. “Quindi io non sono pazzo, ma vittima di un errore!”. Quel giorno queste sue riflessioni furono interrotte bruscamente dal capoinfermiere, un omone che faceva pensare più a un macellaio che a un paramedico. Rino, questo era il suo nome, anche d’inverno usava tenere le maniche del camice arrotolate sopra i gomiti per mostrare i suoi avambracci forti e possenti, ed il messaggio che voleva inviare con quello sfoggio di muscoli era molto chiaro: “Con me non si scherza”. << Sei atteso nella sala visite.>> gli disse senza guardarlo. La sala visite era un’ampia stanza arredata soltanto da tre tavoli ovali di plastica, come quelli che si usano nei giardini, e da una ventina di sedie ognuna diversa dall’altra per forma e colore. Seduta ad aspettarlo dietro uno dei tavoli c’era Clarissa, ma l’entusiasmo di Luigi scomparve immediatamente quando lei, senza alzarsi, gli fece cenno di accomodarsi su una sedia posta davanti alla sua, lasciando così che il tavolo si interponesse tra loro. << Fra tre giorni ti dimetteranno.>> esordì Clarissa, con una voce tanto pacata da risultare estranea a Luigi, e dopo un piccolo sospiro riprese a parlare con quel suo nuovo tono monotono. Luigi ascoltava con attenzione il suono della voce lasciando che le parole inudite scivolassero lontano come foglie sospinte dal vento. Una pausa più lunga del solito gli fece capire che Clarissa aveva concluso il suo discorso, ed infatti la donna, alzandosi, gli passò velocemente una mano sul volto e fece per andarsene. In quella carezza non c’era più la passione di un’amante ma quel triste affetto che si può provare per un gattino cieco. Luigi prima di lasciarsi andare in un pianto liberatorio attese che il ticchettio dei tacchi a spillo di Clarissa fosse inghiottito dal ciabattare senza meta degli altri pazienti, che imperterriti vagavano lungo il corridoio. Senza asciugarsi le lacrime ritornò nel parco e raccolte due lattine ammaccate, le riempì di terra e poi rivolgendosi a Mario disse << Questi sono i pilastri. Vedrai che questa volta riusciremo a finirlo.>>

 

 

 

 

 
 
 
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