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Silvio Antonini

Parole, suoni e altro dalla Tuscia

 

 

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Valerio Piccioni, MANLIO GELSOMINI, CAMPIONE PARTIGIANO. La recensione

Post n°4 pubblicato il 20 Marzo 2014 da Ferdinandobiferali44
Foto di Ferdinandobiferali44

Valerio Piccioni, Manlio Gelsomini, Campione partigiano, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2014, pp. 174, € 14,00.

di Silvio Antonini

Valerio Piccioni, romano, giornalista presso la “Gazzetta dello sport”, rappresenta a pieno titolo quei cronisti e quegli scrittori capaci di andare oltre la mera cronaca e raccontare persone, luoghi e momenti delle attività agonistiche divenuti crocevia di vicende umane, politiche e sociali nella storia contemporanea.

Un’inchiesta sul doping del 1997 gli è valsa il Premio Saint Vincent. Su sua iniziativa, nel 2000, è stata istituita la Gara podistica in memoria del maratoneta-poeta argentino, desaparecido, Miguel Benancio Sanchez. Nella sua bibliografia si annoverano pubblicazioni sul Pasolini sportivo, sullo stadio Paolo Rosi di Roma e sul maratoneta etiope Bikila.

Stavolta, a catturare l’attenzione del cronista, è la storia di Manlio Gelsomini, tra i 335 assassinati alle fosse Ardeatine la mattina del 24 marzo 1944. Una Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, di cui una copia è appuntata sulla bandiera del Comitato provinciale di Viterbo, perché Manlio aveva contribuito ad organizzare nella Tuscia la Lotta partigiana.

La monografia integra e approfondisce quegli aspetti accennati appena, o trascurati del tutto, nei martirologi che poco dicono sull’avventura umana di questo medico e atleta che, riporta la motivazione della Medaglia: “Barbaramente trucidato insieme agli altri martiri delle Fosse Ardeatine, donava, sublime olocausto, la sua vita fiorente per la salvezza dei compagni di fede e per il riscatto della Patria oppressa”.

Manlio Gelsomini, nato a Roma il 7 novembre 1907 (dieci anni esatti prima della Rivoluzione d’ottobre); nel 1921, quattordicenne, aderisce al fascismo. Compie gli studi liceali ad Ancona, quando si manifesta in lui l’interesse per diverse discipline sportive, in particolare per l’atletica, da velocista. In questa veste, nel 1927, è iscritto d’ufficio alla nascente As Roma, fusione tra più gruppi sportivi della Capitale. L’atleta universitario Gelsomini, per la velocità, “impressiona in pista e fuori” e consegue diversi premi. L’anno dopo si tengono a Parigi i Mondiali universitari e le delegazioni italiane sono oggetto di contestazioni da parte degli antifascisti. Durante la partita Italia - Cecoslovacchia è proprio Gelsomini a menare le mani contro i contestatori, ottenendo l’encomio dalla Federazione italiana di atletica leggera del Lazio “a ricordo del doveroso gesto compiuto”. La carriera velocistica cede però il passo agli studi in medicina per cui Manlio si laurea a Siena nel 1931. Ammesso alla Scuola di sanità militare di Firenze, si congeda con il grado di sottotenente. Torna a Roma e apre un proprio studio medico. Poi verrà la guerra e nella coscienza del promettente medico deve succedere qualcosa. Le motivazioni che portano i tanti a passare dal fascismo all’Antifascismo sono molteplici. C’è quella che in sede storiografica sarà chiamata “sinistra fascista”: la fronda sindacale e studentesca, ora censurata ora tollerata dal regime, insofferente verso un fascismo che di antiborghese aveva solo le formalità e, perciò, guarderà al comunismo nel nome di una vera rivoluzione sociale. Poi c’è chi, dinanzi alla Guerra d’Africa, di Spagna, e mondiale, inizierà a provare un disgusto che, man mano, si trasformerà in aperta avversione. Sta di fatto che Gelsomini, il 9 settembre 1943, sarà a porta S. Paolo a difendere la città dai tedeschi. Da quel luogo inizia la sua attività cospirativa che lo vedrà come esponente di spicco della Resistenza nel Lazio. Per essa metterà a disposizione tutte le sue conoscenze e le sue ricchezze, cioè i proventi dal brevetto d’un suo farmaco per aumentare il ferro nel sangue. Dagli scritti giunti a noi, il pensiero di Manlio sembra vagheggiare una sorta di comunismo cristiano senza esplicitare una precisa collocazione politica. Sarà, comunque, lui a guidare il Raggruppamento monte Soratte, vale a dire il coordinamento della bande partigiane del Cln operanti nell’Alto Lazio. Poi l’arresto, il 13 gennaio 1944, in un bar sulla via Flaminia; un tradimento in circostanze misteriose com’è stato per altri protagonisti della cospirazione partigiana finiti nelle mani degli aguzzini nazisti a Roma. Da qui la detenzione in via Tasso, le torture e, infine, la morte, a trentasei anni, nelle cave Ardeatine, carnaio rappresentativo di tutta l’umanità e di tutte le forze che avevano animato l’Antifascismo e la Resistenza. Il nome di Gelsomini tornerà alle cronache il 12 giugno del 1948, nel processo contro Kappler, quando la madre, Sparta, anch’ella detenuta dai nazisti per rappresaglia, inizia ad inveire contro il gappista di via Rasella, Rosario Bentivegna, accusandolo della morte del figlio per non essersi consegnato come i nazifascisti avevano chiesto. Un bando mai esistito, un falso che la propaganda aveva fatto assurgere a verità.

Il libro, piacevole alla lettura, si basa su fonti giornalistiche, bibliografiche, testimonianze orali ed archivi pubblici, tra Roma e Viterbo. Alla ricerca delle persone, dei luoghi e delle carte è dedicato un intero capitolo in appendice. A fare, infine, da leitmotiv è la suggestione che suscitano i confronti tra i documenti (impressionante quello tra la scheda medica della visita di leva e il referto del recupero della salma), i luoghi della micro e macrostoria e le ricorrenze, le coincidenze del tempo, perché, si scrive, le date hanno un’anima.

 

 

 
 
 
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