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Terrorismo internazionale:

Post n°6 pubblicato il 11 Gennaio 2009 da Avv.FAZZARI
 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

Sentenza 4 luglio - 22 ottobre 2008, n. 39545

(Presidente Pizzuti - Relatore Amato)

Motivi della decisione

[Vari] sono stati condannati alle pene di giustizia dalla Corte di assise di Milano per associazione con finalità di terrorismo internazionale (riconosciuta per il primo ed il terzo imputato l’ipotesi meno grave di cui all’art. 270 bis, c. 2, cp), ricettazione di falsi documenti di identità e procurato ingresso illegale di persone nel territorio dello Stato (art. 110 cp, 12, c. 1 e 3 d.lgs. n. 286/98).

La Corte di assise di appello assolveva M.M. dal delitto di cui all’art. 648 cp, riducendo la pena e confermava nel resto.

I prevenuti - secondo quanto accertato dai giudici di merito - hanno fatto parte, dal luglio '01 al novembre '03, della organizzazione sopranazionale A. al I., che, nel quadro della Jihad islamica, ha provveduto al proselitismo, al reclutamento di persone ed alla raccolta di finanziamenti allo scopo di preparare ed eseguire azioni terroristiche contro governi, forze militari, istituzioni degli Stati considerati “infedeli”.

L’attività di indagine è stata avviata dopo la critica situazione determinatasi a seguito dell’attacco di Al Qaida alle Twin Towers di New York in data 11.9.01.

Sono state svolte intercettazioni telefoniche ed ambientali, acquisite le deposizioni di appartenenti alla Polstato (vicequestore M.), all’Arma dei Carabinieri (capitano Palmieri), alla Polizia di Stati esteri (Germania e Norvegia). Sono state utilizzate le dichiarazioni dei collaboranti, come M. T. H., Z. C. e J. R., pregiudicati per reati comuni, poi avvicinatisi all’ambiente della moschea di viale Jenner di Milano ed all’ideologia fondamentalista islamica.

Le attività e le energie del sodalizio erano volte all’indottrinamento ed all’invio dei “fratelli combattenti” nel Kurdistan iracheno ed in altri campi militari.

Fra le prove documentali si annoverano un manuale della Jiahd (rinvenuto presso i fratelli B. (separatamente giudicati) e due videocassette, sequestrate nell’abitazione di M. T. e A. M., riguardanti il M. F.. In una di esse guerrieri peshmerga mandano saluti al Mullah.

Viene spiegata la nascita di A. al I. ad opera del mullah K.. La prima cassetta contiene un inno alla Jiahd.

La frequentazione delle moschee di viale Jenner e via Quaranta era propedeutica ad uno specifico indottrinamento, che avveniva in locali diversi da quelli destinati alla preghiera e che si basava sulla predicazione della lotta fino al martirio contro gli infedeli.

Fucina di attivisti era pure la moschea di Cremona, retta da T. M.. Tanto Z. quanto J. hanno riferito di attentati (da eseguire contro il duomo di Milano e quello di Cremona, la metropolitana di Milano), progettati, a detta del secondo collaborante, anche in data precedente l’intervento USA in Irak.

Fra i personaggi di spicco collegati con via Quaranta vi erano A. O. (rapito il 17.2.03) e A. S..

La struttura associativa non presentava carattere rigido e verticistico, ma diffuso ed egalitario, nel senso che le cellule italiane e milanesi in specie erano considerate integrate in una struttura più ampia, tendenzialmente universale.

Fitti contatti sono stati rivelati dalle utenze (i cui estremi sono stati rinvenuti in agende sequestrate al corso XXII marzo in Milano) fra soggetti di Cremona, Parma e Milano, oltre che dalle intercettazioni telefoniche svolte dai CC, comprovanti il procacciamento di danaro.

Il teste Palmieri, capitano dell’Arma dei CC, ha riferito della agenzia milanese di viaggi Adineh Travel, accreditata dal consolato iraniano, che provvedeva alle pratiche per agevolare il trasferimento di futuri combattenti verso il Kurdistan o comunque il territorio iracheno.

Reclutamento e smistamento sono stati confermati dal vicequestore M., che ha riferito di volontari inviati in Afghanistan, nei campi di addestramento gestiti da Bin Laden, grazie alla costante attività di coloro che reggevano la moschea di via Quaranta (dalla quale il mullah Omar era stato poi allontanato per le sue prediche oltranziste, suscettibili di compromettere il buon esito della causa islamica).

Il teste riferisce pure sulle intercettazioni delle conversazioni fra E. R. (detto M., coimputato non ricorrente) e H. J., suo collaboratore e gregario, concernenti il reperimento di documenti falsi.

In alcune conversazioni, poi, il Mullah F. manifesta ammirazione profonda per i kamikaze giapponesi, pronti ad immolarsi per gli scopi della causa.

Ricorrono gli imputati, personalmente C. M. e H. J.. Il primo, non noto agli investigatori, è preceduto da una telefonata del Mullah F., annunciante a M. l’arrivo dello stesso e la necessità di procurargli un passaporto marocchino falso.

Egli lamenta il vizio di motivazione, poiché non ha mai programmato azioni terroristiche, bensì solo contro l’esercito statunitense, invasore, e contro i suoi alleati. Difetta ogni elemento denotante coinvolgimento nel sodalizio.

Analogo vizio deduce H., uomo di fiducia di M., che svolge attività di supporto logistico, in ordine al reato associativo. Errata è l’interpretazione delle conversazioni intercettate ed irrilevante è l’ausilio prestato a M. nella falsificazione dei documenti.

Entrambi gli imputati deducono il vizio di cui all’art. 606 lett. b) cpp, con argomentazioni non dissimili.
È pur vero che l’art. 270 bis cp configura un reato di pericolo presunto, ma occorre acclarare che lo scopo dell’associazione è precisamente quello di commettere atti terroristici, non bastando che questi siano programmati in via eventuale.

L’illecito ascritto, infatti, è caratterizzato dal dolo specifico, ossia dal fine di cagionare la morte o lesioni personali gravi ad un civile o a persona che non partecipi attivamente alle ostilità nel corso di un conflitto armato, allo scopo di spargere terrore fra la popolazione o di costringere uno Stato o un’Organizzazione internazionale a compiere o ad omettere un atto.

Orbene, è mancata l’indagine tesa ad acclarare se i documenti falsi, il denaro inviato, l’eventuale addestramento, fossero mirati a conseguire siffatto obiettivo.

Denuncia vizio motivazionale anche il difensore di A. M., che sottolinea come l’attività di A. al I. si iscriva in un contesto di conflitto armato non solo a partire dal marzo '03 (data dell’intervento USA in Iraq), ma anche prima, quando il Kurdistan iracheno combatteva il regime dittatoriale di Saddam Hussein.

Si assume l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in dibattimento, in spregio all’art. 729 cpp, dai funzionari inquirenti della polizia tedesca e di quella norvegese, escluse dal fascicolo per il dibattimento con ordinanza 22.2.05 della Corte di assise di Milano. Analoga eccezione viene formulata in ordine alle dichiarazioni “de relato” degli operanti su potenziali kamikaze arrestati e interrogati dalla polizia norvegese e quelle riproducenti di fatto gli interrogatori del mullah K..

Del pari, non è utilizzabile il provvedimento di archiviazione dell’a.g. norvegese.

Si critica l’affidamento fatto ai collaboranti, dal momento che i loro detti non riguardano il periodo storico in contestazione, né lo stesso contesto storico di cui si discute.

Tahir Hammid ha escluso che A. abbia commesso o progettato attentati, pur non essendo aliena dall’uso della violenza.

L’imputato A. M. si è avvicinato alla Jiahd dopo aver subito vessazioni e torture dal regime di Saddam Hussein; ha lavorato come manovale e inviato denaro ai familiari in patria. Allorquando accompagnò il mullah O. da Parma a Milano, insieme con M. e mullah F., assolse un dovere di cortesia, per la deferenza dovuta ad un prestigioso capo religioso.

Viziata è pure l’affermazione di responsabilità per la agevolazione dell’immigrazione clandestina, non essendo acquisita prova alcuna del contributo da lui fornito, presunto dal giudice sulla scorta d’una telefonata nel corso della quale egli chiese a M. dove fosse reperibile mullah F., conosciuto a Parma, in via Martinella.
Articolati e doviziosi sono i motivi formulati per M. M..

In rito si denuncia la nullità ex art. 429 cpp del decreto di citazione a causa dell’indeterminatezza dei capi di imputazione e l’inutilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, siccome rese oltre il limite temporale di gg. 180, stabilito dalla legge n. 451/01.

Si lamenta, poi, la violazione dell’art. 270 bis cp, poiché la guerriglia nelle zone ove sono in corso conflitti bellici non può essere considerata alla stregua dell’atto terroristico.

La convenzione di New York del 1999, recante regole per il contrasto del finanziamento del terrorismo internazionale, all’art. 2, lett. b definisce l’atto incriminato in funzione della vittima e dello scopo. E il gup del tribunale di Milano ha escluso il reato in presenza di cellule fondamentaliste islamiche, la cui attività consisteva nel sostenere, mediante reclutamento di volontari e finanziamenti, le strutture di addestramento paramilitare ubicate all’estero ed aventi lo scopo di promuovere la guerriglia in Iraq, non essendo dimostrata l’esistenza di un concreto programma di violenza a seminare indiscriminato terrore presso la popolazione.
La natura terroristica dell’organizzazione è stata esclusa dall’a.g. norvegese, così come dal collaboratore Abdelhammid, mentre pure congetture sono quelle riferite dal teste M..

Profondamente divergenti sono le dichiarazioni dei collaboratori: J., assiduo frequentatore di viale Jenner, non ha mai conosciuto mullah F.; Z. assume che questi appartiene ad A. al I. del 2000, laddove è noto che essa fu costituita nel 2001. Il secondo collaboratore sarebbe del tutto inattendibile dal momento che, detenuto per la maggior parte del tempo che va dal 1999 al 2002, è interessato alla collaborazione con la giustizia italiana.

Anodine sarebbero le intercettazioni telefoniche, insuscettibili di univoca lettura.

Nessuna prova indica che l’imputato fosse a conoscenza della preparazione di attentati terroristici. Prive di significato sarebbero le videocassette, risalenti al 1999, quando A. non era ancora nata.
Quanto ai capi b) e c), le conversazioni riguardano quasi esclusivamente M. e H., in un periodo precedente l’intervento USA in Iraq. L’arrivo in Italia del somalo C., preannunciato a M., diventa la prova della falsificazione di un documento mai ricevuto.

M. viene collegato a M., residente in Italia, per creare un surrettizio nesso in realtà inesistente. Arbitraria, poi, è la definizione di Jiahd, come strategia violenta per affermare i principi puri dell’Islam.

Quanto al dolo del reato associativo, alcuna prova è emersa circa il concreto coinvolgimento del M. e la coesione delle condotte nel segno di un fine comune agli associati.

Le censure non possono essere condivise.

Infondate sono le eccezioni di inutilizzabilità formulate dalla difesa di A. M.. La sentenza impugnata, pur se formalmente viziata da inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, in tanto va annullata in quanto si accerti che la prova illegittimamente acquisita ha avuto una determinante efficacia dimostrativa nel ragionamento giudiziale, un peso reale sul convincimento e sul “dictum” del giudice di merito (S.U. 30.6.2000, n. 16, Tammaro). Alla c.d. “prova di resistenza” può procedersi anche in sede di legittimità. Controllando la struttura argomentativa della motivazione, al fine di stabilire se la scelta di una determinata soluzione sarebbe stata la stessa, per la presenza di altre prove ritenute di per sé sufficienti a giustificare lo stesso convincimento (sez. I, 2.12.98, n. 1495, Archinà).

Tardiva, oltre che infondata, è l’eccezione di nullità ex art. 429 cpp esposta dalla difesa di M. M., a fronte di una enunciazione puntuale ed esaustiva dei fatti addebitati all’imputato.

Generica, siccome ripetitiva (v. Sez. V, 25.1.5, n. 11933, Giagnorio) è l’ulteriore deduzione riguardante il preteso superamento del limite temporale stabilito dalla legge n. 45/01 in ordine alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

La corte di merito ha rispettato i principi giurisprudenziali elaborati in tema di valutazione della prova. Questa non si esaurisce nella mera sommatoria degli indizi e non può prescindere dall’operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella sua valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (S.U. 12.7.05, Mannino).
La prova della partecipazione ad associazioni terroristiche comporta la dimostrazione dell’inserimento nella struttura organizzata, attraverso condotte univocamente sintomatiche consistenti nello svolgimento di attività preparatoria rispetto all’esecuzione del programma oppure nell’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale (sez. I, 15.6.06, n. 30824, Tartag). Ne deriva che la partecipazione può concretarsi anche in condotte strumentali e di supporto logistico.

Contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la commissione di un atto terroristico è compatibile con un contesto bellico.

L’art. 2 della Convenzione di New York del 1999 sul contrasto al finanziamento del terrorismo (recepita dalla L. 14.1.03, n. 7) designa come terroristico l’atto “destinato a cagionare la morte o lesioni personali gravi ad un civile o a qualsiasi altra persona che non partecipi direttamente alle ostilità nel corso di un conflitto armato, quando lo scopo sia intimidire la popolazione o costringere un Governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad omettere un atto”. Decisiva è la qualità della vittima dell’illecito, che deve essere un civile o una qualsiasi persona che non partecipi o non partecipi più alle ostilità del conflitto stesso.

La lettera e la “ratio” della normativa internazionale che concorre a definire la finalità di terrorismo in contesti bellici, offrono univoci argomenti ermeneutici per ritenere che costituisce atto terroristico anche quello contro un obiettivo militare, quando le peculiari e concrete situazioni fattuali facciano apparire certe ed inevitabili le gravi conseguenze per la vita e la incolumità fisica della popolazione civile, contribuendo a diffondere paura e panico nella collettività (sez. I, cc. 11.10.06, n. 1072, Bouyahia). Non può dubitarsi della natura terroristica degli attentati dinamitardi e delle azioni dei c.d. kamikaze compiuti in luoghi affollati dalla popolazione civile, pure se indirizzati contro obiettivi militari, nel corso di un conflitto armato.

Per tali ragioni va disattesa la distinzione, di forte impatto storico - sociologico, fra terrorismo e guerriglia, estranea alla normativa vigente. Essa si fonda sul metodo di azione e di lotta, laddove l’elemento discretivo, in un contesto bellico o di occupazione militare, non è tanto lo strumento adoperato, quanto l’obiettivo avuto di mira. L’atto terroristico, infatti, è quello che, sia in tempo di pace, sia nel corso di un conflitto armato, si dirige contro un civile o una persona che non partecipa (o non partecipa più) attivamente alle ostilità. Donde la compatibilità fra terrorismo e conflitto armato, dovendosi escludere dalla prima categoria gli atti di violenza, da chiunque compiuti nel corso di un conflitto armato, contro militari attivamente impegnati in operazioni.
Non rileva che talune condotte siano state poste in essere in data antecedente l’intervento USA in Iraq. Il reato associativo è perfetto con la creazione di un’idonea struttura connotata da un programma qualificato dalla finalità di terrorismo internazionale, a prescindere dai reati - fine, ossia dal successivo compimento delle azioni criminose programmate.

Il dedotto vizio di motivazione, relativo alla composizione ed alle finalità di A. al I., ai tratti distintivi della Jiahd islamica, al ruolo rivestito dagli imputati, all’apprezzamento del compendio di prova (intercettazioni, dichiarazioni di testi e di collaboranti, acquisizioni documentali) dissimula e veicola la censura alle scelte probatorie rettamente compiute dai giudici di merito sulla scorta delle risultanze di prova.

La censura esorbita dai limiti della critica al governo dei canoni di valutazione della prova, per tradursi nella prospettazione del fatto alternativa a quella opzionata dai giudici di merito e nell’offerta di una diversa lettura (a sé favorevole) delle emergenze processuali.

Orbene, è pacifico che non costituisce vizio, comportante controllo di legittimità, la configurazione di diversa valutazione delle risultanze emerse (S.U. 31.5.2000, n. 12, Jakani; Id. 30.4.97, n. 6402, Dessimone; Id. 29.1.96, Clarke).

Sotto il profilo soggettivo il delitto ipotizzato dall’art. 270 bis cp è a dolo specifico, poiché la consapevolezza e la volontà del fatto devono essere mirate al perseguimento della finalità di terrorismo che caratterizza l’attività dell’intera associazione, che la legge indica, in maniera alternativa, nello scopo di diffondere il terrore tra la popolazione o in quello di costringere gli Stati o le organizzazioni internazionali a compiere o ad omettere un determinato atto. I giudici di merito, mediante il dovuto vaglio delle risultanze di prova, hanno stabilito che il sostegno logistico prestato in favore dell’associazione A. al I., attuato mediante la fornitura di documenti falsi, la raccolta di fondi ed il favoreggiamento dell’ingresso clandestino in Italia delle persone che erano destinate a portarsi in Paesi stranieri per combattere o a fornire comunque ausilio alla causa comune nei sensi indicati, supporta adeguatamente il convincimento relativo all’inserimento dei ricorrenti nella suddetta associazione transnazionale e nella esistenza di una consapevole volontà orientata verso le attività di natura terroristica.
Riduttivo è l’assunto della difesa di M. M., basato tacitamente sulla compartimentazione delle cellule di A., laddove tale associazione sembra caratterizzata dall’apparente parcellizzazione degli adepti, la cui condotta è in realtà unificata dal comune fine della Jihad islamica, unanimemente condiviso previo il proselitismo e l’indottrinamento impartito.

Un efficiente sistema, invero capillare, di solidarietà reciproca, giustificato in nome della “fratellanza islamica”, permette di esaltare gli esiti del contributo causale prestato da ciascuno dei membri, producendo effetti in luoghi molto distanti da quelli in cui esso è stato offerto. Vale a dire che i componenti delle cellule italiane sono consapevoli e responsabili non solo di quanto da loro operato in Italia, ma anche del contributo causale a condotte realizzate da altri membri in altri Paesi.

La condivisione degli scopi dell’associazione e la consapevolezza della sua potenzialmente illimitata sfera di azione sono gli elementi fondanti del dolo costitutivo della fattispecie associativa ascritta.
Resta, in tal modo, confutata la doglianza di M. M. riguardo ai profili soggettivi dell’illecito.
I ricorsi vanno rigettati, con la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese del procedimento.


 
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