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Post N° 2

Post n°2 pubblicato il 01 Maggio 2007 da medebai

Una carrozza nella notte

       Avevamo trascorso l’intera giornata girando per le campagne del Chianti aretino, da Cortona a Castiglion Fiorentino, Fino a Foiano della Chiana ed oltre. Mio zio Antonio, detto Tonino da tutti secondo l’abitudine toscana di dare un soprannome o almeno un diminutivo a chiunque, foss’anche il Presidente della Repubblica o il Papa, mi aveva portato con sé tanto per avere un po’ di compagnia in un’era senza autoradio di serie e telefoni cellulari. Per un ragazzino di nove anni, abituato a trascorre le giornate di vacanza correndo per i boschi che ancor oggi crescono già a ridosso delle ultime case del paese dove vivevo e dove tuttora passo il periodo estivo, fare un viaggio di cinquanta chilometri in automobile era già una grande novità, farlo poi in compagnia dello zio più giovane e con fama di scapestrato rappresentava addirittura un’avventura da paragonare a quelle che allora leggevo sulle pagine del Corriere dei Piccoli.

       La Fiat Seicento color panna col tettino nero apribile, di seconda mano, non era una fuoriserie, la sua velocità massima sfiorava i centoventi all’ora solo quando era possibile lanciarla in una dirittura come quelle della nuova Autostrada del Sole, non certo per le stradine fra le colline del Chianti, spesso ancora sterrate, tutte curve, salite e discese, strette al punto da dover andare con le ruote di sinistra sul bordo erboso ogni volta che due automobili s’incrociavano, fatto che comunque accadeva di rado – all’epoca, tanto per fare un esempio, nel mio paese c’erano solo quattro autovetture alle quali si aggiungevano: due motocarri Ape, quello dell’idraulico e quello del padrone dell’unico negozio di alimentari, e un vecchio autocarro inglese residuato bellico, usato quest’ultimo per trasportare i tronchi di quercia tagliati nei boschi alla segheria dove li avrebbero trasformati in traversine per le ferrovie – e la velocità non superava mai i cinquanta all’ora. Per me però rappresentava un intero mondo di fantasie: quando la trovavo aperta, parcheggiata nell’aia della vecchia cascina di mia nonna, m’infilavo al posto di guida e quella piccola utilitaria diventava di volta in volta, un elicottero, un’astronave, un MAS o un carrarmato, secondo l’estro del momento.

       Quella che doveva essere una girata di un pomeriggio col ritorno previsto per l’ora di cena, si era prolungata più del previsto: mio zio non aveva trovato subito chi stava cercando, un farmacista che gli doveva consegnare le ricette da portare alla sede della mutua, al suo negozio in piazza e aveva dovuto spingersi molto più in là di Foiano, fin verso Camucia, per raggiungerlo nella sua casa di campagna che stava rimettendo a posto. Né era previsto che l’accoglienza da parte del farmacista e della sua famiglia fosse quella tipica delle fattorie toscane: vollero offrirci a tutti i costi la merenda: pane casereccio, fichi appena colti e un prosciutto invecchiato di almeno un anno, duro e saporito come solo una volta se ne trovavano; un buon bicchiere di vino per mio zio e altri, abbondantemente annacquati con l’acqua fresca del pozzo, per me ed i due figli del farmacista che avevano più o meno la mia stessa età. Andò a finire che gli adulti tirarono tardi parlando dei loro problemi di lavoro e di quelli tipici di tutta la gente di campagna e noi bambini sparimmo per i campi correndo dietro ad un cagnetto bastardo più scatenato di noi. Quando finalmente rientrammo, alla prima merenda ne seguì un’altra ancora più abbondante, col panello croccante appena tolto dal forno, i pomodorini dell’orto da mangiare in pinzimonio insieme ai gambi di sedano, il pecorino fresco che si scioglieva in bocca e un salame che dovevamo assolutamente assaggiare.

       “Lo fa un vecchio norcino di Asciano! Coi maiali allevati a ghiande, liberi d’andare in giro pei boschi, e ci mette anche un po’ di vinsanto vecchio di cinquant’anni nell’impasto!”

       Mi ricordo ancora come l’anziano padrone di casa magnificava quelle delizie ormai diventate introvabili.

       Ormai si era fatta sera, e quel ch’è peggio: lontano ad ovest, verso Sinalunga e Monte San Savino, un grosso temporale stava ammucchiando i suoi nuvoloni che sembravano volersi mangiare il sole ormai prossimo al tramonto.

       “Sarà meglio partire. Ormai si farà tardi per cena, ma bisogna che riporti Beppino a casa, altrimenti la mia cognata mi fa una scenata.”

       Lo zio Tonino aveva un timore reverenziale di mia madre che, diceva, gli ricordava un sergente che aveva conosciuto durante il servizio militare.

       “Ovvìa, volete che abbia paura che lo perdiate per strada? Mangiate un boccone con noi e partite tranquilli dopo cena!”

       L’usuale ospitalità dei contadini toscani ci avrebbe tenuto volentieri anche a dormire per affrontare il viaggio ben riposati la mattina dopo; neanche fossimo ancora in pieno Medioevo, quando per spostarsi fra Arezzo e Siena ci volevano almeno tre giorni. Ma per una volta tanto, mio zio riuscì ad essere irremovibile; mi caricò in macchina e ripartimmo verso casa. Verso la fine di settembre ormai cominciava a far buio presto, anche se l’aria sapeva ancora d’estate, tiepida invitava a tirar tardi ed i campi ancora da arare erano gialli di stoppie che contrastavano col verde cupo dei boschi, ma i filari delle vigne già mostravano i grappoli maturi che pendevano dai tralci. Nell’ombra crescente della sera la piccola Seicento rombava tranquilla per le stradine di campagna facendosi annunciare dalla luce giallognola dei suoi fari.

       “Prendiamo per una scorciatoia, se ripassiamo da Castiglion Fiorentino ci mettiamo una vita.”

       Mio zio girò in quella che sembrava solo una carrareccia che iniziava fra due cipressi secolari e poi si perdeva fra i boschi. Appena entrammo sotto le chiome delle querce e dei lecci, anche quel poco di luce del cielo color indaco svanì e gocce d’acqua grosse come barili cominciarono a battere sul parabrezza con un rumore tambureggiante accompagnato da tuoni e lampi. In breve gli scrosci di pioggia trasformarono la sera in notte fonda; i due piccoli tergicristalli combattevano la loro battaglia per tenere pulito il vetro anteriore, ma la polvere raccolta durante il viaggio dell’andata si era trasformata in fango e le spazzole di gomma consunte lo spalmavano in strisce opache rendendo una fatica improba cercare di vedere qualcosa, con la luce dei fari che si rifletteva in quella cortina argentea.

       Ogni tanto un lampo rischiarava la scena con una luce fredda, azzurra, violenta, seguita a pochi istanti dal rumore simile ad una cannonata. L’utilitaria continuava ad andare avanti nonostante i vetri appannati su, su per quella strada sterrata che andava trasformandosi in torrente; dopo un quarto d’ora di quell’andare, col temporale che non accennava a volersi calmare, anzi sembrava diventare sempre più forte, lo zio Tonino accostò in un piccolo slargo di fronte a un bivio segnalato da un maestaino, una semplice colonna squadrata di pietre e mattoni intonacati, alta un paio di metri e culminante con un minimo tetto fatto con quattro tegole e un coppo, dove in una nicchia s’immaginava più che vedere una piccola statuina di gesso della Madonna con davanti un bicchiere sbeccato e un mazzolino di fiori di campo, un povero omaggio della devozione delle donne di campagna. Mise in folle e tirò il freno a mano senza spengere il motore, con tutta quell’umidità c’era il pericolo di non riuscire a farlo ripartire e voleva lasciare i fari accesi senza rischiare di scaricare la batteria.

       “Sarà meglio fermarsi e aspettare che la pioggia si calmi almeno un poco, il tergicristallo non ce la fa più. Non c’è da aver paura, la strada la conosco, anche se è parecchio che non ci passo, almeno da quando stavo ancora con la Martina che abita da queste parti.”

       Lo zio si riferiva ad una ragazzotta di Palazzo del Pero, una delle sue passate conquiste di rubacuori di campagna, ma io ero troppo piccolo per comprendere certe sfumature, mi bastava sapere di essere in compagnia di uno grande, un uomo che, ne ero sicuro con quella sicurezza tipica dei bambini, mi avrebbe protetto da qualsiasi pericolo. Ubbidendo all’impulso di un costume che mi era stato insegnato fin dalla primissima infanzia, da una balia contadina che mi portava a spasso pei campi continuando nelle sue faccende, mi venne spontanea la semplice preghiera di tutti i viandanti:

       “Ben trovata Maria, salutate Gesù da parte mia.”

       “Non avrai mica paura del temporale?” Finì col chiedermi.

       Macché paura! Ero eccitato dall’avventura: mai prima d’allora mi era capitato di ritrovarmi nel bosco di notte e col temporale. Seduto sul bordo del seggiolino accanto al posto di guida, le mani aggrappate al bordo del cruscotto di lamiera, il naso schiacciato contro il vetro, cercavo di guardar fuori, sfruttavo la luce dei lampi per ricostruire la forma degli alberi che avevo a pochi metri, quando anche i rami agitati dal vento sembravano gelarsi per un attimo in un’immagine fissa; mentre la pioggia continuava a scrosciare con un rumore sordo sul tettuccio di tela impermeabile e l’umidità che penetrava all’interno rendeva visibile il fiato anche se non era affatto freddo.

       Non saprei dire per quanto tempo restammo fermi a quel bivio, certo non molto perché altrimenti mi sarei stancato anche di quell’esperienza nuova, a nove anni non brillavo per la pazienza; ogni tanto mi giravo per cercare di vedere anche attraverso il lunotto posteriore, ma da quel lato era ancora più difficile, le deboli luci rosse posteriori s’indovinavano appena nei riflessi delle gocce d’acqua che ruscellavano sulla carrozzeria.

       Un nuovo rumore si aggiunse a quello della pioggia che non accennava a diminuire, un suono che incuriosiva per la sua estraneità: come un tintinnar di sonagliere ed una serie di tonfi sordi e cadenzati, accompagnato da un rumor di ruote senza pneumatici, questo era qualcosa che conoscevo bene, non erano pochi i carri agricoli trainati da coppie di pazienti buoi di razza chianina che ancora percorrevano le strade del mio paese. Incuriosito, mi protesi verso i finestrini laterali, nella speranza di veder passare quel carretto che si annunciava così rumorosamente, mentre i bovi da tiro erano di solito silenziosi e calmi nella loro fatica. Ma chi stava sopraggiungendo non era un contadino sorpreso dal temporale mentre tornava dai campi verso la sua fattoria; alla luce di un fulmine più forte, vicino e fragoroso, la vidi: una carrozza chiusa, a due assi , trainata da quattro grossi cavalli neri che avanzavano rapidi al piccolo trotto, lucidi di pioggia, coi finimenti ornati da campanellini d’ottone, senza apparentemente nessuno a cassetta che li guidasse.

       L’apparizione ci sfilò accanto, la carrozza sfiorò coi mozzi delle ruote di destra la base del madonnino, prendendo per la strada laterale a destra, svanendo ombra nera nel nero della notte. Invano attesi un altro lampo per cercare di capire dove si fosse diretta; quando finalmente una di quelle lampade ad arco celesti illuminò di nuovo la scena, la stradicciola che si dipartiva dal bivio era di nuovo completamente deserta, bianca di ghiaia fra due siepi fitte di rovi e prugnoli.

       “Hai visto, Tonino!?” Con un plotone di zii e zie avevo l’abitudine di chiamarli tutti per nome, per non fare confusione. “Una diligenza come quella dei cowboys!”

       Nella mia ingenuità l’avevo assimilata a quelle carrozze che incontravo nei fumetti a striscia di Tex Willer e nei film americani che andavo a vedere al cinema parrocchiale la domenica pomeriggio. Mio zio non mi rispose direttamente, invece tolse il freno a mano e inserì la prima; eravamo di nuovo in viaggio prima che si decidesse a parlare.

       “La pioggia s’è fatta meno fitta. Sarà meglio muoversi o arriveremo a notte fonda. La tua mamma sarà già preoccupata.”

       A me non sembrava che la pioggia fosse diminuita d’intensità, ma se lui se la sentiva di guidare per me andava bene, solo non capivo perché adesso se ne stesse così silenzioso, mentre prima aveva sempre continuato a chiacchierare raccontandomi le sue avventure con gli amici del bar della piazza e descrivendomi i paesi che incontravamo. Comunque di lì a poco arrivammo alla strada statale della Chiana e prendemmo quel nastro d’asfalto in direzione di Arezzo per poi girare sulla provinciale verso Monte San Savino. Finalmente il temporale ci lasciò in pace continuando nella sua corsa verso il lontano Lago Trasimeno, la pioggia si fece più rada e leggera, la strada ben conosciuta ed in breve tornammo a casa.

       Ad aspettarci, più arrabbiate che preoccupate, trovammo la mamma e la nonna, sull’uscio di casa come due sentinelle.

       “È questa l’ora di tornare? Meritereste di restare tutti e due senza cena!”

       La minaccia era fondata, erano ormai le dieci di sera passate e mio padre e gli altri zii avevano già cenato di sicuro; però non era nemmeno particolarmente sentita: dopo le ricche merende che avevamo fatto nel pomeriggio, non correvamo certo il rischio di patire la fame. Io però ero ancora troppo eccitato per la strana avventura e mi rivolsi alla nonna Anna, che sapevo sempre pronta a prendere le mie difese.

       “Nonna, nonna! Sapessi cosa abbiamo visto: una diligenza tirata da quattro cavalli! Ci è passata vicina mentre aspettavamo che la pioggia si calmasse.”

       “Vieni in cucina, Beppino. Ho fatto i biscotti con l’uva passa; mangiane un paio e poi, a letto! È ormai tardi.”

       La voce non aveva un tono preoccupato, però sentivo lo stesso che qualcosa non quadrava: non mi aveva chiesto nemmeno cosa avevo combinato, o almeno come fosse fatta quella carrozza che avevo visto. La nonna Anna si mostrava sempre interessata a tutto ciò che facevo o raccontavo, adesso invece mi pareva che la notizia non l’avesse assolutamente meravigliata e volesse solo mettermi a dormire al più presto; invece era solo ansiosa di conoscere altri particolari di quell’incontro notturno, ma non voleva saperli da me.

       “Tu! Fermo qua, Tonino. Mi devi dare qualche spiegazione, ma prima mettiamo a letto mio nipote.”

       Fossi stato un bambino ubbidiente, mi sarei mangiato i biscotti e poi mi sarei infilato nel letto coi lenzuoli che profumavano di spigo e sapone da bucato, onestamente cascavo dal sonno dopo tutte le corse pei campi del pomeriggio, ma invece ero già un tipo curioso di tutto e quanto avevo sentito mi aveva solleticato al punto da contravvenire agli ordini della nonna. Invece di addormentarmi dopo aver detto le preghiere, sgattaiolai di nuovo in corridoio, nascondendomi dietro la grossa cassapanca vicino alla porta della cucina. Quella era l’unica stanza illuminata ed io, restando nascosto nell’ombra, avrei potuto ascoltare quanto si dicevano senza rischiare di essere scoperto.

       “… Credi forse che non abbia capito chi avete visto? Chi credi che se ne vada in giro in carrozza nelle notti di temporale?” Era la voce della nonna che cercava di mantenerla bassa per non disturbare il mio sonno.

       “L’ho capito subito anch’io, mamma! Ma quando mi sono fermato lungo la strada perché non vedevo più dove stavo andando, non sapevo di essere così vicino a quel posto.” Tonino sembrava aver paura adesso e non si capiva se per lo scampato pericolo o per la reazione di sua madre.

       “Mi fate capire anche a me di cosa state parlando? A parte il fatto che sono ancora arrabbiata perché hanno fatto tardi, mi sembra che Tonino si sia comportato in modo prudente, fermandosi nel momento che il temporale era più forte. Sarebbe stato peggio se fossero finiti fuori strada continuando.” Questa era mia madre; lei non era del paese anzi, non era nemmeno toscana, ma da buona maestra elementare sapeva bene come trattare con la gente e farsi valere.

       “Forse tu queste cose non le puoi capire, Lia, ma nessuno nato da queste parti e sano di mente passerebbe accanto al castello di Brolio in una notte di temporale!”

       “E cosa ci sarà mai nel castello di Brolio? Magari avrà la fama di essere infestato dai fantasmi, ma da questo ad aver paura di passarci anche solo vicino! Mi sembra che tutto questo sia un po’ esagerato.”

       “Di fantasmi lì dentro ce n’è uno solo, e nessuno ci scherza sopra. Quanti credi che ce ne siano ancora in circolazione, di tiri a quattro? Ormai sono diventati rari anche i calessi! E quanti credi che se ne vadano in giro trainati da dei cavalli neri, senza cocchiere, nelle notti di temporale?”

       La domanda era logica, me lo stavo chiedendo anch’io, a parte i carri agricoli tirati da pariglie di buoi, conoscevo solo uno che avesse ancora il calesse e l’usasse per spostarsi: Gosto, un anziano sensale di granaglie che, quando capitava in paese, era sempre disponibile a lasciar salire noi bambini sul suo fiacre leggero, tirato da una cavallina baia golosa di mele e carote, e farci fare il giro della piazza fino di fronte al Caffè, dove lui si fermava per fare una partita a briscola con gli amici. Ma chi era allora quello che avevamo visto? Perché ne ero sicuro, lo avevamo visto sul serio, non ce l’eravamo sognato tutti e due contemporaneamente.

       “Quello era il Barone di Ferro!” Arrivò la risposta di mia nonna. “Era il fantasma del Barone Bettino Ricasoli, morto maledetto e scomunicato per aver confiscato i beni della Chiesa quando era Primo Ministro del Regno d’Italia! Ecco chi è che se ne va in giro nelle notti di temporale; condannato a vagare su questa Terra confinato nel suo castello finché non verrà il Giorno del Giudizio. Gli è stato solo concesso di rivedere i suoi possedimenti nelle notti di temporale e lui parte col suo tiro a quattro come quando viveva nel castello e lavorava a Firenze e fa il giro della sua tenuta. Non hanno visto il conducente perché è il diavolo in persona che guida la carrozza, come quattro diavoli sono i cavalli neri che la tirano. Per fortuna si erano fermati di fronte ad un’edicola della Madonna e la Madre di Gesù li ha protetti!”

       Ancora rannicchiato dietro la cassapanca sgranai gli occhi! Ora sì che provavo paura e ringraziai il Cielo per aver rivolto quell’ingenua piccola preghiera alla Vergine Maria quando c’eravamo fermati.

       Non potei sentire altro di quella discussione. Stavano per riprendere quando sentii dei passi pesanti e una chiave girare rumorosamente nella serratura del portone: questo era sicuramente mio padre che rientrava dalla passeggiata serale. Se mi avesse sorpreso ancora alzato e per giunta nascosto in corridoio, allora sì che sarebbero stati dolori, ma per me! Feci appena in tempo a tornare nella mia cameretta correndo a quattro zampe sul pavimento, ed ero già sotto la coperta quando vidi una lama di luce sotto la porta, segno che il babbo aveva acceso la lampadina in corridoio. Ce l’avevo fatta per un pelo! Adesso sarebbe venuto di sicuro a controllare se stavo già dormendo, doveva essersi preoccupato anche lui per il ritardo nel tornare a casa; mi conveniva fingere di dormire della grossa, poi forse sarei riuscito a tornare di nuovo al mio appostamento per scoprire qualcosa di più sul fantasma di Bettino Ricasoli: la nonna doveva saperne ben altre di storie sul suo conto, più di quanto aveva appena detto.

       Ma ero sul serio stanco morto per tutta quell’avventura, il materasso morbido, le lenzuola profumate e le coperte calduccine. Cullato dai rintocchi dell’orologio della chiesa, forse feci in tempo a recitare un’altra Ave Maria per ringraziarla della sua protezione, come mi ero ripromesso di fare; scivolai nel sonno senza accorgermene e l’indomani mattina avevo altre cose per la testa: volevo andare a raccogliere le more lungo la strada di Badia a Ruoti, e c’era anche da trovarsi con gli amici nel piazzale vicino alla scuola elementare. Tra pochi giorni sarebbero ricominciate le lezioni e finita la pacchia: la quinta elementare è una classe impegnativa, alla fine c’è il primo esame della vita di uno studente e bisogna essere preparati ad affrontarlo.

Commenti al Post:
quelluomo
quelluomo il 03/05/07 alle 13:20 via WEB
veramente un storia bella!
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 14/12/07 alle 10:42 via WEB
Complimenti per il post!! ...Saluti Mary
 
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