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La disfatta di Caporetto

Sul fronte dell'Isonzo, Cadorna aveva disposto, a sud (destra), la 3ª Armata comandata dal Duca d'Aosta e costituita da quattro corpi d'armata; a nord (sinistra), la 2ª Armata, comandata dal generale Luigi Capello e costituita da otto corpi d'armata. L'offensiva austro-tedesca iniziò alle ore 2.00 del 24 ottobre 1917 con tiri di preparazione dell'artiglieria, prima a gas, poi a granate fino alle 5.30 circa. Verso le 6.00 cominciò un violentissimo tiro di distruzione a preparazione dell'attacco delle fanterie. I rapporti del comando d'artiglieria del 27º Corpo d'armata (colonnello Cannoniere) indicano che il tiro tra le 2.00 e le 6.00 produsse perdite molto lievi. Solo nella conca di Plezzo i gas ebbero effetti apprezzabili.

L'attacco delle fanterie cominciò alle ore 8.00 con uno sfondamento immediato sull'ala sinistra, nella conca di Plezzo sul fianco sinistro della 2ª armata. Tale parte di fronte era presidiata a sud, tra Tolmino e Gabrije (paese a metà strada tra Tolmino e Caporetto), dal 27º Corpo d'armata di Pietro Badoglio. A complicare le cose sopraggiunse la situazione – solo leggermente meno drammatica - del fronte del 4º Corpo d'armata (Cavaciocchi), confinante a sud con il Corpo d'armata comandato da Badoglio. Il vero disastro, infatti, cominciò quando il nemico, arrivò a Caporetto, da entrambi i lati dell'Isonzo.

La debole, intempestiva ed inefficace risposta delle artiglierie Italiane sul fronte del 27º Corpo d'armata, è una delle ragioni accertate dello sfondamento, ma il motivo per cui ciò avvenne è tutt'oggi fonte di disquisizioni. Incuneato tra i due corpi d'armata ed in posizione più arretrata era stato disposto molto frettolosamente anche il 7º Corpo d'armata comandato dal generale Luigi Bongiovanni. La sua efficacia fu nulla. La mancanza di riserve dietro il 4º Corpo d'armata, fu senz'altro uno dei motivi principali che contribuirono alla disfatta.

Nel dettaglio, le ragioni che permisero lo sfondamento furono:

Disposizione eccessivamente offensiva della 2ª Armata (generale Capello) ed in particolare del 27º Corpo d'armata (Badoglio), con le artiglierie ed alcune unità (tre divisioni su quattro sulla sinistra dell'Isonzo) troppo avanzate rispetto alla prima linea di fronte e un fianco sinistro eccessivamente debole.
Comunicazioni difettose a tutti i livelli, rese ancora più precarie dalle condizioni meteorologiche (pioggia battente e nebbia a valle; bufere di neve in quota) e conseguente assenza di azioni di comando e di manovra.
Mancanza di esperienza difensiva: le precedenti undici battaglie dell'Isonzo erano state tutte offensive.
Utilizzo difettoso e di scarsa efficacia dell'artiglieria. L'ordine, più o meno esplicito, di non rispondere al tiro di preparazione (ore 2.00 - 6.00) era, infatti, fino ad allora, la regola di utilizzo delle artiglierie nell'esercito italiano. Solo nella primavera del 1918, e proprio a causa della sconfitta di Caporetto, furono cambiate le regole di risposta al fuoco.
Debolezza e disposizione sbilanciata delle riserve, tutte a sud della linea di sfondamento.
Badoglio, pur essendo a pochi chilometri dal fronte, seppe dell'attacco delle fanterie nemiche solo verso mezzogiorno, e riuscì a comunicarlo al comando della 2ª Armata (Capello) soltanto qualche ora dopo. Cadorna seppe della gravità dello sfondamento e del fatto che il nemico aveva conquistato alcune forti posizioni solo alle ore 22.00.

Al di là delle responsabilità di singole piccole e medie unità, le colpe maggiori di ordine strategico non possono che essere attribuite al comando supremo (Luigi Cadorna) e al comando d'armata interessato (Capello), mentre quelle di ordine tattico ai tre comandanti dei corpi d'armata coinvolti (Badoglio, quindi, Cavaciocchi e Bongiovanni). Tutti vennero giudicati colpevoli dalla commissione d'inchiesta di prima istanza, del 1918-19, con l'unica eccezione di Badoglio.

Tuttavia l'errore tattico più sconcertante ed oggettivamente misterioso fu senza dubbio operato da Badoglio sul suo fianco sinistro (riva destra dell'Isonzo tra la testa di ponte austriaca davanti a Tolmino e Caporetto). Questa linea, lunga pochi chilometri, costituiva il confine tra la zona di competenza del Corpo d'armata di Badoglio (riva destra) e la zona assegnata al Corpo d'armata di Cavaciocchi (riva sinistra). Nonostante tutte le informazioni indicassero proprio in questa linea la direttrice dell'attacco nemico, la riva destra fu lasciata praticamente sguarnita con il solo presidio di piccoli reparti, mentre il grosso della 19ª divisione e della brigata Napoli era arroccato sui monti sovrastanti. In presenza di nebbia fitta e pioggia, le truppe italiane in quota non si accorsero minimamente del passaggio dei tedeschi in fondovalle, e, in sole 4 ore, le unità tedesche risalirono la riva destra arrivando integre a Caporetto, sorprendendo da dietro le unità del IV Corpo d'armata (Cavaciocchi).

Fonte: Wikipedia

 

 
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II Guerra mondiale: le stragi di Grugliasco e Collegno

Post n°9 pubblicato il 07 Gennaio 2008 da Albatrox1

Il libro di Bruno Maida racconta i fatti avvenuti a Grugliasco e a Collegno, due cittadine alle porte di Torino, tra la sera del 29 aprile e il tardo pomeriggio del 1° maggio 1945: di come i tedeschi in ritirata compiono una strage di civili e partigiani, lasciando sul terreno 67 vittime, e di come il giorno successivo parte della popolazione di una delle due comunità, insieme ad un gruppo di sappisti locali, si vendica uccidendo 29 militi della Repubblica sociale. È quindi la storia di due stragi e di un centinaio di persone fucilate, legate da un particolare e complesso intreccio di due fenomeni che caratterizzano la fase finale del seconda guerra mondiale e della Resistenza in Italia, ossia la scia di sangue lasciata dalle truppe tedesche in ritirata e la resa dei conti , atto finale, sebbene con lunghe appendici, della guerra civile.

Le due stragi conoscono una sorte diversa. La prima diventa il fulcro della memoria resistenziale di Grugliasco e Collegno, la seconda rimane sepolta per oltre cinquant'anni. Nel momento in cui questa vicenda riemerge, le due comunità si trovano costrette a fare i conti con una storia ed una memoria assai più complicate e stratificate, con una "lunga liberazione" che porta con sé l'orgoglio resistenziale ma anche gesti tutt'altro che nobili e generosi per i quali si devono cercare le profonde ragioni in un clima assolutamente straordinario come quello dell'"uscire dalla guerra".

A partire da una storia locale, il volume affronta e riepiloga alcune questioni emergenti nella storiografia: le origini e le caratteristiche della violenza insurrezionale, la necessità di fare i conti con la memoria della Repubblica sociale, gli elementi di continuità e di diversità nelle stragi di civili compiute dai tedeschi nell'ultima fase del conflitto, il rapporto tra memoria e oblio nella costruzione di una storia pubblica e condivisa.

Fonte: Franco Angeli Edizioni

 
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Guerra civile in Italia: Vigoponzo

Post n°8 pubblicato il 01 Gennaio 2008 da Albatrox1

Il 14 settembre 1944 - rammenta Francesco Rivara - una pattuglia partigiana nota un camion proveniente da Arquata Scrivia che, appena oltre le strette di Pertuso, in Val Borbera, scarica un certo numero di persone armate, le quali si dirigono verso la vecchia fornace, dove si trovava il posto di blocco dei partigiani.

Gli armati, vestiti in borghese con fazzoletto rosso al collo, si sono qualificati come partigiani provenienti dal Cuneese diretti a Varzi per organizzare un lancio in quella zona.

I numerosi dubbi dei partigiani valborberini furono confermati dopo poco tempo, quando una staffetta riferì che, invece che verso Varzi, gli armati si erano diretti verso Costa Merlassina: quindi non erano affatto partigiani.

Si cercò immediatamente di radunare con ogni mezzo dei partigiani: il distaccamento più vicino si trovava a Camere, impossibile farlo intervenire.

Tutti gli uomini disponibili ricevettero l’ordine di trasferirsi a Dernice.

Si era in poco più di una ventina - racconta Rivara - Distaccammo pattuglie per seguire la direzione di questa banda.

Aspettammo notizie più precise per prendere una decisione e stabilire un piano.

Le pattuglie riferirono che erano armati con mitragliatrice e armi automatiche nonché grappoli di bombe a mano.

I partigiani valborberini riuscirono comunque a tenerli sotto controllo e ad avere la conferma che la direzione seguita dai finti partigiani era quella di Dernice.

Per approntare la difesa, venne scelta la zona che dalla locanda di Dernice va verso Vigoponzo.

I partigiani erano numericamente inferiori ma contavano molto sull’effetto sorpresa, essendo all’interno di una palazzina adibita a scuola ( all’interno dell’edificio erano in quattro: Raffica, Marco, Bruno e Scrivia, armati con armi automatiche e bombe a mano ).

Appena giunti nei pressi dell’edificio, il partigiano Raffica chiese al comandante del gruppo di finti partigiani in arrivo di deporre le armi per permettere un chiarimento.

Il comandante parlò con i partigiani, pronunciando il suo nome di battaglia.

I quattro partigiani gli contestarono la maniera di procedere, essendo quella zona di loro competenza.

Egli esibì documenti con timbri con falce e martello e un’autorizzazione di trasferimento per la sua formazione da Cuneo per Varzi, ma era una documentazione palesemente falsa, secondo quanto afferma Rivara, e venne chiesto di fermare la sua truppa, deporre le armi e mettersi a disposizione per avere maggiori informazioni da Cuneo.

Dopo alcune proteste, tutti gli uomini deposero le armi, anche perché si sentirono circondati dalle mitragliatrici partigiane, e i quattro partigiani notarono l’abbigliamento della truppa, completamente pulito nonostante la marcia da Cuneo da essi sostenuta a parole.

Seguirono alcuni tentativi di interrogare i finti partigiani, andati tutti a vuoto, finché uno di loro, spaventato, si decise a parlare: si trattava di SS provenienti dalla scuola di Cà Bianca, partiti all’alba da Genova dalla caserma in via Marina di Robilant a San Fruttuoso; erano comandati dal tenente Corner, comandante del distaccamento della GNR alla Casa dello Studente, luogo di tortura tristemente famoso.

Insieme a Corner si trovava il maresciallo Giuseppe Peters comandante dell’ufficio anti partigiani, poi fuggito.

Lo scopo della banda di SS era quello di raccogliere informazioni dettagliate sui recenti rastrellamenti, conoscere il genere di messaggi scambiati tra i partigiani e colpire i loro reparti più isolati fino alla zona di Varzi.

Vennero chiamati da San Sebastiano altri partigiani e furono eseguiti altri interrogatori, senza ottenere molto ma senza usare alcuna violenza.

Nella notte, il tribunale partigiano condannò a morte tutti i fermati, con sentenza da eseguire all’alba.

Vennero tutti così fucilati tranne l’uomo che confessò e fu fatto fuggire ed i comandanti finirono nelle mani della missione americana che, in quei giorni, si trovava a Carrega Ligure.

Testimonianza del partigiano Francesco Rivara ( Bruno) sui fatti di Vigoponzo, tratta dal libro “ Cronache militari della Resistenza in Liguria – volume III ” scritto da Giorgio Gimelli e pubblicato dalla Cassa di Risparmio di Genova e Imperia.

 
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Guerra civile in Italia: Ignazio Vian

Post n°7 pubblicato il 31 Dicembre 2007 da Albatrox1

Ignazio Vian, nacque a Venezia nel 1917. Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 Vian era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca.

Raccolti attorno a sé circa 150 uomini, ne assunse il comando costituendo una delle prime formazioni partigiane e cominciò subito la guerriglia contro tedeschi e fascisti.

Il 19 settembre 1943 la formazione di Vian venne duramente impegnata in combattimento dalle SS del maggiore Joachim Peiper. Per oltre dodici ore i partigiani resistettero all’attacco tedesco.

Mentre Boves bruciava e vi veniva commesso l’eccidio, Vian raggiunse la Val Corvaglia. Alla sua banda affluirono altri volontari, così da raggiungere la forza di una brigata che continuò la guerriglia.

Nel marzo del 1944, i partigiani di Vian si unirono alle formazioni di Martini Mauri e Vian assunse la responsabilità di comandante in seconda del 1° Gruppo Divisioni alpine degli "Autonomi".

In missione a Torino, il 19 aprile del 1944, Vian cadde in mano dei nazifascisti. Venne ripetutamente torturato perché rivelasse nomi e luoghi della resistenza, ma non cedette. Nel timore di non poter più resistere, dopo settimane di torture, si svenò nel carcere. Fu curato e tre mesi dopo l’arresto, i nazifascisti lo impiccarono a un albero nel centro di Torino, con Battista Bena, Felice Bricarello e Francesco Valentino.

Fonte: ANPI

 
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Guerra civile in Italia: Franca Barbier 

Post n°6 pubblicato il 30 Dicembre 2007 da Albatrox1

Franca Barbier, era una ragazza di particolare coraggio e bellezza. Aveva 21 anni. Era aggregata ad uno speciale Reparto di Informazioni della Repubblica Sociale Italiana ( RSI ), che aveva sede in Val d'Aosta.

Alla metà di luglio del 1944 le venne affidata la missione di scoprire e individuare la dislocazione delle basi partigiane in quella valle.

Sospettata di essere un’informatrice, venne arrestata e tradotta presso il comando di Mèzard, capo delle bande autonomiste di Champorcher . Sottoposta a interrogatori riuscì a non tradirsi, ma cadde nel tranello tesogli da un infiltrato che si finse di simpatie fasciste. Dopo alcuni contatti con costui gli affidò due messaggi nei quali era indicata la dislocazione delle sedi dei comandi partigiani. Definitivamente scoperta, un tribunale partigiano la condannò a morte il 24 luglio 1944.

Il giorno seguente, condotti davanti al plotone d'esecuzione, i partigiani che lo componevano, ammirati dal coraggio che Franca Barbier dimostrava, si rifiutarono di eseguire l'ordine di sparare. Il comandante del plotone, un ex maresciallo dell’Esercito, l’uccise con un colpo alla nuca.

Franca Barbier, nata a Saluzzo ( CN ), era figlia di un colonnello degli alpini.

Documenti

24.7.44 XXII

Mamma mia adorata,

purtroppo è giunta la mia ultima ora. E' stata decisa la mia fucilazione che sarà eseguita domani, 25 luglio. Sii calma e rassegnata a questa sorte che non è certo quella che avevo sognato. Non mi è neppure concesso riabbracciarti ancora una volta. Questo è il mio unico, immenso dolore. Il mio pensiero sarà fino all'ultimo rivolto a te e a Mirko. Digli che compia sempre il suo dovere di soldato e che si ricordi sempre di me. Io il mio dovere non ho potuto compierlo, e ho fatto soltanto delle sciocchezze, ma muoio per la mostra Causa e questo mi consola.

E' terribile pensare che domani non sarò più, ancora non mi riesce di capacitarmene. Non chiedo di essere vendicata, non ne vale la pena, ma vorrei soltanto che la mia morte servisse d'esempio a tutti quelli che si fanno chiamare fascisti e che per la nostra Causa non sanno che sacrificare parole.

Mi auguro che papà, che (parola incomprensibile) con tantissimo affetto e al quale penso tanto, possa ritornare da te e che anche Mirko non ti venga a mancare. Vorrei dirti ancora così tante cose, ma tu puoi ben immaginare il mio stato d'animo e come mi riesca difficile riunire i pensieri e le idee.

Ricordami a tutti quanti mi sono stati vicini. Scrivi anche ad Adolf W. all'albergo Campana, a Pinerolo, che mi attendeva proprio oggi da lui. La mia roba ti verrà recapitata ad Aosta, Io sarò sepolta qui perché neppure il mio corpo vogliono restituire.

Mamma, mia piccola Mucci adorata, non ti vedrò più, mai più, e neppure ho il conforto di una tua ultima parola, né della tua immagine.

Ho presso di me una piccola fotografia di Mirko: essa mi darà il coraggio di affrontare il passo estremo, la terrò con me.

Addio mamma mia, cara povera Mucci; addio, Mirko mio, fai sempre innanzi tutto il tuo dovere di soldato e di italiano. vivete felici quando la felicità sarà concessa agli uomini, e non crucciatevi tanto per me. Io non ho sofferto in questa prigionia e domani tutto sarà finito per sempre.

Della mia roba lascio te, Mucci, libera di decidere. Vorrei che la mia piccola fede la portassi sempre tu per mio ricordo. Salutami Vittorio. A lui mi rivolgo perché in certo qual modo mi sostituisca presso di te e ti assista in questo momento tragico per noi.

Addio per sempre, Mucci.

Franca

 

 
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Documenti: Torino, primi di maggio1945

Post n°5 pubblicato il 30 Dicembre 2007 da Albatrox1

" Accanto al reparto dei feriti e congelati della divisione, vi era una stanzetta dove un tenente della X Mas ferito alla colonna vertebrale e completamente paralizzato dalla vita in giù, se ne stava isolato assieme alla madre.

Era di Trieste e la madre lo curava già da parecchio tempo. Non aveva che quel figliolo.

Un pomeriggio che ricorderò sempre come un incubo, quattro uomini armati irruppero in quella stanzetta, afferrarono quel povero corpo martoriato, lo presero due per le ascelle e due per i piedi e cercarono di portarlo fuori dal locale. Nessun medico, nessun infermiere, nessuna sorella cercò di fermarli.

La madre intuì ogni cosa e si gettò, urlando sul figlio e con la forza della disperazione lottò per strapparlo a quei violenti. Dritta sulla soglia della stanzetta, a braccia aperte, tentava d'impedire il passaggio del corpo del figlio picchiando a pugni chiusi chi lo trasportava, difendendo disperata la sua creatura. Era tremendamente sola, la colpirono con un pugno tra gli occhi ed egualmente la donna, perdendo sangue dal naso, si batteva con la forza di un leone; a quel punto si gettò a terra tra le gambe di quegli uomini e allora uno di questi la prese per i capelli e la trascinò per la corsia. La donna perdeva ciocche di capelli, ma continuava a dibattersi non cessando mai di invocare aiuto. Poi, rìalzatasi di colpo, si gettò nuovamente sul corpo del figlio che veniva continuamente strattonato qua e là ed era ormai seminudo, con le medicazioni pendenti dalla ferita riaperta.

II tenente non apri mai bocca, solo allungò una mano e strinse quella della madre ricoperta di sangue. Sempre silenziosamente prese ad accarezzare quella. povera mano e poi se la portò alle labbra. Trovava ancora la forza di tacere, fu trascinato davanti ai letti dei soldati. Ci fu chi si alzò in piedi di scatto e chi si coprì il volto con le coperte per non vedere e per non sentire, io pensavo alle campane di Torino che avevano suonato per annunciare a tutto il paese che la guerra era finita. Pensavo all'amore che era scomparso e all'odio che divorava gli esseri che mi attorniavano.

Ora gli urli della donna non avevano più nulla di umano. Il triste corteo passò il cortile seguito dagli occhi di decine di persone senza, che nessuno intervenisse o sbarrasse il passo a chi trasportava quel ferito, i volti dei trasportatori erano divenuti paonazzi, gli occhi induriti.

All'uscita dell'ospedale un capannello di persone fece cerchio attorno a quei quattro che ora cercavano invano di far entrare il ferito in un camioncino sporco ed ingombro di oggetti. Ma non vi riuscivano. Allora con un moto di stizza e di rabbia buttarono a terra quel corpo martoriato e scaricarono su di lui i loro mitra. Spararono tutti e quattro assieme.

Per ore nelle nostre orecchie risuonò martellante l'urlo della povera madre: " Maledetti, maledetti assassini "...

Testimonianze tratte da " Carità e tormento - memorie di una crocerossina ", di Antonia Setti Carraro - Mursia Editore, 1982

 
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Documenti: i crimini nazifascisti in Liguria

Post n°4 pubblicato il 30 Dicembre 2007 da Albatrox1

I crimini di guerra di maggiore gravità commessi in Liguria dalle forze nazifasciste.

 

1)    L’eccidio del monte Turchino, avvenuto nell’aprile 1944 in località monte Turchino, dove 59 ostaggi politici, cittadini italiani prelevati dalle carceri giudiziarie di Marassi, furono uccisi per rappresaglia in seguito all’esplosione di un ordigno che uccideva 7 militari in un cinema di Genova, cinema riservato esclusivamente alle forze armate tedesche, nel quale era precluso ad estranei l’ingresso, controllato da militari tedeschi.

 

2)      Massacro della Benedicta: il 9 aprile 1944, in località di campagna denominata Benedicta, un centinaio di partigiani e contadini rastrellati nella zona venivano uccisi con scariche di mitra.

 

3)      Eccidio di Cravasco: il 23 marzo 1945 venti detenuti politici ristretti nelle carceri giudiziarie, tra i quali due mutilati ed alcuni malati, vennero trasportati nel cimitero del comune di Cravasco, e ivi fucilati in massa.

 

4)      Eccidio di Portofino: il 3 dicembre 1944, oltre 21 detenuti politici prelevati dalle locali carceri giudiziarie, dopo un consiglio tenuto presso il comando tedesco della SS di Genova, che ne decretò la soppressione, furono trasportati sul promontorio di Portofino e massacrati; le loro salme furono buttate in mare.

 

Responsabili dei fatti su esposti furono i militari tedeschi, coadiuvati dalle forze armate repubblichine, ed in particolar modo dalla formazione Brigata Nera. Mentre la quasi totalità degli italiani corresponsabili di detti crimini di guerra è stata assicurata alla giustizia, non si è potuto procedere nei confronti dei tedeschi che furono i maggiori responsabili.


È accertato peraltro che a dirigere le criminose operazioni in grande stile di carattere militare e politico, fu il Comando delle SS tedesche di Genova, avente la sede nella Casa dello Studente. In detto comando infatti vi erano vari reparti che abbracciavano ogni attività riguardante il controllo politico e militare della zona ( reparto contro i partigiani, contro i comunisti, contro gli ebrei, spionaggio e controspionaggio ), ed era il suddetto comando che dirigeva le operazioni di rastrellamento nelle fabbriche, nelle campagne e nelle vie cittadine, ed elementi ad esse appartenenti che ordinarono e diressero gli eccidi sopracitati.


Nella sede stessa del comando furono commessi molti crimini di guerra consistenti in sevizie di ogni genere alle quali furono sottoposti i detenuti politici, sevizie che in alcuni casi provocarono la morte in sede di interrogatorio.


1) Engel Siegfried, colonnello, comandante del reparto SS di Genova, ed a lui è da ascriversi certamente la maggiore responsabilità dei crimini commessi in questa giurisdizione. Si trova in atto in mano agli alleati.


2) Ableiter Wolfango di Carlo e di Uber Anna, nato a Stuarda l’1.9.1907, il quale trovasi in atto nel campo di concentramento alleato di Rimini. Deve rispondere di efferate sevizie in danno di cittadini italiani. Partecipò inoltre all’eccidio di monte Turchino.


3) Kaess Otto, tenente, comandante del comando SS, partecipò all’eccidio del Turchino ed al massacro della Benedicta.


4) Janisch Hans, maresciallo, dirigente il reparto razziale della Casa dello Studente, accanito nella persecuzione degli ebrei, seviziatore sadico, torturava gli interrogati a sua disposizione nel modo più inumano. Tra le sue vittime certo Moscato Paolo: in seguito alle torture subite, decedette.


5) Peters Giuseppe, maresciallo, dirigente il reparto contro i partigiani nella Casa dello Studente, spietato ed inumano, partecipò all’eccidio del Turchino e della Benedicta. Da informazioni non confermate pare sia deceduto durante la ritirata da Genova nei giorni della Liberazione.


6) Lassner Rudholf, maresciallo, dirigeva il reparto militare di custodia dei detenuti politici nelle locali carceri giudiziarie di Marassi sottoponendoli a trattamenti inumani; diresse l’eccidio di Cravasco: dopo aver mitragliato le vittime diede loro il colpo di grazia con la rivoltella.


Altri componenti il suddetto comando tedesco sono: Maresciallo Frontull, Maresciallo Scholz, Maresciallo Kalemberg, Maresciallo Werner Hunh non meglio identificati.
Si segnala inoltre un ufficiale di marina, certo Reimers, il quale partecipò all’eccidio di Portofino e diresse il trasporto dei cadaveri in alto mare dove furono buttati con pesi attaccati ai piedi.

 

Lettera della Prefettura di Genova in data 31 luglio 1947 al Ministero dell'Interno

 

 
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Pietro Secchia ed il mito della resistenza tradita

Post n°3 pubblicato il 27 Dicembre 2007 da Albatrox1

Pietro Secchia nacque ad Occhieppo Superiore nel biellese il 19 dicembre 1903, è stato un importante dirigente del Partito Comunista Italiano ( PCI ).
 
Secchia nato da una famiglia operaia e frequentò brillantemente il liceo classico, ma a causa della povertà fu costretto ad abbandonare gli studi e a cercarelavoro. Nel 1917 venne assunto come impiegato in un'industria laniera, ma venne licenziato tre anni per aver partecipato ad uno sciopero.
Nel 1919 si iscrisse alla FIGS  ed iniziò un'attività politica sempre più intensa di lotta contro il fascismo.
 
Nel 1931 il Tribunale Speciale lo condannò a 17 anni e 9 mesi di reclusione per attività antifascista. Nel 1936 la sua condanna fu trmutata in confino.
 
Nel 1943 Secchia partecipò alla Resistenza in qualità di commissario generale delle Brigate Garibaldi, comuniste.Come Longo, sosteneva una politica rivoluzionaria che preparasse all'insurrezione armata.
 
Nel dopoguerra, Secchia dovette accettare la svolta di Salerno di Palmiro Togliatti, che spingeva il PCI in direzione della collaborazione con gli altri partiti di massa e con le istituzioni.
 
La posizione di Secchia si indebolitò considerevolmente a partire dal 1954, dopo l'uscita dal PCI di Giulio Seniga, suo stretto collaboratore.dopo aver diffuso un documento segreto del Comitato del PCUS, in cui si invitavano i partiti comunisti a ripristinare i metodi democratici per non ripetere gli errori commessi in URSS.
 
Pietro Secchia fu l’esponente comunista che più di qualsiasi altro incarnò il mito della resistenza tradita, del sogno rivoluzionario, dell’aspirazione comunista alla conquista del potere tramite l’iniziativa popolare rivoluzionaria, contro il disegno togliattiano basato sulla via pacifica al comunismo.
 
Il mito della resistenza tradita e incompiuta contribuì a formare e plasmare l’identità politica delle Brigate rosse.
Fonte: Wikipedia

 
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Resistenza: il capo partigiano Gemisto

Post n°2 pubblicato il 26 Dicembre 2007 da Albatrox1

Francesco Moranino nacque a Tollegno ( Vercelli ) il 16 febbraio 1920, ed è morto a Grugliasco ( Torino ) il 18 giugno 1971.

Nel 1940 si era iscritto al Partito comunista clandestino e nel 1941 era finito davanti al Tribunale speciale. Condannato a 12 anni di reclusione, Moranino fu detenuto a Civitavecchia sino alla caduta del fascismo.

Nel settembre del 1943, con il nome di battaglia di Gemisto, le prime formazioni partigiane nel Biellese. Dopo essere stato comandante del distaccamento Garibaldi Pisacane, Gemisto assunse il comando della 50a Brigata Garibaldi che diresse sino a quando gli fu affidato l’incarico, prima di comandante e poi di commissario politico della XII Divisione Garibaldi Nedo.

Gemisto è stato accusato della strage di Strassera dive venne ucciso l'agente dell'OSS e 4 partigiani. Emanule Strassera era stato inviato nel Nord Italia dagli angloamericani con il compito di coordinare la lotta partigiana. I cinque vennero uccisi il 26 novembre 1944 in località Portula. Nel1956, il processo svoltosi a Firenze si concluse con la condanna da parte della Corte d'Assise all’ergastolo di Moranino per sette omicidi ( nel 1945 vennero uccise le mogli di due partigiani ). Si legge nella sentenza: « Perfino la scelta degli esecutori dell'eccidio venne fatta tra i più delinquenti e sanguinari della formazione. Avvenuta la fucilazione, essi si buttarono sulle vittime depredandole di quanto avevano indosso. Nel percorso di ritorno si fermarono a banchettare in un'osteria e per l'impresa compiuta ricevettero in premio del denaro. »

Moranino scappò a Praga. Il Presidente della Repubblica Gronchi ridusse la pena a 10 anni, e Saragat concesse a Moranino la grazia.

Fonte: Wikipedia

 
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Il movimento politico Giustizia e Libertà

Post n°1 pubblicato il 26 Dicembre 2007 da Albatrox1


Giustizia e Libertà fu un movimento politico fondato a Parigi nel 1929 da un gruppo di esuli antifascisti.

Il movimento era composito per tendenze politiche e provenienza dei componenti, ma era comune la volontà di organizzare un’opposizione attiva ed efficace al fascismo, in contrasto con l’atteggiamento dei vecchi partiti antifascisti giudicato debole e rinunciatario.

“Provenienti da diverse correnti politiche, archiviamo per ora le tessere dei partiti e fondiamo un’unità di azione. Movimento rivoluzionario, non partito, “Giustizia e libertà” è il nome e il simbolo. Repubblicani, socialisti e democratici, ci battiamo per la libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale. Non siamo più tre espressioni differenti ma un trinomio inscindibile ”: così si apre il primo numero del periodico pubblicato dal gruppo.

L’obiettivo di Giustizia e Libertà era quello di preparare le condizioni per una rivoluzione antifascista in Italia che non si limitasse a restaurare il vecchio ordine liberale. ma in grado di creare un modello di democrazia avanzato e al passo con i tempi, aperto agli ideali di giustizia sociale, che sapesse inserirsi nella realtà nazionale e in particolare raccogliesse l’eredità del Risorgimento. Riprendendo le idee di Piero Gobetti, di cui era stato collaboratore, Carlo Rosselli considera il fascismo una manifestazione di antichi mali della società italiana e si propone quindi non solo di sradicare il regime mussoliniano, ma anche di rimuovere le condizioni politiche, sociali, economiche e culturali che lo avevano reso possibile.

Fonte: Wikipedia


 
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