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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 2

Post n°556 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

CAP 2 (CORSO)

Un colpo di vento, in effetti, c’era stato un po’ di tempo prima. Una folata improvvisa di quelle che quasi sempre ti buttano addosso solo terra e cartacce, ma che ogni tanto invece ti portano freschi aromi e piacevoli fragranze. 

Sei mesi prima che mi licenziassero, la Mundus aveva deciso di sottopormi ad uno dei programmi motivazionali che periodicamente teneva per i venditori. Vista la mia precaria situazione, per una volta tenni a freno la mia linguaccia evitando di dire che secondo me quelli avevano bisogno di un corso con finalità contrarie, o di un mese in un centro di filosofia Zen, dopo un bella dose di valium. Anche se io non ero un venditore, il mio caso era considerato così disperato da indurre i capi a pretendere la mia partecipazione. Era una specie di pre-ultimatum.

Arrivai a lezione cominciata perché la “Mucca” aveva deciso di chiudersi dentro. La Mucca era la mia macchina da quasi vent’anni ormai, una Taurus del 1983. La chiamavo così perché più che un toro, sembrava una mucca pezzata, colore ruggine con sprazzi di grigio, memoria del colore che doveva aver avuto nel secolo passato. Di sicuro un’esemplare unico e di gran lunga la macchina più bella della città. E soprattutto la più volubile e umorale: era lei, infatti, a decidere se farmi entrare o no. Non so come facesse, ma, se era di cattivo umore o si sentiva stanca o soltanto perché gli girava così, era capace di bloccare la portiera per ore prima di cedere. Anche l’elettrauto mi aveva spiegato che ci aveva perso due giorni smontando e rimontando tutto decine di volte e non aveva trovato niente di guasto, niente che potesse giustificare quel ‘comportamento’, anche lui lo chiamò così.

In ritardo e zuppo di pioggia per un acquazzone improvviso, entrando cercai in tutti i modi di non farmi notare, sgusciando dietro le colonne che dividevano in quattro zone aperte ma distinte l’ampia sala del Convento delle Vergini, dove si teneva il corso. Allo stesso tempo, però, provai ad evitare di sedermi vicino a Mancuso, al quale rivolsi la mia prima occhiata. Non sedermi vicino a lui, e alla sua strana combinazione di peli, infatti, era il primo e unico obbiettivo che mi ero prefissato recandomi al corso. Ovviamente non era rimasto che un posto: al suo fianco.

Lei era in piedi e parlava a una ventina di persone. Capelli corti neri, manageriale, decisa. Si interruppe solo un attimo per guardarmi con la coda dell’occhio. Ricordo perfettamente le prime parole che le sentii dire: “In qualsiasi lavoro, così come nella vita, ma nel vostro lavoro di venditori in particolar modo, è fondamentale dare una immagine di sé vincente. Il cliente ha bisogno di avere risposte, non di sentire domande che voi gli potreste porre con una immagine dubbiosa o addirittura tormentata. Dietro di me vedete riportate in uno specchietto le parole chiave dell’immagine del fallimento sulla vostra sinistra e del successo sulla vostra destra”. Non potevo ancora immaginare quanto fossero profetiche quelle parole pur nella loro genericità. Sulla lavagna elettronica appariva uno specchietto a due colonne di parole con le iniziali di un altro colore che formavano le due parole chiave, secondo la relatrice, della nostra esistenza: FAILURE e SUCCESS. Per quel che ricordo, era una cosa più o meno così:

 

 

 

 

Parole Chiave

Frustrazione                               Senso di…non ricordo

Axxxxxxxxx                                Understanding

Insicurezza                        Coraggio                                                           Loneliness                             Cxxxxxx  

Uxxxxxxxx                                 Esteem                                    

Risentimento                              Self confidence

Exxxxxxx                                   Self xxxxxxxxx

 

Fu una strana miscela di sensazioni. Lei che sembrava tratta da una di quelle brochure di quelle scuole a pagamento, con gli occhialini alla Nicole Kidman in Eyes wide shot, e una bocca della quale non vi sto a dire qui le solite cose che chissà quante volte avrete sentito: carnosa, sensuale e continuate voi tenendo conto che potete aggiungere molto senza sbagliarvi. Il suo incedere professionale fra la cattedra e lo schermo, che non riusciva a nascondere un corpo fatto per il sesso, in mezzo alle colonne austere e sotto il soffitto alto della sala del convento creavano una confusione felice, quasi che la manager, la peccatrice e la santa si fossero date appuntamento tutte in quel luogo, a quell’ora e, soprattutto, in quel corpo.

“Dovete sempre tenere presente che la felicità è uno stato mentale. Sono le cicatrici emotive a rovinarci la vita, dobbiamo evitare di portare alla luce i ricordi spiacevoli”.

“Cazzate!”, gridai, ma quello che avrei voluto dire era più esattamente con ‘quella bocca puoi dire quello che ti pare’. Mi stupii di me stesso: fino ad allora, tranne quando suonavo, la mia rappresentazione fisica quando intorno a me c’erano più di cinque persone era l’ologramma. E l’avevo fatto oltretutto per una cosa  che non mi interessava.

“Come scusi? Lei è appena arrivato ed ha già capito tutto?”. Doveva essere un rimprovero ma guardandomi, forse le sembrai buffo, trafelato per il ritardo, imbarazzato e fradicio com’ero, non poté fare a meno di sorridere. Sorrideva anche Mancuso, creando una strana simmetria ad elastico fra peli del viso e quelli cranici, avevo sempre notato che l’assieme sembrava un elastico con ai due capi i due ciuffetti e le rughe intorno alla bocca che ne costituivano la struttura, un elastico che si stendeva quando era serio e si afflosciava quando rideva. Sorrideva anche Mancuso, ma di questo francamente mi importava di meno.

Prima informazione: non era italiana, perlomeno non completamente. Parlava perfettamente la nostra lingua, ma si sa che per quanto ti sforzi di essere perfetto, le origini non le levi mai. E la pronuncia era quel difetto quasi impercettibile che fa di una bella donna un essere unico. So che di per sé il fatto di non essere italiana non rappresenta un motivo di attrazione, ma, che vi devo dire, evidentemente nessuno sconfigge mai completamente quello che di sé non gli piace. E la mia parte di provinciale che non riesco a eliminare stravede per l’esotico.

Seconda informazione: aveva un gran bel sorriso.

Una volta, tanto tempo prima, avevo stabilito che chi arrivava a cinque delle qualità che più mi piacevano veniva proclamata la mia donna ideale.

“Volevo dire che tutto quello che ha detto, rimuovere i ricordi spiacevoli, cancellare le ferite, porta a un uomo senza coscienza e senza passato, cioè qualcosa di diverso da un uomo”, cercai di spiegare superando il mio imbarazzo.

Dovevo sforzarmi di fare finta di non vedere i sorrisini e le occhiate di intesa degli altri presenti al corso, le emerite teste di cazzo che stavano dando il 110%, che Mancuso, con l’elastico floscio, guidava contro di me come un direttore d’orchestra.

“Mah, non credo. Siamo qui proprio per cercare di convincervi del contrario”, disse. “E di convincermi”, aggiunse sottovoce, in un modo che, credo, colsi solo io in quella sala.

 Era successo quello che non mi sarei mai aspettato, mi ero appassionato alla lezione e mi spiacque molto quando lei, salutando, ci invitava a ritornare il mercoledì successivo. Tutto era durato così poco, quando ero arrivato la lezione era quasi finita. La “Mucca”, infatti, quella volta aveva proprio esagerato. Mentre i 110 e lode facevano crocchio parlando ovviamente del robottino, velocemente mi avvicinai all’uscita. In un film lei si sarebbe affiancata e mi avrebbe detto: “Comunque, che ne dice di approfondire davanti a un caffè?”. E io, sempre in un film, avrei risposto, con la faccia più da duro che mi veniva: “Se le interessa un uomo cicatrizzato”.

“Forse è per questo che mi interessa”, rispose la protagonista del mio film.

Terza informazione: lei sapeva come si fa.

 Uscimmo dal chiostro del convento come in un quadro di…., sentendo da dietro le finestre del Cinquecento gli occhi vigili delle suore. Mi vergognavo della ‘Mucca’ e pensai di proporre una passeggiata a piedi fino al Caffè Renzelli. Ma, anche a voler tagliare dai vicoli, era una bella scarpinata, soprattutto con i tacchi e la pioggia sui sampietrini. Non restava che la mia cara vecchia ‘Mucca’, già uno spettacolo a vedersi. Il rottame di solito faceva media, nel senso che per una volta che mi faceva penare compensava la volta successiva con un’apertura al primo colpo. Speravo che la tendenza fosse rispettata in quell’occasione. Ma, come tutti sanno, la statistica è quella cosa per cui se il quoziente intellettivo medio è, facciamo, pari a 80, Einstein è Einstein e Mancuso, nonostante la statistica, rimane quella grande testa di cazzo che è.

 Beh, la scena di lui che prova ad aprire una portiera e lei che se la ride l’avrete vista anche questa in qualche film, comico ovviamente, ma credo che sia stato in quel momento che la conquistai. Tiravo calci e sacramentavo contro la ‘Mucca”, che ad ogni calcio perdeva polvere di ruggine come fosse sangue e più quella dannata ‘Mucca’ resisteva più lei si scioglieva. Forse l’intenzione della mia vecchia era il contrario, forse era gelosia per quella che vedeva come una profanazione, ma il risultato fu opposto. Decisamente opposto. Quando la ‘Mucca’ ritenne di avermi fatto fare un figura di merda tale da portarmi a pensare che Laura mi avrebbe messo cianuro nella consumazione che avrei preso di lì a poco al bar, riuscimmo a entrare. Non senza l’ultimo colpo di teatro della mia amica a quattro ruote. Non so come fu, forse una vendetta per le botte, forse un estremo tentativo di rovinarmi la serata, ma giuro che quell’allarme non scattava da quando la ‘Mucca’ correva con Nuvolari o forse addirittura con Fangio. Il fatto incredibile era che l’elettrauto mi aveva detto che non c’era nessun sistema di allarme nella mia macchina. Cominciai a pensare che dovevo cambiare elettrauto o che la Mucca lo avesse minacciato o corrotto in qualche modo perché eravamo appena entrati quando iniziò a suonare una specie di campanaccio da bovino svizzero. L’ultima cosa di cui aveva bisogno quella megera di macchina era un allarme funzionante. Probabilmente le sarebbe servito di più una vasca Jacuzzi o, che so, un paio di sci di fondo.

Entrai pregando che Laura non assumesse l’aria schifata di chi entra in una macchina vecchia, invece per fortuna ancora rideva. Una risata argentina coperta dal muggito della Vaccaccia maledetta. Anche quella mi aveva rovinato la vacca: la prima risata della donna che ti piace”.

“Che grinta, la vecchia. Sempre così?”.

“Invecchiando peggiora. Forse dovrei cambiarla”, dissi simulando serietà.

“Forse. Arriveremo al Caffè?”, disse.

Quarta informazione: conosceva l’ironia.

Mancava solo la quinta per far rullare i tamburi e far scattare nella mia testa la frase: “Signore e signori, ladies and gentlemen, è con immenso piacere che vado a presentarvi… la mia donna ideale”.

 

 
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