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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 5 BIS

Post n°560 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

CAP 5- SECONDA PARTE

Quando ebbi finito di parlare, Ale assunse un atteggiamento conciliante nei miei confronti, un’aria da fratello maggiore saccente che mi infastidì ancora di più.

“Senti Stefano, ora ti ho ascoltato, ma te lo dico con la massima calma, da amico, da fratello, devi smetterla di andare dietro alle tue fantasie malate. La situazione è difficile, ci sono contestazioni sempre più frequenti, episodi di violenza ripetuti, si può degenerare da un momento all’altro…”.

“Ale, ti chiedo una sola cosa: so che ti sembrerà impossibile, ma fammi ritornare in quella merda di azienda. Ho bisogno di stare là”.

“Smettila Stefano”, disse alzando la voce. Ale però mi conosceva,[is1]  sapeva quanto detestassi quel posto e quel lavoro e capiva che, se ero arrivato al punto di chiedergli di ritornare lì, un minimo di fiducia la meritavo.

Lo portai in piazza XI settembre, dove, da mesi, dopo le notizie continue di scandali politici, unite alle difficoltà di sussistenza, il tasso di disoccupazione più alto d’Italia, nuove tasse, mancanza di acqua in molti quartieri, si era stabilito il centro di operazioni di volantinaggio, manifestazioni, assemblee, sit-in, dell’Unione per il sud. Nel tragitto Ale non disse una parola, sembrava preoccupato, come se la cosa gli stesse sfuggendo di mano.

La pioggia aveva portato via la nebbia e arrivando a piedi da Palazzo degli Uffici era possibile scorgere da lontano un gruppo di manifestanti con degli striscioni. Riuscii a leggerne qualcuno.

‘Sindaco, dammi una consulenza che ti pago la spazzatura”. “Pago l’acqua, ma non mi arriva”. “Lavoro 200 giorni all’anno per pagare lo stipendio di Previti”. “Ne lavoro altrettanti per la barca di D’Alema”. “Ho evaso mille euro: voglio la stessa cella di Previti”. “D’Alema e Veltroni, la casa, pagatevela da soli”. “Pago le tasse per non far pagare l’Ici ai preti pedofili”.[is2] 

Avrei voluto parlarne con Ale, ma rinunciai avendo capito che non voleva parlarne e pensando di conoscere quello che mi avrebbe risposto.

“Qualunquisti”, sono certo mi avrebbe detto.

Allora pensai che tanto valeva darmi direttamente la risposta. “Il qualunquismo è la versione pacifica della rivoluzione ed è l’ultimo passo prima della rivoluzione stessa. Dopo, c’è solo l’uso della forza. Alla piazza non interessano le spiegazioni, i ragionamenti, il fatto che non esista nesso causale fra le tasse e Previti, o qualsiasi altro mascalzone. Tutto questo è il ‘latinorum dell’azzeccagarbugli’ che Renzo con i due capponi in mano non capisce, quello che capisce Renzo, la folla, è che la legge non è uguale per tutti e che il mondo è sommamente ingiusto. Questo lo capisce e, soprattutto, lo sente, e quando non ne può più cerca di aggiustarlo a modo suo, l’unico che ha veramente a disposizione, anche se non si fa illusioni, perché qualche cosa di storia la sa anche la folla anonima. E sa che morto un papa se ne fa un altro e tutto ritorna come prima. Forse è solo che l’uomo non può vivere eternamente senza illusioni”. Queste furono più o meno le mie riflessioni guardando i cartelli e, soprattutto, chi li issava. Facce stanche di aspettare, di arrangiarsi, mani grosse da lavoratori, fortunati ancora per poco da quello che si leggeva. Insomma, le eterne facce della manovalanza dell’umanità. Quella volta però gli occhi erano diversi, erano occhi di chi è pronto a tutto, gli occhi di chi si era stancato di farsi prendere tutto: dignità, futuro, salute, soldi.

Quel giorno capii che Ale non aveva mai voluto una ribellione, che il mio amico era sempre stato solo un teorico che si era alimentato di tutto un immaginario rivoluzionario che cozzava [is3] contro la sua vera natura, che era quella, lei sì, di discernere, di operare distingui, di elaborare collegamenti precisi fatti da cause, concause e effetti. O almeno così credevo fosse.

Ma se era così perché allora li aveva portati fin lì? Perché aveva alimentato, con i suoi articoli e le sue inchieste, il malcontento e la protesta fino a invocare più volte una rivolta? Si era invaghito del ruolo di raffinato[is4]  capopopolo fino a farsi sfuggire la situazione di mano o qualcosa era cambiato in lui?

 

In quel momento non potevo sapere che anche il problema del mio amico Ale si chiamava Johann Baltis.[is5] 

Questo posso solo immaginarlo ora, riflettendo sul fatto che  le cose più lontane, per un dettaglio, per una storia personale, per legami insospettati, possano essere intrecciati in modo inestricabile. Dall’altra parte dell’oceano, più o meno mentre io e Ale eravamo fra la folla manifestante, Johann Baltis[is6]  si alzava come ogni mattina alle 6,30, faceva colazione, un’ora di pesi, e alle 8,30, come ogni mattina di ogni dannato giorno, era nel suo ufficio a Wall Street. Sì lo so, come si fa a dirlo. Avete ragione, magari non fece pesi e fece ginnastica, e magari quel gran pezzo di stronzo non si sveglia alle 6,30, ma alle 7, o non dorme proprio, ma francamente non vedo perché ce ne dovrebbe fottere più di tanto. Quello che conta è che sono più o meno tutti uguali e fanno più o meno tutti le stesse cose. E anche se non le fanno per noi comuni mortali è come se le facessero. Tanto leggeremo sempre su qualche giornale patinato del cazzo che riescono a fare tutto, come se solo per loro esistesse la giornata di 48 ore.

Perché un uomo così, vi starete chiedendo, avesse a che fare con Ale e dovesse preoccuparsi di quello che succedeva in un piccola città della piccola Italia, per di più dello sperduto profondo sud, rientrava nei misteri più insondabili dell’esistenza. Perché un uomo così, arrivato a un certo punto, in cui ogni starnuto che fa vale milioni di dollari, non chiude tutto e si dedica ad attività meno impegnative e rischiose, più piacevoli ecco, è un fatto che avrebbe potuto non trovare mai uno straccio di spiegazione accettabile. Almeno per me.

Avidità smodata, potere per il potere, piacere di dominare i propri simili, delirio di onnipotenza, intreccio di rapporti da cui risulta a un certo punto impossibile districarsi, paura del vuoto esistenziale che ne deriverebbe, tutto questo, o anche uno solo di questi elementi, probabilmente impediva a Johann Baltis di disinteressarsi anche del più piccolo granello del suo immenso impero. Anche perché Baltis non dimenticava mai da dove era venuto ed era troppo accorto per dimenticare anche solo per un attimo che basta un granello di sabbia per far inceppare anche la macchina più sofisticata. E soprattutto, l’uomo forse più potente della terra non dimenticava mai il puzzo che portava in casa il padre di mattina presto, rientrando dal suo giro a raccogliere l’immondizia di tutta la città. Ed è nel desiderio, diventato col tempo una vera e propria ossessione, di levarsi di dosso quella [is7] puzza di rifiuto che bisogna cercare il motivo del suo amore per il robottino, la sua creatura preferita, lo strumento per raggiungere il suo ideale di vita: la pulizia assoluta, un mondo sterilizzato e asettico. La creatura per la quale si era rivolto agli ingegneri della Nasa, ordinando loro di fare non uno, ma decine di passi in avanti rispetto alla tecnologia disponibile, ossia di costruire un mostro compatto con un motore capace di sprigionare 650 dyne, pari a 3000 W e 18000 giri al minuto; con i circuiti elettrici in oro, con rifiniture in ABS come quelle di una Ferrari; con 70 funzioni, 18 brevetti, 34 marchi di qualità e numero di telaio unico nella gold card. Un mostro, insomma, capace di prestazioni incredibili, che garantivano una pulizia che era quanto di più vicino possibile al suo ideale di perfezione. Non deve sorprendere più di tanto quindi se le notizie sul robottino fossero quelle che gli premevano di più, come se da queste dipendesse la sua stessa vita, o perlomeno quello che ne era il suo scopo principale e se, come conseguenza logica di quanto detto, la prima telefonata di ogni mattina era per il responsabile alle relazioni con le filiali sparse per il mondo per conoscere i dati riguardanti la diffusione della sua amata creatura.

 Quello che è difficile da spiegare è come si arrivi da Johann Baltis, magnate e padrone di metà globo, all’on Mezzatesta[is8] , detto Manolesta, piccolo politico locale, incarnazione dell’affarista senza scrupoli e senza qualità, eletto con i voti controllati da Pa’squalo, capo della malavita locale.

Comincerò col dirvi che uno di quei giorni Arturo Sesti, responsabile della filiale del Sud d’Italia avrà detto a Johann Baltis in persona che nella sua zona c’erano dei problemi, che le vendite non andavano come si sperava e che probabilmente tutto ciò era dovuto al fatto che si viveva in uno stato di agitazione sociale che non contribuiva al successo del prodotto.

E vi aggiungerò che Johann Baltis non la prese bene e decise che si doveva passare alle maniere forti. E quando uno come Johann Baltis decide di giocare duro, lo fa come uno che sa che mezzo mondo gli deve qualcosa e che l’altro mezzo è quello che, nella sua visione, non conta un cazzo. E quando parte uno come Johann Baltis è come una scossa elettrica che va dal midollo giù per la spina dorsale fino al buco del culo del mondo.

 
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