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« A QUALCUNO (NON) PIACE (...A QUALCUNO (NON) PIACE (... »

A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 3

Post n°557 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

CAP 3

Arrivammo al Caffè Renzelli e, visto che era tornato a splendere il sole, ci sedemmo all’aperto, quasi sotto alla targa che informa che quel Caffè è un ‘locale storico’ perché è lì dal 1800. Mi venne da pensare a quanti stronzi si erano seduti a quei tavoli in tutti quegli anni e che uno in più non avrebbe fatto differenza.

“Tu sei la classica persona che gode del suo dolore”, mi disse così, a bruciapelo.

“Mi conosci da venti minuti e hai già emesso la tua sentenza”.

“È il mio lavoro. E poi la prima impressione, c’era una frase di Oscar Wilde sull’importanza della prima impressione, che non ricordo bene ma faceva più o meno così: ‘solo i superficiali non si fidano della prima impressione’, sì, qualcosa del genere…”.

“Mah, anche ‘sta storia di Oscar Wilde, gli attribuiscono qualsiasi cosa, a credere a quello che si legge, doveva essere un tipo che andava in giro a rompere i coglioni a tutti quelli che incontrava. Un professionista della devastazione testicolare letteraria”.

Solo dopo aver pronunciato quella frase mi resi conto di averle dato, senza volerlo, solo per fare lo spiritoso, della scassacoglioni. Ripresi allora il discorso iniziato da lei: “Voi invece vi impegnate a costruire uomini senza memoria, esseri più manipolabili, più controllabili”, dissi cercando di colmare più in fretta possibile quell’attimo di silenzio che si era creato.

“Voi chi? io sono solo una tutor e poi noi cerchiamo solo di rimuovere i ricordi negativi”.

“L’uomo è la sua memoria, tutta intera...”.

“Ma gli errori del passato portano a nuovi errori, alla sconfitta”.

“Cazzo! Tutti a parlare di essere vincenti, ma è poi così importante essere vincenti, ammesso che qualcuno lo sia? E poi chi decide che cos’è, essere vincente? Qual è la vittoria? Chi decide che cos’è da considerarsi vittoria e che cosa sconfitta? Io mi sentivo vincente. Avevo una compagna che amavo, un figlio che abbracciavo ogni volta che volevo e facevo quello che desideravo fare, cioè suonare la mia tromba. Ma per tutti, già allora, ero una specie di fallito. E poi credo che, in ogni caso, l’importante non è vincere, ma essere in campo con la voglia di lottare per essere felici”.

“Ma è proprio quello che manca a te, la voglia di lottare. Continue sconfitte distruggono la voglia di lottare, di mettersi in gioco”.

“Mah, forse hai ragione tu e io sono solo un animale ferito che si piange addosso. Ma adesso parliamo di te. Non sei italiana, anche se parli quasi perfettamente la nostra lingua, lavori anche tu nella Mundus, visto che emetti sentenze mi devi dare qualcosa in più, non ti pare?

“Giusto, sono italo-colombiana…e sono da circa un anno a Cosenza…”.

“Dove ovviamente ti trovi male”.

“No, non è vero. Fatico ad accettare alcune cose, ma ne adoro altre…”.

“Sono curioso, ho sempre pensato che solo chi viene da fuori può dare un giudizio lucido sul posto in cui arriva. Ovviamente voglio gli aspetti negativi…”.

“Posso sparare sentenze?”.

“Concesso”.

“Guarda, la prima impressione che mi ha fatto è stata quella di una città triste, che si annoia, annoiata da se stessa. E poi di una città ingessata, troppo rispettosa dei ruoli sociali, delle superiorità vere o solo presunte, quasi sempre autoassegnate. Una città senza ironia e soprattutto senza autoironia, che si prende troppo sul serio e che si dà un tono decisamente più alto di quello che le è congeniale…”.

“Uuhhh, pensavo di essere io quello critico”, la interruppi in quella che stava diventando un’accalorata orazione, anzi un’invettiva.

E ancora non ho finito. Lasciami dire, per favore. Sono cose che quando mi capita di parlarne mi mandano in bestia. Mentre ne parlo mi sale un calore su fino alla testa, su certi argomenti, in particolare il sesso, la libertà sessuale, è come sbattere contro un muro. È come se questa città fosse rimasta a valori dell’800. Mi sembra che quello che conti è solo il decoro, rappresentato dalla famiglia e dal lavoro, la rispettabilità. Ecco credo che vi sia un eccesso di perbenismo. Si fa fatica ad accettare, per ignoranza, per grettezza, anche per cattiveria, la libertà della donna. Non le si riconoscono desideri propri. In questo, credo che la Chiesa cattolica, con la sua morale sessuofobica, abbia fatto danni devastanti. Senso di colpa e peccato ecco quello che mi ha colpito da subito, soprattutto per le donne. Credo che una donna che vuole essere libera, anche solo di assecondare i propri desideri, in un posto come questo possa anche rovinarsi la vita. E le altre donne invece di essere solidali, sono le prime a darti addosso… Sto esagerando?”.

“No, no, un po’ tranchant come ogni generalizzazione, ma ci può stare. Quello che credo io è che ogni città abbia più anime, come le persone, forse ancora di più delle persone. Dipende molto da chi ti è capitato di frequentare. E Cosenza è come una donna tranquilla che cova il fuoco nelle viscere. Qualcun altro potrebbe dirti che Cosenza è la città dei vizi. Il punto è che alcuni sono tollerati e altri no”.

“Mmmh, interessante…e che cosa direbbero ora i tuoi intolleranti se una donna libera come me facesse quello che desidera dal momento in cui un uomo altrettanto libero si è seduto su quella sedia e cioè mettergli le mani sulla stoffa dei pantaloni e tastare quello che da quando è qui è diventato il suo primo pensiero”.

“Quasi tutti penserebbero che questa donna sia una poco di buono”, le risposi sorridendo.

“Ma perché? Cosa ci sarebbe di male? Chi ne sarebbe danneggiato?”.

“Vuoi che ti faccia una lista?”.

“Te la faccio io: cittadini irreprensibili e pii, difensori di quello che una volta si chiamava comune senso del pudore, mogli frustrate che non fanno sesso da anni, mariti che vanno a puttane, magari nei nuovi viaggi della speranza all’est o dalle mie parti, preti che non possono altro che toccare ragazzini di nascosto e che non sanno niente di sesso naturale e libero e pontificano su una cosa che non conoscono. Tutta gente che morirebbe d’invidia se io facessi questo”.

Eravamo seduti di tre quarti: in un ipotetico orologio, se io ero il sei, lei era il nove, e quando lei lasciò scivolare la sua mano prima sulle mie gambe e poi, risalendo, sulla cerniera dei miei pantaloni, persino i gatti si girarono.

“Che dicano quello che vogliono, hombre, nessuno ci può levare questo momento”.

Per uno che la pensa come il regista Bertolucci, quello di ‘Ultimo tango a Parigi’, ossessionato dalle mani sulle patte dei pantaloni, era un gran bel momento. Dissi la prima cosa che mi venne in mente, quasi sempre non sono frasi che rimarranno nella storia come quelle di Oscar Wilde: “Credo che tu sia stufa di stare qui?”.

“Te lo stavo per chiedere io. Da me o da te?”.

“Forse è meglio da te. I perdenti non hanno case dove chi entra dice ‘carino qui’. Il massimo che ho sentito è stato: ‘però, originale’. La scopata è stata una delusione: finta come lei”.

“Anche la mia non è una casa da rivista; le multinazionali sono molto attente ai bilanci, ai loro ovviamente. Ma è una casa calda, hombre, e c’è un letto comodo. E poi è molto vicina…”, disse sfiorandomi la gamba con il ginocchio.

Pagai velocemente e, più veloci di due ciclisti in fuga, scendemmo dal Renzelli, volando prima piazzetta Parrasio e poi largo dei Cavalieri di non so quale ordine, scivolando lungo il Duomo, arrivammo sotto casa sua, un appartamento al secondo piano di Palazzo Campagna, un palazzo a tre piani appena finito di restaurare, ai piedi del Duomo. Eravamo sotto al grande portone di legno, lei stava cercando le chiavi nella borsetta, quando ad un certo punto mi guardò con gli stessi occhi di prima, rimise le chiavi nella borsa, mi prese la mano e mi trascinò nel vicolo, fermandosi sotto una scala ripidissima e strettissima, che, pensai dopo, chi vi abitava era costretto a salire di traverso. Come si fa a raccontare la furia animale, la bestia che ognuno di noi tiene sopita sotto secoli di regole e di buona educazione? Ci provo per voi. Era ripreso a piovere in quell’alternarsi incerto di aprile; non so se fu lei a buttarsi contro un portone nero con delle scanalature o ve la spinsi io, quello che ricordo sono le sue mani che slacciavano la cintura e si infilavano nei miei pantaloni e le mie sotto la sua gonna la stoffa delle sue mutandine i fremiti del suo ventre quando entrai con la mano le sue gambe che premevano suoi miei fianchi e i talloni che spingevano sul mio sedere su cui scivolavano le gocce che scendevano dalla schiena. Ricordo anche che fu velocissimo, probabilmente i trenta secondi più intensi della mia vita, probabilmente di qualsiasi vita. E io li avevo vissuti nell’ex ‘Vicolo della neve’, il poetico nome con il quale avrei ricordato per sempre quegli attimi. Il tempo di sistemarci e salimmo a casa.

Rimanemmo in casa tutto il giorno, fermandoci solo per[is1]  mangiare qualcosa.

Quinta informazione: lei era una maestra, ma Mancuso, anche se, da quel giorno in poi, sarebbe stato presente a tutte le lezioni, non l’avrebbe mai saputo[is2] .

Come ogni storia che si rispetti non può mancare quella scena. Mi riferisco a quella con i due a letto con lui che fuma e lei appoggiata con la testa sul suo petto che fa domande come se volesse conoscere tutta la sua vita in dieci minuti, fa domande e reclama coccole. E come tutti gli uomini sanno, dopo, è più facile rispondere a delle domande, anzi è meno difficile.

“Che ti è successo per essere così. Hai detto che eri felice e poi?”.

“Mah, niente di particolare. La mia è una storia come tante altre”.

“Ti va di raccontarla?”.

“Mmmh…”

“Ho capito sei uno di quelli che non parla volentieri di sé. Come non detto”.

“Suonavo la tromba in piccoli locali, aspettando sempre il grande giorno, quello in cui qualcuno si sarebbe accorto di me e mi avrebbe fatto fare il grande salto. Invece arrivò solo il giorno in cui Elisa, la mia compagna, se ne andò. Ormai sono tre anni. Una sera tornai da una mia esibizione e non li trovai, se n’era andata portandosi anche Samuele. Ci avevano staccato la luce. Per sei mesi non ebbi loro notizie. Poi mi chiamò e mi disse che era fuori dall’Italia e che stavano bene. Ogni tanto viene per farmi vedere il bambino. Tutto qui. La verità è che forse io ero già così, dentro di me non volevo fare il grande salto, avrebbe comportato impegni, fastidi. A me bastava suonare, suonare bene; non mi importava per chi e per quanti. Ero felice solo in quei momenti, mi sentivo in pace con me stesso, come se solo facendo quello adempiessi al motivo per cui stavo al mondo. Ma Cosenza è una città snob, molto snob. E provinciale. Se non hai una macchina lunga 6 metri e un lavoro regolare ti mettono in difficoltà, ti fanno sentire fallito anche se sei felice e fai quello che vuoi e chi non è forte da fottersene o chi non crede in quello che fai o semplicemente non pensava di aver scelto quella vita prima o poi molla”.

“Come vi eravate conosciuti?”.

“Non ci crederai, ma lei impazziva a sentirmi suonare. Alla fine la odiava quella tromba. E forse me più di lei. Solo una cosa è peggio di vivere con un artista: vivere con uno che ne ha tutte le caratteristiche ma non lo è”.

“E perché ora non vivi come prima, adesso potresti, invece di stare a soffrire in posti come la ‘Mundus’, a rimpiangere quello che poteva essere e non è stato…”.

“Non lo so, è come se si fosse rotto qualcosa, da quel momento non sono più riuscito a fare una nota degna. Ricordo ancora l’ultima canzone che suonai. Quella sera mi avevano chiamato, qui vicino, al Beat club, proprio qui sotto, per un compleanno, un appassionato di jazz. Alla fine suonai per lui ‘Welcome’, c’è una parte in cui somiglia a ‘Buon compleanno’ e per non cantare la solita ‘Happy birthday’ feci quella. Forse tu sai che è una canzone di Coltrane che è un sassofonista, ma ognuno suona con gli strumenti che ha e non c’è canzone che una buona tromba non può fare. Qualcuno mi disse che ne feci una versione straziante, sincopata come un pianto strozzato. Forse la mia parte di artista aveva già sentito che non sarebbe stata ‘Welcome’ la parola che avrei sentito tornando a casa”.

“Beh, Stefano, io non so di Coltrane, di sassofoni e di trombe, forse qualcosa in più so di pianti strozzati, ma ci posso provare; non sarà lo stesso, ma forse per stasera può bastare. Welcome, bienvenido hombre, accomodati”, disse lei salendomi sopra e mettendo il suo sesso nudo sulla mia pancia.

È sempre bello essere il ‘benvenuto’. E quella sera era bastato. E, se aveste conosciuto Laura, non avreste dubbi a credere che bastò per tante altre sere.

Eh sì, un vento dolce e selvaggio era arrivato.

 
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