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« A QUALCUNO (NON) PIACE (...A QUALCUNO (NON) PIACE (... »

A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 5

Post n°559 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

5 CAP- PRIMA PARTE. (DOVE L'AUTORE SI COMINCIA A PERDERE PERCHE' ENTRA IN CAMPI NON SUOI).

Primo passaggio: da Miles alla Mundus. E’ già un bel passo, ma siamo ancora lontani e non c’è molto tempo. Loro stanno arrivando e allora tutto sarà finito e voi non saprete mai perché. Bisogna accelerare, dunque, anche se è un verbo che non fa per [is1] me. Da questo momento in poi cercherò di unire più punti in una volta sola, vi accorgerete a un certo punto che i tasselli di questa storia si incastreranno in rapida successione e in modo quasi automatico[is2]  come uno schema crittografato.

Vi sembrerà ancora più strano, ma il secondo motivo, in ordine di importanza, della mia attuale precaria situazione è il mio interesse per gli spam[is3] , i messaggi-spazzatura di posta elettronica, quei messaggi, quasi sempre di pubblicità, che intasano le caselle di posta. Sì, so che, proprio per questo, tutti li odiano, alcune volte aldilà del reale fastidio che arrecano, così come odiano la spazzatura che essi stessi producono. A me invece stanno simpatici. Forse perché li sentivo vicini di destino e di condizione, ma perdevo delle ore appresso agli spam. La cosa che mi piaceva di più erano i nomi improbabili, i nickname, dei mittenti e gli oggetti. Ci sono migliaia di storie in quei messaggi, così come nella spazzatura dei cassonetti. Una cosa alla quale non sono mai riuscito a dare una spiegazione è che fine facciano le mail cancellate. Mi spiego meglio. Un foglio di carta scritto, lo appallottoli e lo butti nel cestino, poi da lì al cassonetto differenziato e infine diventa un’altra cosa, CO2, o un altro foglio di carta: è trasformazione. Ma le mail cancellate dove vanno? Di che cosa sono fatte? Spariscono ed è come se non fossero mai esistite. E quelle bloccate? Rimangono in un limbo e per quanto tempo? Si autodistruggono? Insomma, un giorno in cui come al solito inseguivo i miei pensieri, che si caratterizzavano, allora come oggi, per una speciale disposizione a essere attratti dalle cose generalmente considerate più futili, decisi che da quel momento mi sarei preso cura della spazzatura informatica. Avrei rovistato nei rifiuti come i gatti randagi.

Sì lo so, sto divagando di nuovo, avevo promesso velocità, è che ho sempre pensato che andando di corsa non ci si gusta il paesaggio e poi, ricordate, ogni divagazione, anche quella che sembra più astrusa, ha una ragione di essere. E che vi devo dire, sarà perché sono un jazzista e amo le improvvisazioni, ma a me sembrano tutte necessarie.

Intanto ero di nuovo a spasso e incazzato con il mondo a [is4] cominciare da me stesso, perché constatavo la mia pochezza e la mia incapacità di accettare nella realtà quotidiana quella dannata mancanza di talento necessario a evitarmi di fare i conti con la realtà. Ma stranamente cominciavo a sentirmi sollevato, come se mi fossi liberato di un peso. Non dico che mi sentii rinascere, anche se già soltanto l’idea di non rivedere più Mancuso avrebbe potuto avere su di me effetti miracolosi, ma per la prima volta dopo tanto tempo avvertivo energia positiva che si rimetteva in circolo. A ripensarci adesso, penso che quel posto mi levasse la capacità di pensare, di elaborare pensieri decenti, distruggesse, in qualche modo, anche gli ultimi residui di umanità che mi erano rimasti. È in quel momento, credo, che è cominciato[is5]  tutto. Forse fu proprio quello: la libertà riacquistata, il desiderio di vendetta o semplicemente la voglia di non ammettere un altro fallimento, o tutte le cose assieme, mi indussero a fare quello che non avrei mai pensato di fare, partendo da quello che avevo accantonato come una delle mie frequenti paranoie.

Ma andiamo per ordine. In realtà, in quel momento l’unica cosa che pensavo era che ancora una volta avrei dovuto raccontare al mio amico Ale che avevo perso l’ennesimo lavoro che mi aveva procurato.[is6]  Non so perché Ale avesse tanta pazienza con me e non mi avesse mollato al mio destino come tutti gli altri. O meglio lo so: per gratitudine. Era convinto che lo avessi salvato, che gli avessi salvato la vita. In una città piccola come Cosenza, non è raro, anzi capita spessissimo, che due persone crescano assieme fin dalle prime classi scolastiche. Così fu per noi due. Quando lo vidi la prima volta era un bambino di terza elementare[is7] , grassottello e con gli occhiali, isolato all’ultimo banco. Un bambino al quale ogni giorno, quasi dal primo giorno di scuola, mi disse poi, veniva rubata la colazione[is8]  dai tre bambini più grossi della classe, che si divertivano a perseguitarlo, minacciandolo e picchiandolo in continuazione.[is9]  I bulli esistevano anche allora, anche senza telefonino. Io arrivai solo in terza e lo salvai da quella situazione. Da quel momento, cominciò a seguirmi dovunque andassi, mi imitava, mi elesse a suo idolo. Ma quel giorno, per Ale, fu anche la svolta della vita. Iniziò a dimagrire, si integrò sempre di più, da lì cominciò la sua “normalità”.[is10]  Ho poche certezze nella vita, ma una è questa: Ale non mi abbandonerà mai.

Chiamai il mio amico e gli dissi che avevo urgenza di parlargli: “Fra dieci minuti sono sotto casa tua”. Non aspettai la risposta, feci appena in tempo a sentire un accenno di protesta bofonchiato. Entrai in macchina e accesi la radio, anch’essa un reperto del mesozoico. Willy Pasini rispondeva ad una signora di Padova, il cui marito non la trombava più. Le stava dicendo che era una questione di menù. Se è sempre lo stesso, prima o poi uno dei due cambia ristorante. La trita metafora culinaria mi fece incazzare ancora di più. Mi risollevai un po’ pensando alla signora di 50 anni e 80 chili che decideva lei di cambiare ristorante e andava da Guilly Pasini con tacchi a spillo e frustino. Siccome a uno che si chiama o si fa chiamare Guilly non chiederei nemmeno se sta piovendo, a prescindere, cambiai stazione. In quel preciso momento mi accadde la prima della lunga[is11]  serie di cose strane che avvennero in quei tre mesi[is12] : due giovani donne si buttarono sotto la mia macchina, anzi non è esatto dire si buttarono, forse è più preciso dire caddero sulla mia macchina, caddero senza forza, esangui come degli zombie. Erano sbucate dalla nebbia come fantasmi. La nebbia di novembre in Calabria non è esattamente la nebbia padana, ma unita alla mia distrazione e a Guilly Pasini, fece in modo che quello scontro mi sembrò frutto di un’apparizione improvvisa. Solo la loro lentezza mi permise di rallentare in tempo e accompagnare la caduta senza gravi conseguenze. Scesi dalla macchina e le aiutai ad alzarsi e qui notai il pallore cadaverico dei loro volti e la loro debolezza. Chiesi loro se volevano essere accompagnate a casa, ma quasi non mi sentirono e lentamente, molto lentamente, si allontanarono come anime in pena. Risalii in macchina un po’ turbato da quanto avvenuto, ma ricordo di aver pensato che quelle due donne probabilmente avevano l’influenza e che i sintomi le avevano colte fuori casa, ma scartai l’ipotesi per il fatto che era improbabile che due persone si ammalassero contemporaneamente, pensai allora che fossero ubriache e che, una volta smaltita la sbornia, avrebbero risolto i loro problemi. In auto, le parole provenienti dalla radio mi distolsero da quei pensieri: i due conduttori, un uomo e una donna parlavano di come si ricicla la carta. Preso nuovamente dal pensiero di Guilly che veniva sculacciato dalla tardona, riuscii a capire solo che si doveva evitare di riciclare quella unta. Mi sembrò più interessante la notizia successiva sui farmaci: “Le pillole, vengono impastate nella stessa betoniera con la quale si impasta la calcina”. Mi venne da pensare al mio amico Gigiotto, di cui più in là farete la conoscenza, ipocondriaco perso che viveva in un garage, che non sapeva di avere la casa dentro lo stomaco. “Devo dirglielo”, dissi fra me e me. Ormai ero sotto casa di Ale.[is13]  Uscì per un attimo dal balcone per dirmi che non era ancora pronto; era, come gli capitava spesso, in mutande, il che mi fece quasi sorgere il sospetto che il momento, come al solito con lui, non era quello giusto. Ma non ero nelle condizioni di umore per sentirmi ulteriormente in colpa. Gli feci cenno che avrei aspettato, “tanto so che l’attesa non sarà lunga”, gli gridai. Alzai il volume della radio per non sentire il suo “vaffanculo”. Dopo due minuti vidi un’ombra che pronunciava parole di scuse cui fece seguito, come risposta, il classico schianto di una scarpa contro la porta. Appena le condizioni di visibilità me lo permisero, continuava infatti a esserci una nebbiolina leggera, di quelle che sembra che piova, vidi arrivare di corsa, con i calzoni e la maglietta in mano, il mio amico Ale.

“Mi pare che non l’abbia presa bene”, gli dissi.

“Brrr che freddo. Sempre al momento giusto tu eh? Che dicevi?”.

“No, la tua amica, non mi sembrava contenta…”.

“Ma vaff… Stefano! Ti metti pure a sfottere. Comunque è che è ancora presto per farle capire certe cose: si deve ancora abituare. Il problema è che appena pare che comincino ad abituarsi mi mollano”.

“Come succede a me sul lavoro, anzi a me neanche si abituano”.

“No, Stefano, non dirmelo, non di nuovo. Ecco che c’era di tanto urgente…”.

“Sì, mi hanno segato un’altra volta”, gli dissi senza giri di parole.

“Porca troia, Stefano! Che cosa hai combinato questa volta?”.

Gli dissi dei tre tipi non proprio fanatici dell’igiene che avevo selezionato e di come lo scherzo non fosse piaciuto per niente a Sesti.

 “Cazzo Stefano! tu la devi smettere di fare la coscienza critica del [is14] capitalismo o di chissà che cosa. Quella è una cosa seria, si fa in un altro modo non deridendo chi lavora, fallo fare a chi lo sa fare…”.

Ale aveva una ruga marcatissima proprio sotto al labbro, tanto grande che sembrava che l’intera testa con il suo peso avesse inciso quel solco. E quando si arrabbiava si allargava ancora di più, tanto che temevi che il viso si aprisse proprio lì all’altezza del mento e si rovesciasse all’indietro. Quella ruga era diventata una specie di termometro della sua collera[is15] .

“Dovresti crescere, Stefano, ecco quello che dovresti fare, oppure decidere di morire con la tua dannata tromba, evitando di rompere i coglioni in giro”.

“Ma dai, lo sai anche tu che non vedeva l’ora di togliermi dalle palle…”, gli risposi fissando un po’ preoccupato il solco che aveva raggiunto dimensioni ragguardevoli.

“Appunto, e tu gliene hai data l’occasione. Stefano, sai che devi fare per un po’: rimettiti a suonare la tua tromba, se ci riesci, e non ti preoccupare di altro. Per il lavoro vedrò che posso fare, cercherò di trovartene un altro”.  

Sono sicuro che fu in quel momento che scattò qualcosa, quell’invito a non preoccuparmi di altro era una nemmeno tanto implicita considerazione di non essere all’altezza delle cose serie, quelle dei grandi, ma, soprattutto, la difesa che Ale aveva fatto di Sesti, che mi aveva appena sbattuto fuori, risvegliarono quella sensazione; quel palo che sentivo ogni volta che ero in “Mundus” riprese a farmi male, anche se nulla, in quel momento, faceva pensare che avrei avuto ancora rapporti con la mia ex azienda. Lo interpretai come un segno, una spinta all’azione.

Non so se vi è mai capitato che un fatto trascurato, ignorato, rimosso, diventi improvvisamente un’ossessione che ti si piazza lì davanti agli occhi e non si decide a levarsi se non dopo avergli dato tutta l’attenzione possibile. Decisi allora di raccontare ad Ale quello che fino a quel momento avevo considerato come un fatto curioso e nulla più e che ad un tratto mi si era parato davanti come una rivelazione.

Senti, io devo andare da Pancho, ne approfittiamo per mangiare qualcosa. Le acrobazie mi mettono una fame…”.

“No, non posso, ho da fare e poi non sono proprio dell’umore giusto”.

“Ma dai, vedrai che risolviamo anche questa volta”.

“No no veramente non mi va…”

“Come vuoi, allora portami in piazza che là poi trovo qualcuno che mi accompagna”.

“Non vuoi ascoltare quello che ho scoperto?”.

“Lascia stare, ti conosco e so che quando fai quella faccia sei sulla rampa di lancio per uno dei tuoi voli e ora non mi interessano i tuoi deliri, non è il momento delle nostre chiacchiere da tiratardi…”.

“Senti Ale, ci conosciamo da trent’anni, a chi posso dire quello che penso di aver scoperto se non a te?”.

Ale era sempre sensibile all’aspetto sentimentale e io ne approfittavo ogni volta che mi rendevo conto che le altre armi erano spuntate.

“Falla corta, però”. Ero riuscito a riempire un po’ il solco.

“Come sai, quando arrivo in ufficio la prima cosa che faccio è controllare la posta elettronica. Qualche giorno ho notato che oltre, come sempre, a decine di curriculum, c’erano diversi spam, cosa molto meno ovvia visto che l’azienda possiede filtri sofisticatissimi per impedirne l’arrivo”.

“Mah, forse non sono così sofisticati come credi. Da quel che ne so io non esistono fortezze inespugnabili”.

“Probabilmente hai ragione, ma, che ti devo dire, è stata una sensazione, come se quegli spam mi stessero richiamando. Forse è stata solo curiosità, insomma, ho cercato di aprirne qualcuno, ma mi sono subito reso conto che tutti messaggi spazzatura erano protetti da una password. Perché arrivavano spam nonostante un filtro che si presume efficientissimo? Non erano nemmeno con il suffisso di paesi extraqualcosa che sembra, da quel che ho letto, [is16] che sia l’ultimo espediente per aggirare i filtri. E soprattutto, perché erano protette da password? Tutti i nostri pc erano collegati in rete, tutto quello che arrivava era accessibile a tutti. Era un fatto di per sé irrilevante, quelle cose strane come ne succedono a decine ogni giorno, e avevo lasciato perdere. Ma ora,  il licenziamento, il fatto che tu abbia difeso quegli stronzi, mi hanno ricordato la prima sensazione che ho avuto e cioè che si volesse coprire qualcosa. Prima l’avevo attribuito al fatto che mi stanno tutti sul cazzo e che covavo la speranza di poterli smascherare nei loro loschi intrighi, nei traffici nei quali la mia fantasia li aveva più volte immaginati coinvolti. E avevo accantonato il fatto rimuovendolo. Ma poco fa, mentre parlavi, è stato come se il bastone che mi premeva dietro ogni volta che stavo in quell’azienda fosse diventato improvvisamente un tizzone ardente.[is17]  E mi stava dicendo: ‘guarda che hai lasciato dietro qualcosa di importante”.

 

 
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