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IL MARCHESE DI MARTIGNANO

Post n°34 pubblicato il 12 Giugno 2011 da tommaso.mt

Nel preparare un breve contributo sul tema dell’economia salentina, la mia ricerca è penetrata fino agli albori del pensiero economico liberale, per conoscere un illustre protagonista del Settecento salentino, il marchese di Martignano, Giuseppe Palmieri (1721 – 1793). Fu discepolo, possiamo dire, di Antonio Genovesi (1713 – 1769), titolare della cattedra napoletana di economia politica (la prima in Europa), che diede un grande impulso agli studi economici del tempo, con proposte di riforme per favorire la produttività. Giancarlo Vallone, nell’Introduzione al libro di Manzillo e Lattarulo (2010) afferma che “Genovesi e Palmieri, uno di queste parti, avevano ben avvertito la necessità, di orientare il sistema dei poteri sul sistema della proprietà, secondo il modello inglese e, per quel che riguarda le tecniche agricole, anche francese”.

Alfiere in un reggimento del re di Napoli, primo tenente e maggiore col rango di tenente-colonnello nel reggimento di Calabria, si distinse negli studi delle leggi e coltivò la pratica del foro. Incaricato dell’amministrazione generale delle dogane in provincia d’Otranto, dimostrò intelligenza, rettitudine e moderazione, tanto da renderlo uomo necessario agli interessi e alla felicità dello stato. La carica avuta nel 1787 di ministro membro il Supremo Consiglio delle Finanze, gli valse la nomina di Direttore delle Reali Finanze nel 1791, “col soldo di annui ducati tre mila”. In questo delicato impegno, egli diede prova del suo talento e delle sue vedute liberali nel governo, quando “cominciarono i popoli a respirare aure d’amenità, coll’abolizione di tanti appalti onerosi, e di molti abusivi impedimenti di passi e di pedaggi, che in questo regno sovente s’incontravano”. Artefice dell’abolizione del “Tribunale della Grascia tanto nocevole alla stessa libertà del commercio ne’ confini del Regno”, del dazio sullo zafferano, e nella penuria del grano del 1792 provvide con saggi ordini alla vera carestia. “L’immortale sua opera Della ricchezza nazionale, che illustrando l’autore, onorò anche tanto la patria, ben meritava ch’egli le avesse posto in fronte il suo nome; ma egli per eccesso di modestia volle occultarlo, come l’occultò in tutte le altre sue opere economiche” (D. Martuscelli). Si meritò persino l’elogio del re Federico II di Prussia per l’opera Riflessioni critiche sull’arte della guerra del 1761, esortando i suoi generali a studiarla.

Con le Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli e i Pensieri economici, per merito dei quali ottenne gli incarichi governativi di cui sopra, può bene il Palmieri essere elevato a padre del pensiero economico liberale nel Salento, maestro nelle scelte di politica economica, mostrando la sua intelligenza e la lungimiranza dei suoi principi, ancora attuali in questo delicato periodo storico, caratterizzato da una pesante e persistente congiuntura. “Il compendio di questa scienza, ed il merito più facile e breve così per apprenderla come per praticarla, risiede nell’amor sociale”, perché “per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello de’ suoi simili”. In questi insegnamenti Palmieri dimostra la funzione sociale della scienza economica, segnando le direttrici lungo le quali dovrebbe muoversi il sistema produttivo, accompagnato da un’efficiente amministrazione locale delle risorse pubbliche, per portare l’uomo singolo e la società in cui è inserito verso la pubblica felicità, che poi era l’obiettivo del suo quasi coetaneo e padre della scienza economica, Adam Smith (1720 – 1790). L’economista scozzese, come l’aristocratico salentino, fanno un analisi antropologica della scienza economica, il cui attore protagonista è sempre l’uomo, nei suoi istinti egoistici (Smith) che inconsapevolmente portano al progresso delle nazioni (la mano invisibile del mercato), ma soprattutto nel suo ruolo determinante all’interno della società, perché, nelle parole di Palmieri, “fra tutti gli esseri l’uomo è più utile all’uomo. Non può egli sperare da altri quei beni, che soltanto da’ suoi simili può ottenere. […] Ma di tutti gli esseri il più nocivo all’uomo è l’uomo medesimo”.   

Affrontando il tema delle riforme fiscali, Palmieri sostiene che per incrementare “l’annua riproduzione” e per garantire la pubblica felicità, “bisogna contentarsi di un dato, in cui convengono gli scrittori di economia politica, qual è che il tributo non debba oltrepassare i tre decimi del prodotto”. Sarebbe la migliore riforma tributaria se l’amministrazione statale e locale riuscissero a reggersi secondo le impostazioni di Giuseppe Palmieri, perché “nello stabilire la quantità del tributo, i primi a considerarsi sono i veri bisogni dello stato ed i precisi bisogni degl’individui. Non deve stabilirsi oltre i bisogni dello stato, e non può stabilire se non oltre i bisogni degl’individui”. Proprio per il raggiungimento dello scopo istituzionale della scienza economica che Palmieri ribadisce il concetto che “o che si muti l’intiera forma del tributo o una parte, sostituendo nuove imposte ad altre che si aboliscono, il ben pubblico deve esserne il fine, la franchezza deve accompagnar queste operazioni, e l’utile della nazione dev’essere evidente”.

La realtà delle cose è decisamente diversa, perché la funzione del tributo è quella di essere di mantenimento ad un’amministrazione statale piuttosto corposa, in quanto “molti di questi uffici sono stati creati, non già perché l’amministrazione ne avesse bisogno, ma per il bisogno pressante del denaro”. Quant’è attuale questo passaggio nel Paese dei liberali! Giuseppe Palmieri gettò le basi di quel principio della scienza delle finanze, che è la capacità contributiva, quando afferma che “il tributo secondo la sua natura deve essere imposto su tutte le classi, perché sono tutte protette dallo stato, e deve essere imposto a proporzione delle forze de’ contribuenti e della protezione che ne ricevono”. In questi principi di base risiede l’altro insegnamento dell’aristocratico di Martignano, per quelle politiche che tendono a far aumentare i tributi per far fronte alle tante esigenze dello stato, in quanto “per poter accrescere il tributo, bisogna pria accrescere la ricchezza nazionale”. E abbiamo toccato il punto nodale del discorso, che poi è il filo conduttore della scienza economica, ossia raggiungere la pubblica felicità attraverso il conseguimento della ricchezza nazionale, perché “la ricchezza è un mezzo, non già il fine della società”. È il perno su cui ruotano le politiche dei Paesi aspiranti liberali, ma è soprattutto un valore morale considerare la ricchezza come il mezzo che la società usa per raggiungere un più alto livello di soddisfacimento dei propri bisogni, che con il progredire dei popoli, diventano sempre più evoluti, più complessi. Va alla deriva quella comunità in cerca della ricchezza intesa come fonte accumulazione di ingenti patrimoni senza il fine dell’appagamento delle proprie esigenze, ricchezza come fonte di prestigio personale, di usurpazione del più debole e indifeso, come strumento di soprusi e angherie. Viene violato il fine sociale della scienza economica.

Proprio per garantire il fine sociale della scienza economica, Palmieri sostiene con forza i principi della libertà nel campo economico, contro la burocrazia e gli impedimenti al libero commercio, l’anima principale della ricchezza nazionale, affermando che “tra tutti i mezzi, quello che costa meno ed è il più efficace è la libertà economica […] Le formalità eccessive, che si esigono, ritardano gli affari e turbano la tranquillità ed il commercio; dirette ad evitare le frodi, mai ne conseguirono il fine”. E questo concetto diventa il tema principale delle sue Riflessioni, la sua bandiera, il suo cavallo di battaglia, ritornandoci spesso, quasi a voler sempre ribadire da quale parte occorre collocare il pensiero dell’aristocratico e il suo pensiero intorno alla felicità dei popoli. È l’inizio, il Settecento, dei grandi fermenti liberali, che ci condurranno, successivamente, verso il nostro Risorgimento. Esamina, in sostanza, tutti i buoni propositi per impostare una vera economia liberale, con riforme che abbracciano tutti i campi della vita civile, compresa quella della giustizia (anche il giusto processo), intendimenti di base che danno slancio all’industria e al commercio di ogni nazione che vuole chiamarsi liberale: “tutti que’ mezzi che ne agevolano ed accelerano il cammino, quali i mercati, le fiere, la libertà e la buona fede concorrono a formare la massa della felicità della nazione”.

Negli intenti di ricostruire il patrimonio morale del Paese Italia, del buon costume, e di conseguenza di una politica che torni ad essere competente, preparata, professionale e onesta, Giuseppe Palmieri fa affidamento sulle giovani generazioni, le protagoniste del domani, lanciando un serio allarme sociale a noi del presente: “i giovani, dopo qualche sorpresa, si avvedono che sono stati delusi da’ loro maestri: che le massime loro insegnate non sono proprie per regolare la vita nella società”. È il momento di far sentire la loro voce, ancora carica di buoni e genuini propositi, prima che venga logorata dalla realtà.                                                    

Tommaso Manzillo

 

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