Creato da tommaso.mt il 26/07/2010
DI TUTTO UN PO'
 

 

L’ARMA PER UN CAMBIAMENTO: IL VOTO

Post n°56 pubblicato il 07 Giugno 2012 da tommaso.mt

Votare a ottobre prossimo o alla fine naturale della Legislatura? Questo è il dilemma dei partiti politici che si stanno affannando alla ricerca di maggiore e migliore presentabilità e visibilità alle prossime tornate elettorali. Ma a noi italiani-contribuenti, creditori e debitori dello Stato, non cambia nulla se si il voto sarà a ottobre o l’anno venturo, perché i diversi governi politici che si sono succeduti negli ultimi vent’anni,  protagonisti delle mancate riforme liberali di cui il Paese avrebbe avuto bisogno (la giustizia, il fisco, la sanità, la riorganizzazione amministrativa dell’apparato dello Stato, le liberalizzazioni in economia) non sono riusciti nemmeno a produrre un timido testo di riforma organica dell’amministrazione dello Stato, e men che meno il Governo dei tecnici e dei super-tecnici. Non è cambiato assolutamente nulla né con il governo politico né con quello dei professori.

Mentre i partiti politici si dividono al loro interno tra favorevoli e contrari per il voto anticipato a ottobre, nessuno di loro è stato in grado di proporre un serio provvedimento di tagli alla spesa pubblica, ai loro doppi o tripli incarichi, di mettere mano nella macchina amministrativa dello Stato contro le lobby di potere e a favore dello sviluppo dell’Italia, tutti a pensare al voto per ritornare ad occupare le posizioni più alte e prestigiose. Con quale coraggio si presenteranno agli elettori chiedendo il loro voto, e con quale fegato noi dovremmo presentarci nella cabina elettorale?

La Corte dei Conti, nella sua recente Relazione, ha illustrato quello che noi abbiamo più volte detto, ossia che l’aumento della pressione fiscale ha generato un circolo vizioso aggravando la già pesante congiuntura economica. Per di più il calo dei consumi, conseguenza delle nuove tasse, si è trasformato in calo delle entrate tributarie per 3,4 miliardi di Euro. Risultato: più tasse – meno consumi – meno entrate fiscali – più altre tasse per coprire la perdita subita rispetto alle previsioni. E così, mentre i partiti lottano fra di loro sulla data delle elezioni, su chi dovrà occupare gli scranni del Governo, noi veniamo caricati di tasse e burocrazia, senza una soluzione concreta per uscire dall’angolo dove siamo rinchiusi da diverso tempo.

Quando in un Paese la politica si occupa della data delle nuove elezioni e il Popolo soffre una pesante crisi economica e finanziaria, quale strada occorre intraprendere per mandare a casa questa classe dirigente che fa della vera e propria antipolitica, allontanandosi dalle problematiche vere del proprio elettorato per occuparsi della spartizione del potere? Allora ecco che la via del voto sarà per noi occasione di fare una seria scelta di campo. Gli italiani durante le ultime elezioni amministrative del maggio scorso hanno perfettamente compreso (i partiti no, o fanno finta di non aver capito) l’importanza di quella matita che si usa nella cabina elettorale, in grado veramente di fare la storia di un Paese. Come si può chiedere a chi lotta quotidianamente contro la crisi di continuare a votare chi per anni ha promesso la vera riforma elettorale, mai arrivata, quando poi sugli scranni del Parlamento, per entrambi gli schieramenti politici, si sono seduti donne e uomini di malaffare, coinvolti in storie di sesso, corruzione, mafia, appalti truccati, indagati e plurindagati, che non sanno nemmeno cosa significhi alzare la serranda della propria attività la mattina e lottare contro una concorrenza sleale, contro l’aumento della pressione fiscale, con le tante problematiche di chi quotidianamente lavora con passione e impegno? La nostra arma è il voto, mandare a casa chi oramai ha svolto il suo tempo, chi ha già avuto la sua chance e non l’ha saputa giocare, o meglio, l’ha giocata a suo favore a scapito del nostro. Questa non è antipolitica, ma è la politica, ossia tornare a occuparsi dei fatti concreti, della gestione della cosa pubblica come se fosse la propria, dare le risposte concrete ai problemi concreti e reali.

Come ha affermato recentemente il Papa, occorre uscire dalla logica del perseguimento del profitto come unico obiettivo dell’economica, per mettere al centro, sulle orme dei padri del pensiero napoletano (A. Genovesi e G. Palmieri), il bene comune e collettivo, ripartendo dai principi cardine della società civile, ossia la giustizia, la lotta alla corruzione, la libertà, puntando sui giovani e la loro formazione culturale. Tagliare la spesa pubblica, la lotta agli sprechi della pubblica amministrazione, ai lauti incarichi di dirigenti statali e parastatali, abbattere il debito pubblico con riforme strutturali, razionalizzando la spesa sanitaria piuttosto che chiudere gli ospedali per soddisfare interessi di parte, diventa oggi indispensabile per procedere all’abbassamento del livello della tassazione fiscale, unica strada percorribile per dare fiato ad un’economia che ha bisogno di ossigeno, di denaro circolante sottratto da una politica sbrigativa fatta di tasse per risanare un bilancio pubblico affossato da scelte scellerate del passato, cui le generazioni di oggi sono chiamate a pagare il conto. Per questo occorre trovare un alternativa politica che rimetta al centro il bene di tutti, non solo nelle parole che si sentono quotidianamente, fatte di buoni propositi. Oggi l’italiano-elettore non vuole più promesse, ma che la politica sia fatta di gesti concreti, di idee e progetti per lo sviluppo, la crescita, non solo economica, ma anche morale e civica. Chi ha orecchie per intendere …

Il pericolo? La deriva estrema.

                                                                                                                                             Tommaso Manzillo  

 
 
 

Rischio sismico: gli esperti confermano preoccupazione per il sud. Interviste e servizi video

Post n°55 pubblicato il 28 Maggio 2012 da tommaso.mt

Rischio sismico: gli esperti confermano preoccupazione per il sud. Interviste e servizi video

lunedì 28 maggio 2012, 17:23 di


Il terremoto in Val Padana ha sorpreso la popolazione ma non i sismologi che propongono più attenzione al sud e nelle zone a rischio. Ne discutono Alessandro Martelli, direzione Enea di Bologna, Carlo Doglioni, docente di scienze della terra all’Università La Sapienza di Roma, Giuliano Francesco Panza, professore di sismologia presso l’Università di Trieste e Antonella Peresan ricercatrice presso l’Università di Trieste. Conduce Maurizio Torrealta.

 


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Un terremoto molto violento in arrivo al Sud Italia e la Grandi Rischi sapeva anche del sisma in Emilia.

Post n°54 pubblicato il 28 Maggio 2012 da tommaso.mt

Un terremoto molto violento in arrivo al Sud Italia e la Grandi Rischi sapeva anche del sisma in Emilia.


di Mina Cappussi -

 

Ben 3 studi su 3 indicano un terremoto distruttivo al Sud. Ma allora perché la popolazione non viene messa al corrente del pericolo? Non è un diritto dei cittadini decidere del proprio futuro? La Commissione Grandi Rischi sapeva che ci sarebbe stato un terremoto nel Nord Italia già da marzo, su due studi uno era allarmante. Adesso ce ne sono 3 che dicono la stessa cosa. A CAUSA DEL PICCO DI AUDIENCE SIAMO STATI COSTRETTI A DUPLICARE L'ARTICOLO. QUESTO E' IL DUPLICATO. IL PRIMO NON SI RIESCE A VISUALIZZARE PERCHE' SUPERA LE MILLE VISUALIZZAZIONI IN POCHI MINUTI.

(UMDI - UNMONDODITALIANI) C’è da preoccuparsi per gli effetti di un terremoto di forte intensità che interesserà il Sud Italia nei prossimi mesi? Noi non lo sappiamo, ma a parlarcene è il direttore del Centro Enea di Bologna, Alessandro Martelli, in un'intervista Antonio Amorosi pubblicata su Affari Italiani. L’esperto spiega che il sisma che si è verificato nei giorni scorsi in Emilia era stato ampiamente previsto e nella riunione del 4 maggio scorso, solo quindici giorni prima dell’evento, si era discusso delle azioni da intraprendere per tutelare eventualmente la popolazione e ridurre al minimo i danni. Se ne era parlato, ma in realtà non era stato fatto nulla di tutto questo.

Gli esperti se ne erano stati zitti, senza avvisare nessuno, convinti, dall’alto della loro scienza, di poter decidere della vita o della morte delle persone. Perché magari qualcuna delle sette vittime avrebbe potuto scegliere di andarsene, di non voler mettere a repentaglio la propria vita e quella dei propri familiari. Avrebbe potuto decidere di fare un viaggio…..Sono solo ipotesi, per carità, ma è terribile sapere che altri erano a conoscenza di quello che sarebbe accaduto e nessuno si è p reso la briga di avvisarti.

Alessandro martelli“Il terremoto in Emilia - ha precisato Martelli - era stato previsto. Ci sono dei “cosiddetti” strumenti di previsione che sono utilizzati in diversi Paesi. In Italia li fa l’International Centre for Theoretical Physics (ICTP) e l’Università di Trieste. In base al verificarsi di possibili anomalie nelle tre zone italiane, Nord, Centro e Sud vengono emessi degli allarmi. E’ un po’ come misurare la temperatura corporea e vedere se hai la febbre.

In marzo, dunque, è stato diramato un allarme per la zona Nord perché era stato stimato un movimento del terreno di magnitudo maggiore del 5,4. C’erano notevoli probabilità che a Nord sarebbe arrivato un terremoto. La regione allarmata era questa anche perché c’erano stati terremoti vicini, nel Garda, nel veronese, poi a Parma. L’algoritmo dell’analisi mostrava che era fortemente probabile”.

E come mai nessuno lo sapeva? La domanda nasce spontanea.

“Si tratta di metodologie sperimentali. Gli allarmi non vengono divulgati ma comunicati a un gruppo di esperti nazionali. Nella Commissione Grandi Rischi si sapeva, ne abbiamo proprio parlato il 4 maggio. Se ne discusse anche perché questo tipo di analisi non sono accettate da tutti i sismologhi. Io posso solo dire che la Commissione Nazionale Grandi Rischi era informata dai primi di marzo. In Emilia potrebbero esserci ancora altre scosse, ma l’intensità non è certa. Potrebbe trattarsi di assestamenti, ma anche di una ulteriore scossa elevata. Certo non era possibile evacuare delle zone per mesi, ma io dico che gli allarmi devono servire a verificare le strutture strategiche, e organizzare la protezione civile, informare la popolazione su come si deve comportare.

Più del Nord adesso però mi preoccupa il Sud. Per il Nord c’erano stati due studi. Uno allarmava per un eventuale terremoto e l’altro no. Ed è arrivato il terremoto in Emilia. Per il Meridione, invece, esiste un allarme più grave in arrivo perché lì sono stati applicati tre modelli di studio. Tutti e tre danno l’allarme rosso. Quindi questo preoccupa oltretutto perché prefigura un eventuale terremoto molto violento.

Oltretutto non dobbiamo dimenticare che nel Sud Italia sono ubicati stabilimenti che utilizano e stoccano sostanze potenzialmente pericolose in elevate quantità. Sono impianti chimici, ci sono stabilimenti che contengono serbatoi di gas naturale liquefatto (Liquefied Natural Gas o LNG), altri serbatoi di stoccaggio di grandi dimensioni, rigassificatori…Il problema è che le scelte progettuali degli impianti sono state lasciate ai gestori e, generalmente, non è noto, per i diversi stabilimenti, se e quali criteri antisismici siano stati adottati. Poi c’è il rischio da maremoto, evento raro, ma non impossibile e che, quando si verifica, è devastante: questo rischio appare del tutto trascurato negli impianti chimici italiani situati in prossimità delle coste, e in aree sismiche come ad esempio a Milazzo o se penso ai serbatoi sferici situati a Priolo-Gargallo, sono alquanto pessimista e preoccupato. Manca In Italia una specifica normativa per la progettazione antisismica degli impianti chimici”.Elvio Romano

Insomma, ritorna quanto mai attuale l’annosa questione sulla prevedibilità o meno dei terremoti. A sentire il direttore del Centro Enea di Bologna, Alessandro Martelli, la prevedibilità è una cosa seria, sebbene manchino ancora dati e studi specifici che consentano di rilevare esattamente il momento e l’ubicazione di un terremoto. Però un’informazione alla popolazione si potrebbe fare, non allarmismo, ma indicazioni e precauzioni su come comportarsi dovrebbero essere divulgate in tute le aree oggetto di studio. Magari se in Molise avessero saputo che era in arrivo un terremoto non avrebbero inaugurato a cuor leggero la sopraelevazione in cemento armato di una scuola in laterizio. Se l’avessero saputo in Abruzzo probabilmente molti studenti universitari si sarebbero presi un periodo di ferie, anche un anno sabatico, magari. Meglio ancora. Le istituzioni preposte avrebbero preso in più seria considerazione le proteste degli studenti circa le crepe e le lesioni presenti nella Casa dello Studente, quella che è crollata per prima uccidendo tanti giovani. Chissà se le mamme e i papà degli studenti uccisi avrebbero voluto sapere quello che stava succedendo, chissà, forse avrebbero preferito un anno di corso in più e poter, ancora oggi, riabbracciare il proprio figlio. Forse i genitori di Elvio Romano, un esempio per tutti, avrebbero premuto per la verifica sismica della casa in cui dimorava il loro ragazzo, forti dell’esperienza delle mamme di Bojano, grazie alle quali, e solo grazie al loro coraggio, tutte le scuole di Bojano sono state chiuse prima che si potesse verificare un terremoto come quello di San Giuliano di Puglia. Sono tutte ipotesi, d’accordo, ma chi può arrogarsi il diritto di decidere sulle nostre teste e di fare delle scelte al posto nostro?

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mi dispiace, perdono, grazie, ti amo

22 / 05 / 2012

 

 
 
 

L’ITALIA E L’EUROPA IN ATTESA DELLA GRECIA

Post n°53 pubblicato il 17 Maggio 2012 da tommaso.mt

Atene non uscirà dall’Euro. Non può. Non deve.

L’incidenza percentuale del prodotto interno lordo greco è piuttosto contenuta rispetto alla ricchezza dell’intera zona Euro, ma i rischi e i pericoli che vengono dal mondo ellenico si trasformano in mine vaganti per la politica economica Europea. Contro la pesante situazione ivi presente, la migliore soluzione possibile sarebbe l’uscita dalla moneta unica europea. E poi? Già! Cosa succederà il giorno dopo, anzi un secondo dopo il ritorno di Atene alla dracma? Una forte svalutazione della moneta locale, un’impennata dei tassi di interessi con gravi ripercussioni finanziarie ed economiche su tutta la struttura greca (pensiamo ai mutui a tasso variabile, per esempio), coniugata con il tracollo sociale di un Paese già martirizzato da minacce esterne, da politiche restrittive interne, e da una tensione sociale piuttosto elevata.

E all’Euro cosa accadrà? Anche per la moneta unica europea si prospetta una forte svalutazione contro il dollaro e le altre monete, a vantaggio delle esportazioni tedesche. A questo si coniuga una massiccia fuga di capitali contro il rischio della svalutazione, come sta succedendo da qualche settimana ad Atene. Si innescherebbe un circolo vizioso, una spirale autodistruttiva dalle immane proporzioni.  Viene il dubbio che solo la Germania abbia da guadagnare da questa situazione, considerando che i rendimenti dei sui Bund, che divengono così dei veri e propri beni rifugio, sono più bassi del tasso di inflazione. Ma la Grecia non uscirà dalla moneta unica. I mercati non lo vogliono e non lo auspicano, tanto da non mostrare livelli di stress preoccupanti. Certamente, dietro lo stallo politico ellenico si nasconde la voglia di trattare con l’unione Europea per una via di uscita condivisa, che non sia solo di austerità, ma costruttiva

Ma, tolta di mezzo la Grecia, la spirale autodistruttiva colpirà a ruota libera la Spagna e l’Italia. Noi siamo dentro fino al collo, al di là delle parole che ci offre la politica, quella politica responsabile del crac del nostro sistema. Lo abbiamo detto più volte e lo ribadiamo con forza: i giovani delle presenti generazioni sono oggi chiamati a pagare il conto per le scelleratezze passate e per l’indecisionismo di questo governo che è chiamato a dare una scossa al nostro Paese, altrimenti l’alternativa è il baratro.

Davanti all’emiciclo parlamentare dove tutti i partiti cercano migliori strade per spartirsi quello che è rimasto della torta, prima dell’avvento dell’antipartitismo, il Governo è fermo, immobile, incapace di imboccare la strada della crescita, come tutti invocano, ma che nessuno riesce veramente a trovare.  La nomina della Commissione per il taglio della spesa pubblica e l’invito rivolto ai cittadini per rintracciare gli sprechi, sono il segno ridicolo di un esecutivo al dessert (almeno loro se lo possono permettere!). Il rigore di bilancio deve essere accompagnato da misure per la crescita, e queste non possono essere rappresentate soltanto dall’aumento della pressione fiscale. L’incremento della tassazione deve servire principalmente  per muovere l’economia attraverso politiche keynesiane, di incremento della spesa pubblica, perché tassare un Paese e usare il denaro per politiche di bilancio vuol dire togliere moneta dal circuito produttivo, già in recessione, e aspettare che tutto crolli per ripartire. Le priorità sono gli investimenti pubblici e privati e il lavoro,  generando ricchezza e, quindi, materia imponibile portando nuove entrate nelle casse dello Stato.

Occorre evitare il default attraverso misure per la crescita, le riforme strutturali, che non devono essere interpretate come incremento della pressione fiscale, una profonda riforma della pubblica amministrazione accompagnata dalla razionalizzazione della spesa pubblica (trattare il portafoglio pubblico come se fosse il proprio), e soprattutto una seria lotta contro ogni forma di spreco di denaro pubblico, contro la realizzazione di opere inutili, cercando di sfruttare al meglio il patrimonio pubblico esistente, attraverso il dialogo istituzionale, fuori e sopra ogni logica e colore partitico. Occorre veramente un importante cambiamento di mentalità che comporta, giocoforza, una vera e propria rivoluzione nella politica, che non è antipolitica, ma intelligenza umana. Ognuno deve fare la sua parte, iniziando dal sistema bancario (graziato dalla politica ma non dai mercati) e dalla BCE, di cui è Governatore l’italiano M. Draghi, abbandonando la logica del profitto nel breve periodo, puntando allo sviluppo del sistema produttivo nostrano. Bisogna prepararsi all’imprevedibile, sembra un paradosso, ma è così.

La Grecia non uscirà dall’Euro, ma l’Italia rimane un Paese a elevato rischio.

Tommaso Manzillo

 
 
 

Tra tasse e acconti 82 scadenze a maggio

Post n°52 pubblicato il 26 Aprile 2012 da tommaso.mt

Tra tasse e acconti 82 scadenze a maggioLe istruzioni per la dichiarazione? 110 pagine

I CITTADINI DI FRONTE AL FISCO

Tra tasse e acconti 82 scadenze a maggio

Le istruzioni per la dichiarazione? 110 pagine

Proprio nessuno. E stabilire quale sia la soglia equa dell'imposizione fiscale è un esercizio quasi impossibile da tentare. Soprattutto in una fase di rallentamento dell'economia come quella attuale. Però qualche cosa vorrà pur dire se negli ultimi giorni si sono intensificate le voci (autorevoli) che indicano la necessità di una tregua. Davanti al Parlamento europeo il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, che fino ad ottobre guidava la Banca d'Italia, è stato molto esplicito: «Il consolidamento dei bilanci basato esclusivamente sull'aumento delle tasse è sicuramente recessivo. Idealmente dovrebbe essere fatto sulla base di una riduzione delle spese correnti, in particolare di quelle più improduttive».

Qualche giorno fa la Corte dei Conti ha usato parole forti definendo quella fiscale «una pressione già fuori linea nel confronto europeo». L'obiettivo del risanamento dei conti resta prioritario ma tasse, tributi, acconti, versamenti che arrivano al 45% del reddito rappresentano una soglia che ormai ha raggiunto il livello di guardia. Se non lo ha già superato.
Tasse alte e complicate. Proviamo a leggere dentro il decreto (ormai diventato legge) sulla semplificazione fiscale. C'è persino la definizione di bosco e di arboricoltura da legno. C'era proprio il bisogno che parlamento e governo si esercitassero in questa attività? Vero che l'Italia è un Paese dove per fortuna le foreste hanno ripreso a crescere. Ed evidentemente non si vuole perdere l'occasione di inseguire gli alberi.

Ma sarà quella l'urgenza del Paese per favorirne la crescita? Mentre lo stesso provvedimento, cambia e complica, i versamenti dell'Imu. Più si legge e più ci si ingarbuglia. La legge sposta per la terza volta le scadenze del bollo sullo scudo fiscale, dimenticandosi però di estendere la proroga al 2011. I boschi sono importanti. Forse, per il Parlamento, lo è meno il fatto che le istruzioni per il modello Unico 2012 sono arrivate a 110 pagine fitte fitte, e solo per il fascicolo base. Un buon romanzo ha meno pagine. Mentre nel mese di maggio, e solo per il Fisco, si contano 82 scadenze. Un percorso che assomiglia più a un calvario che a un ordinato sistema che preveda il rispetto del dovere civico di essere degli onesti contribuenti.
Come di pari urgenza per favorire la crescita sembra essere l'istituzione - prevista sempre nel decreto semplificazioni - della Scuola sperimentale di dottorato internazionale Gran Sasso Science Institute.

Senza dimenticare la prima imposta che i cittadini conosceranno soltanto alla fine, come in un gioco (molto poco divertente). Il caso dell'Imu è proprio questo: si paga una tassa ma senza conoscere quali saranno le aliquote reali che saranno applicate. Parafrasando (immeritatamente) Luigi Einaudi qui non è conoscere per deliberare ma almeno conoscere per pagare. E a quattro mesi dal varo della patrimoniale sui depositi titoli le banche non sanno ancora come calcolarla. Al Fisco non manca la fantasia quanto a sigle: con l'occasione è nata l'Ivie, l'imposta sul valore degli immobili esteri. Come calcolarla? Complicato. Introdotta dal decreto salva Italia, corretta da un provvedimento successivo, applicata retroattivamente, e unicum nel mondo probabilmente, anche agli stranieri residenti in Italia sui beni posseduti a casa loro.
Vista così, la pressione fiscale va ben oltre la soglia del 45%. Certo i sacrifici vanno fatti per rimettere l'Italia in sesto, forse è anche necessario l'incremento delle imposte ma almeno se non le aliquote, il Fisco potrebbe almeno ridurre la tassa sulla complicazione. Un'imposta che tutti, a ragione, vorrebbero evadere.

 

Massimo Fracaro
Nicola Saldutti
26 aprile 2012 | 10:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

Non c'è nessuno che sia (davvero) contento di pagare le tasse.

 
 
 

LE INIQUITÀ DELL’ITALIA

Post n°51 pubblicato il 25 Aprile 2012 da tommaso.mt

“Prima gli interessi del Paese, poi quelli del partito”: era la ricetta dell’allora Cancelliere tedesco G. Schroeder ed è quella vincente di A. Merkel; per questo motivo oggi la Germania può dettar la politica e gli indirizzi economici dell’Europa. In Italia, invece, gli avvenimenti succedutisi negli ultimi mesi che hanno riguardato i casi di corruzione per numerosi esponenti politici dimostrano un dato di fatto incontrovertibile ed inconfutabile, ossia che il nostro è un Paese unitario e non più diviso tra un sud dove dilaga la corruzione e un nord lindo, casto, puro e pio. Nella corruzione nord e sud sono uniti perché l’unione fa la forza (… del malaffare!), coinvolgendo persino quel movimento padano che fino a pochi mesi fa esclamava “Roma ladrona!!!”. Prima gli interessi personali e poi, a tempo perso, quelli del Paese.

L’Italia si trova oggi ad essere governata da un team di professori universitari, strenui seguaci delle nozioni studiate sui libri di testo, magari redatti da loro stessi, facendo sfoggio di larga cultura in tema economico, stilando ricette che ci dovrebbero proiettare sul sentiero della crescita. Ma, allo stesso tempo, si sono rivelati tanto forti nelle teorie quanto deboli nella pratica, dimostrando timore reverenziale verso i partiti, le lobbies di potere, incapaci di applicare serie politiche fatte di veri tagli alla spesa improduttiva. Abbiamo usato il termine ‘improduttiva’, che non vuol dire sempre e solo tagli alle spese riguardanti l’istruzione, la giustizia, la sanità, in maniera così generica, quanto piuttosto tagli produttivi, agli sprechi, alle inefficienze e ai doppi incarichi. In un periodo di recessione economica il nostro Paese ha bisogno di ridimensionare i costi della politica, legati soprattutto ai doppi incarichi di parlamentari, membri di Commissioni, di Consigli di Amministrazione di aziende pubbliche o municipalizzate, ai lauti compensi dei dirigenti, oltre che ai rimborsi elettorali ai partiti, che spesso vanno a finanziare la lussuosa vita dei leader politici. Siamo un Paese ridicolo!!! Ci riempiamo la bocca di meritocrazia e poi chiediamo la raccomandazione per un posto di lavoro, chiediamo l’onestà e poi non battiamo gli scontrini fiscali alla cassa, chiediamo trasparenza e poi dirottiamo illecitamente all’estero il capitale pubblico come quello privato, chiediamo intelligenza politica e poi ci affidiamo alla politica faccendiera, chiediamo legalità e poi scopriamo che il partito più leale ha legami con organizzazioni malavitose … e continua …

Siamo perfettamente d’accordo con questo Governo quando afferma che occorre cambiare la mentalità e la cultura degli italiani affinchè il nostro operare sia orientato alla crescita economica e sociale dell’intero Paese, per un nord industriale, tecnologico ed innovativo, con l’apporto di un turismo meridionale competitivo, capace di attrarre capitali per investimenti in Italia, ma i modi di agire dei ‘Professori’ sono lontani dagli obiettivi che si vuole raggiungere. L’ultimo outlook del Censis e della Confcommercio evidenzia chiaramente il calo del clima di fiducia generale coniugato con le “ridotte capacità di risparmio e spese obbligate in aumento”, descrivendo “un quadro congiunturale molto difficile”. Dov’è la ripresa? E le misure per la crescita? Dove sono le liberalizzazioni e i loro effetti benefici sull’economia italiana? Sono state un bluff bello e buono, pagato a caro prezzo da un’economia italiana in ginocchio, con diversi suicidi di imprenditori e disoccupati per la vergogna di non riuscire più a onorare (si badi bene al termine che viene da onore) i propri impegni finanziari, e da 146 mila attività cancellate già nei primi mesi del 2012.

Deve essere la classe dirigente a cambiare mentalità e soprattutto politica economica, verso misure che vadano nella direzione dei tagli delle tasse (con l’istituzione dell’IMU è stato stimato un calo del valore degli immobili tra il 20 e oltre il 50 percento a fine anno) e delle spese improduttive, affinchè la pressione fiscale, oramai prossima al 50 percento, livello mai raggiunto) sia congrua con la capacità reddituale del ‘tartassato’, ossia il cittadino. Ritornano le parole di G. Palmieri di Martignano (LE) quando affermava che “il tributo non debba oltrepassare i tre decimi del prodotto”, e nello specifico “deve essere imposto a proporzione delle forze de’ contribuenti”. Lo abbiamo già detto in altri scritti, in un periodo di recessione economica serve una politica keynesiana, la stessa e l’unica che vinse la Grande Crisi del ’29. La nostra speranza è che gli introiti derivante dalla tassazione siano efficacemente investiti in politiche di crescita, piuttosto che a finanziare la politica e i suoi loschi contorni. Ma noi che scriviamo queste cose già note al Professore non vogliamo alimentare le correnti dell’antipolitica che soffiano prepotentemente contro il mondo dei partiti e delle loro logiche. Volevamo solo analizzare e comprende come esista ancora tanta iniquità sociale ed economica, anche e soprattutto nel mondo post-industriale che è il nostro.

Tommaso Manzillo

 
 
 

Baccini: «Non rinuncio alla doppia indennità»

Post n°50 pubblicato il 10 Aprile 2012 da tommaso.mt

Baccini: «Non rinuncio alla doppia indennità»

 

 

Dall'ente che presiede ha un'indennità di 120.000 euro che somma con quella di parlamentare. L'ente per il Microcredito a differenza dell'agenzia del terzo settore di Zamagni, che non prendeva indennità, non è stato soppresso. Come mai? - Bernardo Iovene

L'AGENZIA PER IL TERZO SETTORE -
Qualche giorno fa abbiamo dedicato
un pezzo alla soppressione dell'Agenzia per il terzo settore, un organismo che regola e controlla il settore non profit. Il Governo Monti deve risparmiare e pertanto ha deciso che se ne occuperà con maggiore competenza il Ministero del lavoro. L'Agenzia soppressa è presieduta dal professor Zamagni e composta da 11 esperti, che avevano dato la disponibilità a continuare il lavoro gratuitamente. Ma la risposta è stata: no.
Ai tagli del governo è invece sopravvissuto l'Ente nazionale per il microcredito. Presidente è l'Onorevole Mario Baccini, che per questo incarico riceve 120 mila euro lordi l'anno, ai quali si cumulano i 13 mila euro netti al mese della Camera dei deputati.

L'ENTE PER IL MICROCREDITO - L'ente per il microcredito era nato come comitato nel 2005 su richiesta dell'Onu, lo scopo era quello di favorire i soggetti cosiddetti "non bancabili", che non hanno accesso al credito bancario, insomma uno strumento di lotta alla povertà. Promuove programmi di intesa tra enti locali e fondazioni pubbliche e private per erogare piccoli prestiti per piccole attività. All'inizio, i componenti del comitato prendevano un gettone di rimborso, poi il governo Berlusconi ha deciso di trasformalo in Ente pubblico, con una cospicua indennità. E così oltre al presidente, anche il segretario si porta a casa 147.000 euro l'anno. L'On. Baccini dice che stanno aiutando e aiuteranno tante microimprese (ci mancherebbe altro, l'Ente è nato per questo!), e avrà sicuramente modo di dimostrarlo ai senatori Di Giovan Paolo e Ferrante, che sollevando il caso presso il Ministro dell'Economia, chiedono conto dell'attività dell'Ente e degli stipendi sproporzionati.
La considerazione è sempre la stessa: con tutti i bravi laureati in Economia, con tutti i dirigenti a spasso per la crisi, deve essere proprio un parlamentare a presiedere un ente pubblico? Se la risposta è sì, allora non si porti a casa anche il doppio stipendio. Il premier sta tagliando? Lo faccia con decisione, ed elimini l'immoralità di vedere dei parlamentari che si riempiono le tasche, mentre quelle della popolazione si svuotano.

Bernardo Iovene
9 aprile 2012(ultima modifica: 10 aprile 2012 | 10:12)© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 
 
 

L'EREDITÀ DI UNA GUERRA TERMINATA QUASI 70 ANNI FA

Post n°49 pubblicato il 27 Marzo 2012 da tommaso.mt

Per non morire l'Anmig ha aperto le porte ai figli, nipoti e pronipoti degli invalidi e mutilati di guerra. E lo Stato continua a pagare. - Emanuele Bellano

IL PATRIMONIO IMMOBILIARE - Ma qual è la fonte di sostentamento dell'ente? Nelle casse dell'associazione ogni anno finiscono 100 mila euro di contributo statale a cui si sommano 2 milioni di euro versati ogni anno dal ministero della Giustizia. Tra gli immobili che costituiscono il cospicuo patrimonio immobiliare dell'ente, dal valore complessivo di 200 milioni, c'è infatti la sede nazionale dell'associazione: un palazzo di diecimila metri quadrati a piazza Adriana, al centro di Roma. In una parte dell'edificio ci sono gli uffici dell'ente, il resto l'associazione lo affitta alla Corte d'Appello, al Tribunale di Sorveglianza e al Tribunale dei Ministri per conto dei quali ogni anno il ministero della Giustizia paga ai non più troppo anziani affittuari i due milioni di affitto che permettono a mutilati, invalidi, figli, nipoti e pronipoti di tirare avanti, almeno per le prossime tre generazioni.

Emanuele Bellano
26 marzo 2012(ultima modifica: 27 marzo 2012 | 7:32)© RIPRODUZIONE RISERVATA

 
 
 

L’ITALIA DEL DOMANI

Post n°48 pubblicato il 09 Febbraio 2012 da tommaso.mt

L’Italia del futuro si fonderà sui sacrifici dei giovani, quei sacrifici che i padri della cosiddetta Seconda Repubblica rifiutarono di sopportare per il proprio tornaconto personale, per creare caste e privilegi che avrebbero salvaguardato loro e le loro famiglie. Già! Esiste una vasta letteratura economica fatta di richiami e di allarmi circa il peso che si riverserà sulle generazioni future per le scelte adottate negli anni Ottanta dello scorso secolo, le quali ebbero degli effetti devastanti sul bilancio e di conseguenza, sull’incidenza del debito pubblico. Ecco le generazioni future chiamate a pagare il conto, e anche in misura pesante.

Assistiamo ad un attacco continuo contro i giovani, sul posto fisso, magari vicino casa di mamma e papà, quando tanti altri giovani, invece, sono stati costretti ad allontanarsi da casa per studiare e lavorare. Gli annunci spot e gratuiti dei membri del Governo manifestano una cruda realtà, il sogno del posto fisso che dà noia, soprattutto perché non fornisce quello stimolo ad una profonda crescita culturale ed intellettuale, provocando una vita lavorativa piuttosto piatta e fossilizzante. Ma l’Italia non è l’America!

Cambiare si può. Uscire da un posto di lavoro perché si è trovati un altro migliore, e poi un altro ancora: questo è stimolante, se solo i nostri padri avessero impostato una politica economica basata sulle generazioni future, contro gli sprechi delle amministrazioni pubbliche e a vantaggio del lavoro premiante, per la libera concorrenza e per il mercato, se solo avessero potuto creare uno Stato veramente moderno. La legge sulle liberalizzazioni va in questa direzione, ma è solo un timido passo di un Governo chiamato liberale, ma intimidito dalle tante lobby potere. Purtroppo la realtà è diversa da come la vorrebbe qualcuno, perché usciti fuori dal mondo del lavoro non si entra così facilmente, soprattutto per chi ha oltre 45 anni di età, la vita lavorativa è out! Allora, non sono solo i giovani a dover cambiare modo di pensare e di vedere il lavoro, perché sono proprio loro a sbandierare la cultura della meritocrazia, della legalità, del valore aggiunto. Ma qualcuno è ancora cieco e sordo.

Un politica che crei e premi il lavoro piuttosto che le rendite, questo si aspettano i giovani, una lotta serrata contro l’evasione fiscale per poter abbassare il livello generale della tassazione. La Tobin tax per tutti i Paesi diventa carburante per il motore della crescita economica, se accompagnata dalla riduzione del livello delle tasse per il lavoro, le imprese e di conseguenza anche per le famiglie, che creano consumi. Tassare le rendite finanziarie in maniera uguale per tutti i Paesi dell’area Euro, vuol dire spostare il baricentro delle proprie politiche dal mondo delle rendite e dei capitali verso quei Paesi che premiamo le iniziative produttive, perché più lavoro vuol dire maggiore massa di imponibile e maggiori entrate per lo Stato. Lo ribadiva sempre un grande meridionalista come G. Fortunato dagli scranni parlamentari all’indomani dell’Unità italiana, quando lanciava seri allarmi contro una politica di bilancio piuttosto facile nelle spese inutili, perdendo di vista il bene comune degli italiani.

Le riforme del mercato del lavoro vanno introdotte con molta gradualità, accompagnate da un cambio della mentalità per tutti noi, allontanandoci da una cultura ancora medievale per divenire veramente un Paese del III Millennio. Mobilità deve divenire sinonimo anche di sicurezza lavorativa, sicurezza di trovare lavoro, per poter ottenere un mutuo per l’acquisto della propria casa, per crearsi una famiglia e soprattutto per vivere con maggiore dignità. Ritornare ai valori fondanti della società civile, la famiglia, il lavoro, la comunità. Non si sottraggono i giovani al sacrificio, ma vogliono la certezza del domani.

Tommaso Manzillo

Articolo già pubblicato sul "Monitore Napoletano" http://www.monitorenapoletano.it/sito/2012/febbraio/335-litalia-del-domani.html

 
 
 

L’ITALIA SULLA STRADA DELLA LIBERTA’ ECONOMICA

Post n°47 pubblicato il 24 Gennaio 2012 da tommaso.mt

L’ITALIA SULLA STRADA DELLA LIBERTA’ ECONOMICA

L’Italia non è un Paese liberale. Lo dimostrano i diversi fatti di economia che stanno lacerando il mondo politico in questi giorni. Ma è tutta la storia dell’unità italiana a dirci che fin dalle origini si sono sempre elevate dal popolo, ieri dai contadini, oggi dagli operai, impiegati e pensionati, tante e sempre più forti domande di libertà in ambito economico. Sono tutti quegli operatori che quotidianamente devono muoversi in un mercato caratterizzato da una concorrenza molto spesso sleale, dove manca persino la certezza del diritto, a chiedere maggiore apertura nel mondo economico, mentre altri si trovano ad operare in ambienti protetti da leggi e disposizioni varie preparate per loro dall’amico politico, in cambio di tornaconti personali e fini elettoralistici. Ma sono anche i consumatori italiani a chiedere maggiore offerta di beni e servizi, per poter confrontare e scegliere il miglior rapporto tra qualità e prezzi, in una logica premiante il mercato migliore. È l’Italia dei poteri forti, delle lobby che pretendono sempre di mantenere lo status quo, perché a loro interessa soltanto il proprio ovile: come biasimarli se questo è nella stessa indole umana? Lo stesso decreto sulle liberalizzazioni sta a significare che il mondo produttivo principalmente esige e pretende di lavorare in condizioni di concorrenza, alla pari di tutti gli altri settori, segno evidente che veramente il nostro Paese presenta un serio deficit in tema di libertà economica.

Le tante manifestazioni di protesta che si levano contro queste tipologie di provvedimenti sono la dimostrazione evidente delle numerose rendite di posizione che inibiscono ogni forma di libera concorrenza, barrando la strada della crescita e dello sviluppo, anche sociale. Questo è solo un provvedimento parziale, perché molti settori sono stati lasciati fuori per le troppe pressioni presenti, e molto più in profondità si poteva giungere in quelli già toccati. Accanto all’allargamento del numero delle farmacie sarebbe stato ideale aggiungere la possibilità di vendere i farmaci di fascia C, con la ricetta medica, nelle parafarmacie e nei supermercati. Ma per tutti e per tutto arriverà il tempo.

Certamente, questo provvedimento era doveroso, perché rappresenta la risposta a quello varato prima di Natale, e che consisteva in un aumento eccessivo della pressione fiscale, soprattutto durante questa congiuntura economica, piuttosto pesante e negativa. La rabbia sta solo nel fatto che tutte quelle formazioni politiche che si richiamano agli ideali liberali, non siano state in grado, in questi diciotto anni di governo, di mettere in piedi un provvedimento di queste proporzioni, passando la palla al governo tecnico, per poi offrire un appoggio mascherato di principi liberali.

L’effetto immediato che avrà il decreto in esame non sarà un generale abbassamento dei prezzi per quei settori interessati, perché l’intento principale rimane quello di creare nuove opportunità di lavoro, con lo snellimento burocratico per le nuove iniziative economiche e l’istituzione del tribunale delle imprese, per i giovani (pensiamo alle società semplificate a responsabilità limitate, o allo studente tirocinante per l’iscrizione in albi professionali), per le donne, per chi è stato scaraventato fuori a causa della crisi, dandogli la possibilità di rientrarvi. Nuovi notai (500), apertura di nuove farmacie (una ogni 3000 abitanti), più libertà nei settori professionali (abolizione delle tariffe e obbligo del preventivo di spesa se richiesto dal cliente) sono alcune delle condizioni indispensabili per creare lavoro, quindi più reddito, quindi ancora il ritorno in termini di maggiori introiti tributari per lo Stato e, di conseguenza, una eventuale riduzione del carico fiscale su famiglie ed imprese. Più lavoro vuol significare anche maggiore offerta di servizi di qualità a prezzi di concorrenza, perché veramente il problema di questa crisi economica è anche rappresentato dall’elevato livello dell’inflazione, che sta strozzando il mondo produttivo e dei percettori di basso reddito con sempre e nuovi rincari: dai carburanti con la rivolta dei “forconi”, alle addizionali sul gas ed energia, passando per le tariffe autostradali, oltre alle materie prime.

Si comprende perfettamente il timore dei diretti interessati contro il processo delle liberalizzazioni, pensiamo ai tassisti che vedono una forte svalutazione della propria licenza, pagata a peso d’oro. Ma questa è la logica conseguenza di un sistema che è andato avanti per troppo tempo, frutto di scambi di favori per scopi elettorali tra la politica e questi settori economici privilegiati. Un sistema di protezione sociale cui nessuno, in questi anni, ha mai cercato di correggere per non urtare la suscettibilità dei poteri forti, minacciando ritorsioni elettorali. Ma non si comprende neppure perché in tanti settori del mondo produttivo operano diversi soggetti che quotidianamente si fanno la concorrenza a vicenda, anche la più spietata, e certi settori godono invece di rendite di posizione perché salvaguardati dal protettore politico di turno, provocando un ingessatura economica non indifferente. E chi contesta che maggiore libertà economica implica un peggioramento delle condizioni sociali, risponde la storia economica del mondo, che ha sempre conosciuto sviluppo dove è stato coltivato il seme della libertà, della democrazia e dell’uguaglianza, oltre che le tante lotte condotte dai padri del pensiero liberale italiano (L. Einaudi, A. De Viti De Marco, V. Pareto, M. Pantaleoni, G. Mosca, G. Salvemini). È il lavoro che crea la ricchezza e non le rendite di posizione. E questo viene dimostrato dalla lenta e quasi piatta crescita del P.I.L. registrata negli ultimi vent’anni, dopo essere stati protagonisti della scena economica con tassi di sviluppo veramente elevati. Sono provvedimenti che negli altri Paesi europei sono stati adottati molti anni fa, e che hanno consentito tassi di crescita da primato. Dal decreto varato venerdì scorso, secondo le previsioni del Governo, si aspetta una crescita aggiuntiva del prodotto interno lordo nell’ordine dell’1 percento annuo, perciò occorre rivolgere un appello alle forze politiche affinché apportino altre e più profonde modifiche migliorative, pensiamo al mondo delle Poste, delle Ferrovie, e soprattutto a quell’apparato di municipalizzate in mano agli enti locali, e che oggi versano in stato di forti deficit a carico di tutta la collettività del territorio. Anche contro queste realtà locali andrebbero indirizzati nuovi provvedimenti per iniettare maggiore concorrenza in vista della salvaguardia anche dei loro conti pubblici, appesantiti da scelte amministrative ispirate da logiche spartitorie piuttosto che da sani principi egualitari e liberali.

Questo deve essere soltanto il primo passo affinché l’Italia diventi un Paese liberale in tutti i campi dell’economia, per divenire nuovamente protagonisti della nuova ripresa economica, che presto tornerà ad affacciarsi, trovandoci preparati per nuove sfide sulla strada della libertà e dell’uguaglianza.

Tommaso Manzillo

Articolo già pubblicato sul "Monitore Napoletano" http://www.monitorenapoletano.it/sito/2012/gennaio/speciale-proteste-contro-le-liberalizzazioni/327-litalia-sulla-strada-della-liberta-economica.html

 
 
 

LA RINASCITA DELLA SCUOLA ECONOMICA NAPOLETANA

Post n°46 pubblicato il 17 Gennaio 2012 da tommaso.mt

La ricchezza è un mezzo, non già il fine della società”. È una delle tante espressioni di saggezza del salentino G. Palmieri di Martignano, nelle sue Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli (1783), il discepolo più stretto del napoletano A. Genovesi. Fu proprio quest’ultimo a promuovere un nuovo modo di pensare l’economia, che metta al centro l’uomo, o meglio la persona portatrice di bisogni sempre diversi e nuovi, piuttosto che l’arida logica della massimizzazione del profitto e la mala distribuzione di ricchezza.

Il sistema economico odierno, purtroppo, ruota attorno alla concezione del capitale e al suo meccanismo di considerare tutta la società come un solo individuo, capace di fondere la massimizzazione del profitto di questo individuo globale, attraverso il benessere materiale, con la ricerca della felicità. È la critica più dura di A. Sen contro la logica del marginalismo e dell’efficienza economica, incapace, secondo il Premio Nobel, di apportare quella equa distribuzione della ricchezza che il sistema economico deve avere come obiettivo primario.

La distorsione attuale sta proprio nel considerare il possesso dei beni materiali come il fine dell’attività umana, il traguardo da raggiungere per ottenere il prestigio e il potere. Lo aveva ricordato persino Paolo VI nella Sua Lettera Enciclica Populorum Progressio (1967) quando affermava che “l'acquisizione dei beni temporali può condurre alla cupidigia, al desiderio di avere sempre di più e alla tentazione di accrescere la propria potenza”. Non vogliamo, certamente, sottrarre al capitale e al suo meccanismo distributivo il compito chiave di alleviare lo stato passivo dell’uomo, ossia il bisogno; ma i principi attraverso i quali è avvenuto tale processo distributivo della ricchezza prodotta si sono dimostrati inadatti al perseguimento di quelli che erano gli obiettivi di A. Genovesi e degli altri, ossia la pubblica felicità.

La ricchezza tradotta in possesso di beni materiali, se in un primo momento è stata la fonte indispensabile per sottrarre l’uomo dallo stato di povertà, col passare del tempo è divenuta un’arma a doppio taglio, perché nuovi e più pressanti bisogni si sono affacciati nella società consumistica, che hanno provocato il crac del sistema. Ancora per usare l’espressione di Paolo VI (1967), “la ricerca esclusiva dell'avere diventa così un ostacolo alla crescita dell'essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale”. È questa la triste condizione in cui ci ha condotto il regime capitalista, come lo chiama R. L. Heilbroner, testimoniato dalla tante tragedie sociali, personali, umane prodotte da una crisi economica veramente micidiale.

Come uscirne fuori. La risposta viene da quella scuola di pensiero economico che propugnava il primato della società, del bene dell’uomo che non abbraccia un arco temporale breve, ma deve essere duratura. È la scuola economica dell’abate napoletano A. Genovesi (XVII sec.), che ebbe diversi discepoli soprattutto nel XVIII e XIX secolo, tra i quali meritano menzione C. A. Broggia, L. A. Muratori, P. Verri, G. Palmieri. “Il fine dell’economia civile - dice Genovesi nelle sue Lezioni di Commercio - siccome è più di una volta detto, è: I. l’aumentazione del popolo; II. La di lui ricchezza; III. La sua naturale e civile felicità; IV. E con ciò la grandezza, gloria, e felicità del Sovrano”. Per questo possiamo dire che occorre oggi umanizzare l’economia, rimettere al centro l’uomo e la sua comunità portatrici di bisogni cui occorre dare risposte concrete, piuttosto che false promesse vestite di ricchezza e vanagloria. In questo deve assumere un ruolo chiave la politica, che si metta sul serio al servizio del cittadino e del bene comune, fatta non di attori e protagonisti di vita mondana, frequentatori di salotti televisivi piuttosto che del proprio scranno parlamentare. Il decadimento morale di una società, purtroppo, è anche testimoniata dalla sua rappresentanza politica ed istituzionale. Difatti, proprio Genovesi affermava che al governo vi deve essere “il Filosofo, ed il Filosofo Politico, e innamorato delle vere cagioni della pubblica opulenza, e prosperità, che sono le Virtù, e l’Arti”.

Il fine ultimo che deve avere l’economia, che vuole uscire da una pesante situazione di debolezza, è quello del perseguimento della pubblica felicità (difatti, nel Sei-Settecento si usava l’espressione ‘economia della felicità’), piuttosto che la ricchezza e l’accumulazione di capitale, che, come dimostra Esterlin, non ha prodotto, al pari del P.I.L., una crescita vera della felicità umana. L’economia capitalistica deve vestirsi di una nuova dimensione umana, attraverso dei sistemi distributivi della ricchezza che vadano nella direzione di combattere le diseguaglianze di A. Sen, non solo attraverso l’acquisizione di beni materiali, ma soprattutto promuovendo la libertà e la democrazia, valori oramai abbandonati a favore del criterio della massimizzazione del benessere individuale e materiale. Diceva G. Palmieri che “il compendio di questa scienza, ed il merito più facile e breve così per apprenderla come per praticarla, risiede nell’amor sociale”, perché “per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello de’ suoi simili”. Solo se in grado di rispettare questo compito delicato, l’economia può entrare a far parte a pieno titolo tra le scienze sociali, che mirano al vero benessere umano, ossia la pubblica felicità.

Tommaso Manzillo

 

Bibliografia citata e consultata

     

-          Benedictus PP. XVI, Caritas in Veritate, Lettera Enciclica del 29 giugno 2009;

-          Broggia C.A., Trattato de’ Tributi, delle Monete e del governo della sanità – Opera di Stato, di Commercio, di polizia, e di finanza, Napoli, 1743;

-          Genovesi A., Lezioni di commercio o sia d’economia civile, 1769;

-          Heilbroner R. L., Natura e logica del capitalismo, Jaca Book spa, Milano, 2001;

-          Manzillo T., L’uomo e il bene comune, ebook, Teomedia.it editore, 2011;

-          Manzillo T., Il marchese di Martignano, da “il Titano”, supplemento economico de “il Galatino”, nr. 12   del 24 giugno 2011;

-          Manzillo T., L’economia civile di Giuseppe Palmieri, in “il Galatino”, nr. 18 dell’11 novembre 2011;

-          Muratori L. A., Della pubblica felicità. Trattato economico politico, Zatta A. editore, Venezia, 1789;

-          Palmieri G., Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XXXVII, Milano, 1805;

-          Palmieri M., Dell’ottimo cittadino. Massime. Tolte dal Trattato della vita civile, Venezia, 1829;

-          Paolo PP. VI, Populorum Progressio, Lettera Enciclica del 26 marzo 1967;

-          Pius PP. XI, Quadragesimo Anno, Lettera Enciclica del 15 maggio 1931;

-          Sen A. K., La diseguaglianza, Il Mulino, 2000;

-          Sen A. K., La libertà individuale come impegno sociale, Laterza, Bari, 2003;

-          Signore M., Economia del bisogno ed etica del desiderio, Pensamultimedia, Lecce, 2010;

-          Smith A., La ricchezza delle nazioni, Collana “I classici del pensiero economico”, Il Sole 24 Ore, Giulio Einaudi, Torino, 2010;

-          Verri P., Meditazioni sulla pubblica felicità, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XV, Milano, 1804;

-          Zamagni S., L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo, working paper nr. 49, Corso di Laurea in Economia delle Imprese Cooperative e delle organizzazioni non profit, Università di Bologna, febbraio 2008.

 

 
 
 

UN IMPORTANTE INDICATORE FINANZIARIO: LO SPREAD

Post n°45 pubblicato il 13 Gennaio 2012 da tommaso.mt

È l’incubo dei governi dell’Unione Europea, fino a costringere alle dimissioni Silvio Berlusconi dalla carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, mettendo in difficoltà persino i nostri rappresentanti politici che siedono sugli scranni parlamentari, facendoci sorridere nei loro goffi tentativi di darne una spiegazione: è lo spread. Una piccola parola adottata dalla terminologia anglosassone per significare soltanto una ‘differenza’ tra due termini presi a paragone, ossia il rendimento dei titoli di Stato italiani, nel nostro caso con scadenza decennale, e l’equivalente dei titoli di Stato di un altro Paese, che è la Germania, e spiegheremo il motivo.

È un indicatore indispensabile per giudicare lo stato di salute anche dei conti pubblici di un Paese, perché il rendimento di un titolo di Stato è inversamente proporzionale al suo indice di gradimento. Difatti, in molti si chiedono perché le aste per piazzare i titoli di Stato con un rendimento di oltre il 7 percento, a volte, vedono la scarsa partecipazione dei risparmiatori. In sostanza, il rendimento di un titolo oltre una certa soglia-limite dovrebbe mettere in guardia qualunque potenziale acquirente, chiedendosi se lo Stato, alla scadenza, sia in grado di rimborsare, oltre che la sorte capitale, anche gli interessi a quel tasso. In Argentina, i risparmiatori, forse amanti del rischio, ma attratti dagli alti rendimenti, non se lo sono mai chiesto, giudicando sempre affidabile il proprio Stato, e sappiano oramai com’è andata a finire. Per questo motivo, quando un titolo pubblico è giudicato poco gradito, con più determinazione sale il suo rendimento e di conseguenza, cala l’indice di fiducia verso quell’ente emittente, che è lo Stato, incapace, secondo gli investitori, al mantenimento dei propri impegni, ossia il rimborso della sorte capitale e dei relativi interessi.

 

 

In Europa, il Paese che gode di un alto gradimento, vuoi per i conti pubblici in ordine, ossia presenza di un basso livello di debito pubblico (il parametro del Trattato di Maastricht impone un rapporto debito pubblico/P.I.L. al 60 percento), vuoi perché la ricchezza prodotta dalla sua economica rappresenta circa un terzo dell’intera ricchezza prodotta dall’Unione Europea, è la Germania. E quando si dice che lo spread tra i titoli di Stato italiani a dieci anni e gli equivalenti Bund tedeschi è sopra i 500 punti base, vuol proprio significare che, se la Germania ha un rendimento sui Bund sotto la soglia del 2 percento, proprio perché  ritenuta un Paese affidabile e solvibile, riuscendo a piazzare i suoi titoli sui mercati finanziari, quelli italiani sono oltre il 7 percento, in quanto, non essendo graditi, presentano un rendimento più elevato, giudicando alta la probabilità che quel titolo non venga rimborsato dal Governo Italiano. È il meccanismo del mercato: più alta è la domanda di un titolo più il suo prezzo di acquisto sale e, di conseguenza, il suo rendimento scende. Al contrario se la domanda cala, il prezzo scende e il rendimento sale per renderlo appetibile. Vediamo ora da cosa dipende il livello della domanda per un titolo del debito pubblico.

Le famiglie e tutti i risparmiatori si chiedono il motivo per cui l’Italia non è più un Paese affidabile e solvibile con certezza. E la motivazione è nell’elevato livello del debito pubblico presente nel bilancio dello Stato italiano (il parametro di Maastricht dovrebbe superare per il 2011 il livello del 140 percento: oltre il doppio della Germania!). E con uno stock così elevato è giudicata elevata la probabilità di non riuscire a rimborsare gli interessi ad un rendimento di oltre il 7 percento, su una massa debitoria delle nostre proporzioni. Quindi lo spread riflette, sostanzialmente, il livello del debito pubblico di un Paese, creando aspettative negative. Ma lo spread arriva a pesare anche nelle tasche di tutti gli italiani, perché lo Stato, per garantire quel tasso, deve apportare quelle manovre correttive ai conti pubblici che consentano di reperire fondi da utilizzare per il rimborso degli interessi in questione, se vuole evitare i default. Perché, è il caso di dirlo, gli interessi passivi sul debito pubblico, entrano a far parte del deficit di bilancio, facendo lievitare il suo rapporto in base al P.I.L. ad oltre il 4 percento (il parametro di Maastricht è del 3 percento). E il deficit di un anno alimenta, l’anno dopo, lo stock di debito pubblico, innescando un circolo vizioso.

Riepilogando, lo spread sintetizza lo stato di salute del bilancio di uno Stato, perché più è elevato in confronto con la Germania, Paese solvibile per eccellenza, più è giudicato pericoloso dagli investitori per l’alto rischio di default. Questo vuol dire la bancarotta di uno Stato, l’impossibilità di far fronte ai suoi impegni non solo sul fronte dei titoli di Stato, non riuscendo a rimborsare la sorte capitale e gli interessi, ma anche per pagare i suoi dipendenti, i pensionati, a garantire quei livelli minimi di assistenza sociale, minando alla base il  mantenimento di un certo equilibrio che non è solo monetario, ma anche umano. Per questo il suo livello è divenuto di grande importanza per noi italiani, facendoci passare notti piuttosto inquiete.

Allora, la via d’uscita? Una seria politica che abbatta il debito pubblico in maniera strutturale, nel senso della riduzione dei costi politici e amministrativi, vincendo lobby di potere che hanno ingessato l’economia italiana, perché gli interessi particolari di pochi sono stati salvaguardati per troppo tempo. Occorre porre rimedio e chiederci il motivo per il quale, nonostante la manovra del Governo Monti, lo spread continua a rimanere su livelli piuttosto elevati. Non è solo una questione che riguarda il cambio di guardia a Palazzo Chigi, ma coinvolge la nostra mentalità e il nostro modo di essere per sconfiggere tutte le forme di privilegio presenti, per poter ripartire non solo sul piano economico e finanziario, ma soprattutto su quello morale e civico.

Tommaso Manzillo

Articolo già pubblicato sul "Monitore Napoletano": http://www.monitorenapoletano.it

 
 
 

UNA PICCOLA, MA GRANDE CHIESA: L’ADDOLORATA DI GALATINA

Post n°44 pubblicato il 10 Gennaio 2012 da tommaso.mt

Un vero e proprio splendore. La chiesa dell’Addolorata di Galatina (1710) riconquista la sua antica bellezza e straordinarietà stupendo il visitatore al suo ingresso nella casa di Dio. L’intervento conservativo dell’altare maggiore (1716) e il restauro delle sei tele ovali raffiguranti la Via Matris, voluti grazie alla tenacia dell’amministrazione del Pio Sodalizio, guidata da Biagio Buccella, fanno della piccola, ma grande chiesa dell’Addolorata, come amava chiamarla mons. Antonio Antonaci, Rettore per oltre quarant’anni, un vero e proprio gioiello dell’arte barocca, incastonato nel cuore del centro storico, meta obbligata dei pellegrini durante la loro visita alla città, ma anche dei fedeli devoti alla Vergine Maria.

La sera del 17 dicembre 2011, alla presenza dell’Arcivescovo di Otranto S.E. mons. Donato Negro, del Rettore mons. Aldo Santoro, dell’allora Sindaco della città dott. Giovanni Carlo Coluccia, dell’ing. Giovanni Vincenti, responsabile dello stabilimento Colacem di Galatina, dell’architetto Luigina Antonazzo, Direttore dei Lavori, Emilia Marcella Stefanelli, Restauratrice B.B.C.C. della ditta DEA XXI di Lecce, della dott.ssa Alessandra Muci, Restauratrice delle tele, dei geometri Luigi e Claudio Marullo dell’omonima ditta, è stato presentato alla città di Galatina il risultato di tutti questi anni di lavoro, di progettazione, di raccolta fondi, rendendo grazie a Dio per questo importante traguardo raggiunto, punto di partenza per nuove iniziative tese a valorizzare ulteriormente il patrimonio artistico, culturale e religioso presente nella chiesa. 

Il grandioso lavoro portato avanti in questi ultimi mesi è la realizzazione di un progetto nato sul finire del secolo scorso con il recupero delle statue laterali poste sull’altare maggiore (S. Caterina da Siena e S. Chiara, protettrici della confraternita), e tenuto in piedi grazie alle numerose piccole offerte dei fedeli. Tutti i colori dell’altare maggiore della chiesa dell’Addolorata vennero nascosti, probabilmente agli inizi del secolo scorso, mediante una copertura di calce per evitare il diffondersi di croniche malattie infettive che imperversavano in quegli anni, soprattutto a causa delle due guerre mondiali che sconvolsero la storia della prima metà del Novecento. Ha preceduto questo lavoro di restauro un intervento per combattere l’umidità di risalita, considerando che nella parte sottostante la chiesa, dove sono seppellite le spoglie dei confratelli defunti del Pio Sodalizio, come per buona parte della zona del centro storico della città, è  presente una certa quantità di acqua, che danneggia le strutture sovrastanti. Difatti, sarà forse per la presenza di tale fenomeno, i colori della parte inferiore dello stesso altare sono andati irrimediabilmente perduti, danneggiandolo gravemente.

Sul piano tecnico, è stata necessaria un’opera di eliminazione degli strati di ridipintura precedenti, seguita da una fase di consolidamento degli strati pittorici, con la stuccatura di alcune superfici lacunose e alcune parti sono state dipinte con vernice dorata (porporina) e con fondo di vernice sintetica di colore grigio. Lo stesso altare maggiore venne restaurato nel 1854, grazie all’interessamento di Aloysio Baldari, così come riportato in una incisione riportata alla luce. Il prossimo intervento riguarderà la realizzazione di un idoneo impianto di illuminazione dell’altare, che metta ben in risalto la ricchezza dei suoi particolari (pensiamo, per esempio, ai sei puttini angelici che circondano la teca dove è custodita la Vergine Addolorata, portando in mano i segni della Passione del Cristo). Il costo dell’intervento, però, è piuttosto elevato, dopo quello già realizzato!

Possiamo così riscoprire, dalla sera del 17 dicembre, la straordinaria espressione del volto di San Pietro, situato per chi guarda sulla sinistra dell’altare, portando sulla mano le chiavi della città di Galatina (adversus hanc petram portae inferi non praevalebunt, arricchiva una volta lo stemma della città), di cui è compatrone insieme a San Paolo, situato sulla destra; la profonda devozione mariana dei serviti protettori della confraternita, tra i quali troviamo le statue di S. Filippo Benizi e S. Giuliana Falconieri (nipote di uno dei Sette santi fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria, sant’Alessio), oltre al francescano S. Pasquale Baylon; riveste un significato particolare la devozione a S. Antonio da Padova, volendo, i nostri padri, collocarvi la statua al fianco a quella di S. Pietro. La devozione alla Vergine Addolorata, come riporta la bolla di affiliazione dell’Arciconfraternita all’Ordine dei Servi di Maria (1711), risale alla notte del venerdì santo del 1240, quando in una grotta del monte Senario comparve, a quelli che diventarono i fondatori dell’Ordine stesso, la Vergine Desolata, vestita di nero e col volto provato dalla morte del Suo Figlio Unigenito, Gesù. Si può, ora, ammirare l’altare, alto fin sopra al controsoffitto, per scorgere la via per la salvezza dell’uomo che, usando le parole dell’ing. Vincenti nella sera della presentazione, conduce, in un movimento ascendente, verso l’Eterno Padre, che lo accoglie a braccia aperte.

Meritano particolare attenzione le sei tele ovali raffiguranti la Via Matris, e situate lungo le pareti della navata centrale, restaurate nel febbraio del 1957 su commessa della contessa Maria Caracciolo-Mongiò. Trattasi di dipinti di olio su tela cm. 178 x cm. 147 risalenti alla seconda metà del XVIII secolo. In particolare la tela della “Presentazione di Gesù al Tempio” presenta un’iscrizione dell’autore, Gaetano Tartaglia,  che l’ha donata e dipinta nel 1860, mentre “La sepoltura”, “La fuga in Egitto” e “La deposizione” potrebbero essere, come è emerso la sera del 17 dicembre, opera di Maria Rachele Lillo, sempre risalenti alla seconda metà del XVIII secolo. L’intervento della dott.ssa Alessandra Muci è costituito da un’opera di pulitura delle sei tele ovali e di rifacimento del relativo telaio su disegno del precedente, per riportare all’antico splendore tutto un patrimonio artistico che gli agenti atmosferici, l’umidità e l’incuria dell’uomo stavano deteriorando, fin quasi alla perdita totale di questa straordinaria ricchezza, che pochi concittadini, purtroppo, conoscono. Assumono oggi una veste diversa, ricoprendosi di luce nuova mostrando i colori vivi dell’opera stessa. Fanno certamente parte di quella che fu chiamata la Bibbia dei poveri, i quali, non sapendo leggere, con l’ausilio dell’arte pittorica potevano conoscere e scoprire la vita di Gesù e della Vergine Madre.

Nonostante manchi ancora la ripulitura delle pareti interne, quest’anno tutti noi sodali della confraternita e cittadini di Galatina potremo contemplare i Dolori di Maria nella Passione e Morte del Suo Figlio Unigenito, nella chiesa dell’Addolorata, davanti a quell’altare meraviglioso, così come la pensarono e la edificarono i nostri padri tre secoli or sono.

La chiesa dell’Addolorata di Galatina e tutti i suoi tesori custoditi gelosamente fanno parte del patrimonio religioso, storico, artistico e culturale della città, che l’attuale amministrazione sta cercando di valorizzare, attingendo dalle casse dell’Arciconfraternita, e soprattutto facendo affidamento alla generosità dei fedeli, tra i quali vanno menzionate le sorelle Esposito, oltre alla ditta Marullo, al Banco di Napoli spa e al corposo intervento del comune di Galatina in collaborazione con la ditta Colacem spa, grazie al coinvolgimento dell’ing. Giovanni Vincenti, che, con devozione mariana, si è molto interessato alla chiesa e alla sua salvaguardia. L’Arciconfraternita pone a tutti loro i più sentiti ringraziamenti, con una profonda preghiera alla Vergine Addolorata.

 

Tommaso Manzillo

Bibliografia

Antonaci A., Galatina Storia & Arte, Panico, Galatina, 1999;

Antonaci A., La chiesa dell’Addolorata di Galatina, Editrice Salentina, Galatina, 1967;

Specchia D., Don Mario Rossetti. Un sacerdote della comunità galatinese, Arti Grafiche Panico, Galatina, 2011

 

 
 
 
 
 

L'UOMO E IL BENE COMUNE

Post n°42 pubblicato il 01 Dicembre 2011 da tommaso.mt

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE

 

Il bagaglio culturale ed intellettuale dell’economista di oggi non può rimanere legato soltanto ai principi economici tramandati dai padri del pensiero classico e oltre. La perdurante crisi finanziaria mondiale ci insegna che lo sguardo dell’economista, come dell’analista deve andare al di la della storia del pensiero economico, e dei suoi principi ed insegnamenti. Nel tentativo di interpretare l’attuale congiuntura, la più importante del Terzo Millennio, occorre attingere ad altre discipline, come la sociologia, l’antropologia, la psicologia non tanto per puntare il dito contro questo o quel male e le sue cause, quanto piuttosto per capire che le origini delle crisi economiche mondiali, come questa che stiamo attraversando, possono e dovrebbero ricavarsi all’interno dell’animo umano, nei suoi modi di essere, di vivere, di interagire con l’ambiente esterno. Per dare delle spiegazioni ai movimenti economici non basta rispolverare i vari Smith, Keynes, Ricardo, Mill e altri. Occorre interagire con le altre discipline quanto meno per capire dove si dirige l’uomo, le sue sensazioni, le sue inclinazioni, le sue aspettative dalla società odierna. Oggetto dell’indagine economica deve essere l’uomo, nella sua visione individualistica e in quella sociale, perché è l’uomo che causa i suoi mali ed è verso di lui che deve saper dirigersi lo studio dell’analista come dell’economista di oggi, nel tentativo di scoprire quanto l’economia è una scienza economica che fa parte integrante dell’altra scienza più vasta che è quella sociale. L’intento è quello di riscoprire l’uomo, dalla sua prima visione solitaria ed individualista verso quella sociale, perché è con la società che quotidianamente deve interagire e relazionarsi, assumendosi le sue responsabilità. Ogni gesto economico porta conseguenze nella società, e l’uomo si serve del mercato per soddisfare le sue esigenze e dare appagamento ai suoi bisogni, che, avvertiti dagli altri suoi simili, diventano bisogni della società.

 

Il mercato è lo strumento, come avrebbe detto Benedetto XVI nella Lettera Enciclica Caritas in Veritate (2009), di cui si serve l’homo oeconomicus e il sistema da lui inventato, per distribuire la ricchezza prodotta, creando e sviluppandone sempre di nuova da distribuire. Questo strumento, come quegli di uso quotidiano, sono nelle mani dell’uomo, prima di tutto come essere, quindi come membro attivo e partecipe della società in cui si muove; quindi ancora come soggetto portatore sano di bisogni cui trovare appagamento attraverso i meccanismi del mercato. Quando l’homo oeconomicus, essere bisognevole, debole, preso nella sua fragilità terrena e umana, manomette il suo strumento, spinto dalla sua fame di bisogni e di appagamenti, usa dire che il mercato e la libera concorrenza, con i loro meccanismi distributivi, non sono più idonei allo sviluppo umano, sociale, civile, economico, etico, ecc.

 

Il mercato è certamente servito quale volano di sviluppo, per imprimere una svolta decisiva alla propria condizione di miseria. Con l’attuale crisi economica e finanziaria si è messo sul banco degli imputati l’economia di mercato e i suoi meccanismi distributivi, dimenticando che questo è stato ed è lo strumento di cui l’uomo si è sempre servito dagli albori dello scambio economico, e ancora prima, fino a oggi per uscire dallo stato passivo del bisogno di beni primari, per passare a uno stile di vita che fino a pochi decenni fa era impensabile. È il mercato, non l’uomo la causa dei mali?

 

Ripercorrendo il pensiero dei padri dell’economia di mercato civile, come A. Genovesi, G. Palmieri, C. A. Broggia, L. A. Muratori, e di illustri studiosi di antropologia e filosofia, ci si rende conto come la loro idea di sviluppo economico sia molto lontana dalla nostra, soprattutto è diverso il punto di analisi e gli obiettivi prefissi. Il nostro sistema economico oggi è eccessivamente orientato verso un’economia di mercato capitalista, dove il raggiungimento del massimo guadagno immediato è l’orientamento del presente, mentre l’idea di A. Genovesi, per esempio, è quella di un sistema di obiettivi che vanno nella direzione di uno sviluppo più duraturo, ma che abbraccia il bene comune di un popolo, piuttosto che intrigati interessi personali. A volte l’uomo preferisce la momentanea felicità con le sue fragilità allo sviluppo duraturo e di medio e lungo periodo, facilitato dal miraggio del denaro e dalla forza del capitale, che ha scavato un solco profondo tra l’homo oeconomicus e la sua comunità di riferimento. L’avvento della rivoluzione industriale, con i suoi stravolgimenti sociali, dopo le numerose conquiste nel campo dei diritti del lavoro e dell’uomo, con la promozione del regime capitalista, come lo definisce R. L. Heilbroner, ha fatto sì che l’uomo sposti la propria attenzione su altri traguardi, che hanno eccessivamente aumentato il suo stile di vita, provocando uno svuotamento interiore della sua essenza, dei suoi valori cardini, che per millenni gli hanno consentito di sopravvivere. In tal modo, ha perso di vista il bene comune, ossia l’importanza dell’uomo stesso, sul piano individuale e inserito nella sua comunità di riferimento, bene comune che coinvolge e interessa la sua stessa sopravvivenza, mettendo a rischio tutto un bagaglio di conquiste sociali, umani, civili ottenute dopo cruente battaglie. Non è raro sentir dire che l’homo oeconomicus, con questa attuale crisi, rischia di riportare il sistema economico di nuovo verso lo stato agricolo, ossia di azzerare, o meglio, di disintegrare il progresso ottenuto quando al centro del suo operare ha messo il bene comune degli uomini.

 

Rileggere le opere del pensiero economico civile, certamente ci avvicina, per chi è ricco di tali stati d’animo, all’idea e al valore di amor del prossimo, che è l’insegnamento più importante del Cristianesimo. E G. Palmieri lo riporta nelle sue  Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli. L’economia è certamente ciclica, un susseguirsi di fasi di espansione e di recessione, occorre saperle gestire, non nella logica dell’interesse privato, ma tenendo conto della sopravvivenza del genere umano, che passa inesorabilmente e inevitabilmente dal perseguimento del bene comune. Perché, qui ora è in gioco la stessa sopravvivenza dell’essere uomo, che quotidianamente deve lottare in un’arena competitiva dove molti sono gli attori che vi partecipano per la conquista delle scarse risorse ancora disponibili.

 

Nel quarto capitolo si sviluppa l’idea di bene comune, partendo da un’attenta analisi e lettura di un breve passaggio della lettera di san Paolo ai cristiani di Filippi (2, 1-11). Si tenta di dimostrare, con questa chiave di lettura, come gli insegnamenti di Gesù Cristo e della Chiesa e i principi e valori fondanti il Cristianesimo siano idonei a ispirare l’agire di ogni attività economica, perché questa trovi nel bene comune il fine ultimo del suo operare, elevandosi quale scienza sociale indispensabile per il progresso dell’uomo. In sostanza, con l’aiuto anche delle Lettere Encicliche emanate dalla Chiesa, l’obiettivo finale è quello di rendere l’etica del Cristianesimo compatibile con la scienza economica, in vista del perseguimento del bene comune e dello sviluppo dei popoli.

 

Durante e dopo ogni crisi economica, ritorna sempre il pensiero economico civile, si riparla di morale, di questione sociale e umanitaria, si stendono interi trattati di filosofia morale, tutti pronti e bravi a condannare questo o quel modo di vivere. Questo breve volume, lontano da ogni ispirazione e ideologia politica perché fuori luogo, intende essere il frutto di una piccola ricerca, con delle dovute riflessioni personali, in difesa del libero mercato, ma anche alla scoperta del pensiero che dei padri dell’economia di mercato civile, ai loro valori di riferimento, ma con un occhio attento agli insegnamenti dei maestri del nostro tempo, oramai scomparsi persino dalle aule universitarie e scolastiche.

 

Soleto, 03 ottobre 2011

 

Tommaso Manzillo

 
 
 

MESSAGGIO PER TUTTI GLI ITALIANI ONESTI

Post n°41 pubblicato il 28 Novembre 2011 da tommaso.mt

 

MESSAGGIO PER TUTTI GLI ITALIANI ONESTI

GIULIO TREMONTI  AVEVA CHIESTO  DI AUMENTARE L'ETÀ DELLE PENSIONI PERCHÉ IN EUROPA TUTTI LO FANNO.

q  NOI CHIEDIAMO, INVECE, DI ARRESTARE TUTTI I POLITICI CORROTTI , DI ALLONTANARE DAI PUBBLICI UFFICI TUTTI QUELLI  CONDANNATI IN VIA DEFINITIVA PERCHÉ IN EUROPA TUTTI LO FANNO, O SI DIMETTONO DA SOLI PER EVITARE IMBARAZZANTI FIGURE (*) .

q  DI DIMEZZARE IL NUMERO DI PARLAMENTARI PERCHE’ IN EUROPA NESSUN PAESE HA COSI’ TANTI POLITICI !!

q  DI DIMINUIRE IN MODO DRASTICO GLI STIPENDI E I PRIVILEGI A PARLAMENTARI E SENATORI, PERCHÉ IN EUROPA NESSUNO GUADAGNA COME LORO.

q  DI POTER ESERCITARE IL “MESTIERE” DI POLITICO AL MASSIMO PER 2 LEGISLATURE COME IN EUROPA TUTTI FANNO !!

q  DI METTERE UN TETTO MASSIMO ALL’IMPORTO DELLE PENSIONI EROGATE DALLO STATO  (ANCHE RETROATTIVE), MAX.  5.000, 00 EURO AL MESE DI CHIUNQUE, POLITICI E NON, POICHE’ IN EUROPA NESSUNO PERCEPISCE 15/20 OPPURE 30.000,00 EURO AL MESE DI PENSIONE COME AVVIENE IN ITALIA

q  DI FAR PAGARE I MEDICINALI VISITE SPECIALISTICHE E CURE MEDICHE AI FAMILIARI DEI POLITICI POICHE’ IN EUROPA NESSUN FAMILIARE DEI POLITICI NE USUFRUISCE COME AVVIENE INVECE IN ITALIA DOVE CON LA SCUSA DELL’IMMAGINE VENGONO ADDIRITTURA MESSI A CARICO DELLO STATO ANCHE GLI INTERVENTI DI CHIRURGIA ESTETICA, CURE BALNEOTERMALI ED ELIOTERAPIOCHE DEI FAMILIARI DEI NOSTRI POLITICI !!

A GIULIO TREMONTI …e a tutti quelli che la pensano come lui….NON CI PARAGONATE ALLA GERMANIA DOVE NON SI PAGANO LE AUTOSTRADE, I LIBRI DI TESTO PER LE SCUOLE SONO A CARICO DELLO STATO SINO AL 18° ANNO D’ETA’, IL 90 % DEGLI GLI ASILI E  NIDO SONO AZIENDALI E GRATUITI E NON TI CHIEDONO 400/450 EURO COME GLI ASILI STATALI ITALIANI !!

IN FRANCIA LE DONNE POSSONO EVITARE DI ANDARE A LAVORARE PART TIME PER RACIMOLARE QUALCHE SOLDO INDISPENSABILE IN FAMIGLIA E PERCEPISCONO DALLO STATO UN ASSEGNO DI 500,00 EURO AL MESE COME CASALINGHE PIU’ ALTRI BONUS IN BASE AL NUMERO DI FIGLI .

 IN FRANCIA NON PAGANO LE ACCISE SUI CARBURANTI DELLE CAMPAGNE DI NAPOLEONE, NOI LE PAGHIAMO ANCORA PER LA GUERRA D’ABISSINIA !!

 NOI CHIEDIAMO CHE VOI POLITICI LA SMETTIATE DI OFFENDERE LA NOSTRA INTELLIGENZA! IL POPOLO ITALIANO CHIUDE 1 OCCHIO, A VOLTE 2, UN ORECCHIO E PURE L’ALTRO, MA LA CORDA CHE STATE TIRANDO DA TROPPO TEMPO SI STA’ SPEZZANDO. CHI SEMINA VENTO, RACCOGLIE …..TEMPESTA !!!

SE APPROVI, PUBBLICA LO STESSO MESSAGGIO E CHIEDI AD ALTRI DI FARLO!!!

….”Abbiamo imparato a volare nei cieli come uccelli e solcare i mari come pesci, ma non abbiamo ancora imparato la semplice azione di camminare sulla terra come fratelli.” ….M.L.King

 

 
 
 

http://www.teomedia.it/?p=302

Post n°40 pubblicato il 21 Novembre 2011 da tommaso.mt

http://www.teomedia.it/?p=309

 
 
 

L’economia civile di Giuseppe Palmieri

Post n°39 pubblicato il 04 Novembre 2011 da tommaso.mt

La difficile fase congiunturale che stanno attraversando i mercati finanziari di tutto il mondo sono, certamente, la dimostrazione dell’imperfezione del meccanismo economico del mercato. Quello che oggi si avverte in questa pesante fase economica è il senso di vuoto e di smarrimento che pervade l’uomo, i giovani, le famiglie, le imprese stesse, la paura piuttosto che la speranza per il futuro, l’ansia del domani che sta salendo dalle fasce più deboli della popolazione verso il ceto medio, in un’azione di trascinamento verso il basso, lungo sentieri incerti ed impervi. Questo perché l’uomo stesso pone al centro del suo operare soltanto il benessere materiale, come unico obiettivo, in una logica di puro tornaconto personale. “La ricerca esclusiva dell’avere – avrebbe detto Paolo VI nella Populorum Progressio (1967) – diventa così un ostacolo alla crescita dell’essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l’avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale”.

Come uscirne fuori. Occorre umanizzare l’economia e, prima ancora, umanizzare l’uomo stesso, ossia, fargli scoprire la sua dignità perduta, ridando fiducia in se stesso, facendolo uscire fuori dalle sacche dell’individualismo e del relativismo in cui, quest’arido capitalismo, lo ha fatto precipitare. La ricchezza materiale in cui oggi vive, molto spesso, può essere un sintomo di povertà umana e morale, lasciando spazio al proprio “io”, figlio di quella inclinazione egoistica smithiana, oltre che del marginalismo economico che domina la logica capitalistica odierna, caratterizzata da un eccesso di utilitarismo.

Umanizzare l’economia era l’intento dei padri dell’economia di mercato civile (A. Genovesi, G. Palmieri, C. A. Broggia, L. A. Muratori, P. Verri), di cui oggi tanto si sente parlare, perché ponevano come obiettivo del proprio agire il bene comune, ossia l’uomo non solo nel suo individualismo, ma come parte attiva di un sistema relazionale operante all’interno della sua comunità di riferimento. L’abate Genovesi ha identificato “il fine dell’economia civile, siccome è più di una volta detto, è: I. l’aumentazione del popolo; II. La di lui ricchezza; III. La sua naturale e civile felicità; IV. E con ciò la grandezza, gloria, e felicità del Sovrano”. Umanizzare vuol dire proprio ritornare a mettere al centro l’uomo, o meglio la persona con i suoi valori, la sua specifica identità, la sua dignità, con la sua fragilità terrena e il suo carico di bisogni, secondo l’invito di M. Signore (2010). Lo ricordava G. Palmieri, marchese di Martignano, quando affermava che “il compendio di questa scienza, ed il merito più facile e breve così per apprenderla come per praticarla, risiede nell’amor sociale”, perché “per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello de’ suoi simili”. “Come L. A. Muratori, egli pensò esser lo scopo dell’economia la pubblica felicità, che, tradotta in una semplice legge economica, è l’equilibrio tra i bisogni crescenti e i mezzi disponibili”, sostiene V. Franchini, nel risaltare lo scopo principale del pensiero di Palmieri, dal punto di vista della questione meridionale. Per questo motivo l’aristocratico salentino aveva sempre presente il fine dell’uomo, ossia il raggiungimento del bene comune, nonostante sostenesse che fra tutti gli esseri l’uomo è più utile all’uomo. Non può egli sperare da altri quei beni, che soltanto da’ suoi simili può ottenere. […] Ma di tutti gli esseri il più nocivo all’uomo è l’uomo medesimo”.

Un ruolo determinante devono assumere le istituzioni, quando al governo, secondo il pensiero di A. Genovesi, vi deve sedere “il Filosofo, ed il Filosofo Politico, e innamorato delle vere cagioni della pubblica opulenza, e prosperità, che sono le Virtù, e l’Arti”. Difatti, M. Palmieri, scrittore toscano del XV secolo, riteneva che “quinci è difficile agli uomini il bene governare; quinci viene che rarissimi sono gli ottimi governatori delle repubbliche, perché, inclinati al bene proprio, difficile è dimenticare sé per conservare gli altri”. Sono ancora attuali gli insegnamenti dei padri del pensiero economico civile, i cui ideali di riferimento erano la libertà, la democrazia, la giustizia sociale, quei beni primari di cui oggi l’uomo abbisogna e di cui occorre farsi carico per una loro più equa distribuzione, come più volte ha ribadito il Premio Nobel per l’Economia, A. K. Sen.

Un ruolo importante lo deve assumere persino la Chiesa, non soltanto attraverso gli insegnamenti contenuti nelle numerose Lettere Encicliche, fra le quali meritano essere menzionate oltre la Populorum Progressio di Paolo VI, Centesimun Annus di Giovanni Paolo II, e Caritas in Veritate di Benedetto XVI, documenti e richiami vari alla morale dell’uomo, ma soprattutto attraverso l’attività sociale dei suoi ministri. È un invito  rivolto prima di tutto alla Chiesa terrena, poi a tutte le istituzioni civili perché diventino soggetti umanizzati per divenire poi soggetti umanizzanti, affinché la loro attività si diriga verso un nuovo Umanesimo, verso la riconquista della dignità umana, seguendo il pensiero che fu dell’economia civile, ispirato dagli insegnamenti del Cristianesimo. Occorre arricchire il capitalismo dandogli nuova linfa, conferendogli una nuova dimensione, quella umana ispirata dal sentimento dell’altruismo e della solidarietà, dotandolo dello spirito cristiano, secondo il pensiero di E. Berselli e gli studi di S. Zamagni, per elevare l’economia a scienza morale, filosofica e antropologica per la felicità dell’uomo, non solo materiale, così come la immaginava e auspicava Giuseppe Palmieri.

Tommaso Manzillo

Bibliografia citata e consultata

-           Benedictus PP. XVI, Caritas in Veritate, Lettera Enciclica del 29 giugno 2009;

-           Berselli E., L’economia giusta, Giulio Einaudi spa, Torino, 2010;

-           Broggia C.A., Trattato de’ Tributi, delle Monete e del governo della sanità – Opera di Stato, di Commercio, di polizia, e di finanza, Napoli, 1743;

-           Dahrendorf R., Per un nuovo liberalismo, Sagittari Laterza, Bari, 1988;

-           Fabbri E., Immaginazione, religione e politica di Thomas Hobbes, Università di Urbino, Istituto di Filosofia “Arturo Massolo”, 2006;

-           Franchini V., Giuseppe Palmieri e il pensiero economico meridionale;

-           Genovesi A., Lezioni di commercio o sia d’economia civile, 1769;

-           Ioannes Paulus PP. II, Centesimus Annus, Lettera Enciclica del 1 maggio 1991;

-           Heilbroner R. L., Natura e logica del capitalismo, Jaca Book spa, Milano, 2001;

-           Merli A., Necrologio prematuro del capitalismo, in “Lezioni per il futuro”, Il Sole 24 Ore, Milano, 2009;

-           Mingione E., Gli itinerari della sociologia economica in una prospettiva europea, in Laville e Mingione (a cura di), La nuova sociologia economica. Prospettive Europee, Numero di Sociologia del Lavoro, N. 73, 1999;

-           Muratori L. A., Della pubblica felicità. Trattato economico politico, Zatta A. editore, Venezia, 1789;

-           Palmieri G., Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XXXVII, Milano, 1805;

-           Palmieri G., Osservazioni sulle tariffe con applicazione al Regno di Napoli, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XXXVIII, Milano, 1805;

-           Palmieri G., Della ricchezza nazionale, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XXXVIII, Milano, 1805;

-           Palmieri M., Dell’ottimo cittadino. Massime. Tolte dal Trattato della vita civile, Venezia, 1829;

-           Paolo PP. VI, Populorum Progressio, Lettera Enciclica del 26 marzo 1967;

-           Pavesi E., Thomas Hobbes, teorico dell’assolutismo, in Cultura & Identità – Anno II, n. 8 novembre-dicembre 2010;

-           Roncaglia-Sylos Labini, Il pensiero economico. Temi e protagonisti, Edizioni Laterza, Bari, 2002;

-           Sen A. K., La diseguaglianza, Il Mulino, 2000;

-           Sen A. K., La libertà individuale come impegno sociale, Laterza, Bari, 2003;

-           Signore M., Economia del bisogno ed etica del desiderio, Pensamultimedia, Lecce, 2010;

-           Smith A., La ricchezza delle nazioni, Collana “I classici del pensiero economico”, Il Sole 24 Ore, Giulio Einaudi, Torino, 2010;

-           Tredget D., I benedettini negli affari e gli affari come vocazione: l’evoluzione di un quadro etico per la nuova economia, Introduzione di G. Vigorelli, Quaderno n. 14, Ciclo di Conferenze e seminari “L’uomo e il denaro”, Milano, 9 ottobre 2006;

-           Verri P., Meditazioni sulla pubblica felicità, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XV, Milano, 1804;

-           Zamagni S., L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo, working paper nr. 49, Corso di Laurea in Economia delle Imprese Cooperative e delle organizzazioni non profit, Università di Bologna, febbraio 2008.

 

 
 
 

UN RITORNO ALL’ECONOMIA DI MERCATO CIVILE: IL PERSEGUIMENTO DEL BENE COMUNE (3)

Post n°38 pubblicato il 02 Settembre 2011 da tommaso.mt

In conclusione, secondo il pensiero di S. Zamagni, il processo di accumulazione della ricchezza non è soltanto utile per far fronte alle esigenze future, come per esempio il periodo attuale caratterizzato dalla mancanza di una spinta economica da parte dei governi, per mancanza di risorse e per la presenza dei debiti di bilancio. Diventa essenziale, tale processo di accumulazione di ricchezza, inteso come atto doveroso di “responsabilità nei confronti delle generazioni future”: una parte del reddito deve essere destinata agli investimenti produttivi, che allargano la base produttiva, deve diventare modus operandi non solo delle economie private, ma anche di quelle pubbliche, secondo l’impostazione liberale dei devitiani, che dimostrarono come l’economia pubblica si muova con gli stessi strumenti in uso nell’economia privata: qui è l’originalità della Public Choice del premio Nobel Buchanan, riprendendo i principi di economia finanziaria che furono di Antonio De Viti De Marco. Allora si fa strada, tra i sempre più diffusi fallimenti del mercato e l’inefficienza dello Stato nell’appagamento dei bisogni, la terza via, ossia il terzo settore, con il suo forte attaccamento ai veri valori cristiani, fondamenta del bene comune, con i quali tante organizzazioni sociali, non governative, senza scopo di lucro quotidianamente operano sul mercato, nella società provata dalle ingiustizie sociali ed economiche, offrendo diversi beni e servizi che gli altri due settori non sono in grado di fornire, perché incapaci di penetrare nelle varie fasce sociali in cui è divisa la popolazione, a causa delle loro ferma attenzione verso la “privata felicità”. In questo, riveste una determinata importanza il pensiero di E. Berselli e di S. Zamagni, quando invocano un ritorno ai valori fondanti il cristianesimo, come l’amore per il sociale e per il bene comune, richiamati dal senso di solidarietà a livello nazionale ed internazionale, diffusi dalla Chiesa nell’opera pastorale dei suoi pastori, perché “si dimostra come uno dei principi basilari della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e politica. Per questo motivo è importante la ridefinizione della scala delle priorità nell’economia sociale, dando ampio spazio alla crescita umana inserita nel contesto di una situazione economica programmata per lo sviluppo collettivo, che sia durevole e sostenibile. Lo esortava, tra gli altri, il nostro G. Palmieri di Martignano, che contribuì pure lui, anticipando i tempi, ad innalzare l’Albero della libertà, “mostrando che la ricca linfa che sale dalla radice non si è esaurita col passare degli anni, ma è anzi diventata più feconda” (corsivo ripreso dalla Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, riferendosi alla Rereum Novarum di Leone XIII), per ritrovare la crescita economica lungo la strada della riscoperta della “pubblica felicità”.

Tommaso Manzillo

tommaso.mt@hotmail.it

 Bibliografia citata e consultata:

-          Aterini L., La scelta tra la minimizzazione della sofferenza e la massimizzazione del piacere, in www.greenreport.it, 11 agosto 2011;

-          Benedetto PP. XVI, Caritas in Veritate, Lettera Enciclica del 29 giugno 2009;

-          Berselli E., L’economia giusta, Giulio Einaudi spa, Torino, 2010;

-          Broggia C.A., Trattato de’ Tributi, delle Monete e del governo della sanità – Opera di Stato, di Commercio, di polizia, e di finanza, Napoli, 1743;

-          De Viti De Marco A., Mezzogiorno e democrazia liberale. Antologia degli scritti, a cura di A.L. Denitto, Palomar, Bari, 2008;

-          De Viti De Marco A., Una storia degna di memoria, a cura di M. Mosca, Mondadori, 2011;

-          Genovesi A., Lezioni di commercio o sia d’economia civile, 1769;

-          Giovanni Paolo PP. II, Centesimus Annus, Lettera Enciclica del 1 maggio 1991;

-          Griffo M., Profilo di Giustino Fortunato. La vita e il pensiero politico, Centro Editoriale Toscano, 2000;

-          Luzzatti T. (2005), “Leggere Karl William Kapp (1910-1976) per una visione unitaria di economia, società e ambiente”. Discussion Papers del Dipartimento di Scienze Economiche – Università di Pisa, n. 56;

-          Manzillo T., Il marchese di Martignano, da “il Titano”, supplemento economico de “il Galatino”, nr. 12   del 24 giugno 2011;

-          Manzillo T., Economia del bisogno ed etica del desiderio, in “il Galatino”, nr. 3 del 12 febbraio 2010;

-          Manzillo T., L’economia a lezione di etica, in “il Galatino”, nr. 20 dell’11 dicembre 2009;

-          Manzillo T., Antonio De Viti De Marco, il conservatore liberale, in “il Galatino”, nr. 18 del 12 novembre 2010;

-          Menger K., Principi di economia politica, Collana “I classici del pensiero economico”, Il Sole 24 Ore, Giulio Einaudi, Torino, 2010;

-          Palmieri G., Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XXXVII, Milano, 1805;

-          Palmieri G., Osservazioni sulle tariffe con applicazione al Regno di Napoli, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XXXVIII, Milano, 1805;

-          Palmieri G., Della ricchezza nazionale, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XXXVIII, Milano, 1805;

-          Palmieri M., Dell’ottimo cittadino. Massime. Tolte dal Trattato della vita civile, Venezia, 1829;

-          Paolo PP. VI, Populorum Progressio, Lettera Enciclica del 26 marzo 1967;

-          Salvemini G., Che cosa è un “liberale” italiano nel 1946, SCRITTI SUL FASCISMO III, a cura di Roberto Vivarelli,  Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1974, pp.353-386;

-          Scognamiglio Pasini C., Camillo Cavour statista liberale. Un ricordo. Relazione svolta in occasione della celebrazione della ricorrenza del 150° della prima riunione del Parlamento italiano. Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio, Sala della Lupa, Roma 18 febbraio 2011;

-          Sen A. K., La diseguaglianza, Il Mulino, 2000;

-          Signore M., Economia del bisogno ed etica del desiderio, Pensamultimedia, Lecce, 2010;

-          Smith A., La ricchezza delle nazioni, Collana “I classici del pensiero economico”, Il Sole 24 Ore, Giulio Einaudi, Torino, 2010;

-          Verri P., Meditazioni sulla pubblica felicità, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte moderna, Tomo XV, Milano, 1804;

-          Zamagni S., L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo, working paper nr. 49, Corso di Laurea in Economia delle Imprese Cooperative e delle organizzazioni non profit, Università di Bologna, febbraio 2008.

 

 
 
 

UN RITORNO ALL’ECONOMIA DI MERCATO CIVILE: IL PERSEGUIMENTO DEL BENE COMUNE (2)

Post n°37 pubblicato il 02 Settembre 2011 da tommaso.mt

Come G. Fortunato, anche l’aristocratico salentino de Viti de Marco diede un importante spinta alla diffusione del pensiero liberale e liberista. De Viti subì inizialmente l’influsso del pensiero economico germanico, ossia quello dominante nel periodo noto come ‘socialismo di cattedra’, in cui l’elemento prevalente era la politica della Nazione. In Germania, un importante esponente di questo pensiero fu il padre del filosofo Weber, Max, sostenitore della politica di Bismarck, creando una profonda distanza politica e culturale con il figlio Max. Ma durante gli anni degli studi universitari, de Viti ne prese le distanze, affascinato dal pensiero liberale anglosassone (agevolato soprattutto dalle origini familiari), che difendeva l’individuo, contro quello germanico, che era dalla parte dello Stato contro l’individuo. Lo stesso G. Salvemini in un suo scritto afferma che “nell'Italia unificata i “liberali-moderati" furono “conservatori" delle istituzioni monarchico-costituzionali e della unità nazionale. Il loro ideale era una monarchia secondo il modello prussiano. In essa dovevano predominare le classi superiori coll'aiuto di un solido esercito e di una disciplinata burocrazia”. De Viti voleva sovvertire l’ordine delle cose.

Oltre all’influsso delle origini familiari, figlio dell’aristocrazia che riteneva fosse compito loro quello di guidare la vita politica, vi sono anche gli studi giovanili di de Viti, riguardo il marginalismo, a coltivare in lui quella posizione liberale che assunse fino alla fine e fino alla rinuncia alla cattedra romana, pur di non prestare giuramento al regime fascista. Studi incentrati sul marginalismo basato sugli insegnamenti di Stanley Jevon, che andavano nella direzione della libera concorrenza contro ogni forma di monopolio: e qui si vede come il liberismo di de Viti si allontana dalla concezione del socialismo di cattedra in voga in quegli anni. Nella concezione del pensiero liberale di de Viti, che anche noi sosteniamo, il compito dello Stato è quella di definire le regole in difesa della libera e leale concorrenza, contro il monopolio. Difatti, la politica di de Viti piuttosto che antistatalista, combatte i poteri economici che sfruttano il potere politico dello Stato, creando inefficienze e sperequazione diffusa. “In America è "liberale" chiunque non è conservatore. Anche a un comunista può accadere di essere chiamato e di chiamarsi "liberale", avrebbe ancora detto G. Salvemini, quasi a volere sostenere l’impostazione anglosassone del marchese di Casamassella. Le intenzioni andavano nella direzione di creare una democrazia, e quindi anche un mercato, basati sulla libera e leale concorrenza (a cui Paolo VI aggiungeva le parole “giusto e morale, e dunque umano”) in difesa anche delle classi meno fortunate, contro ogni forma di dittatura che sfrutta il monopolio per salvaguardare i pochi poteri forti di tipo economico. La sintesi della nuova impostazione liberale, che diedero questi illustri pensatori, è riassunta dal pensiero di De Viti De Marco, ad opera di Manuela Mosca: “assicurare alla società una crescita che non umili i ceti più bassi, che devono essere naturalmente sostenuti, però in modo che questo sostegno  ai ceti meno fortunati non sia a svantaggio, a danno di quelli che vogliono emergere”. La concezione dello Stato secondo la Chiesa, nelle parole di Giovanni Paolo II, nella rilettura della Rerum Novarum, “non può limitarsi a «provvedere ad una parte dei cittadini», cioè a quella ricca e prospera, e non può «trascurare l'altra», che rappresenta indubbiamente la grande maggioranza del corpo sociale; altrimenti si offende la giustizia, che vuole si renda a ciascuno il suoCentesimus Annus, 1991). Volendo con ciò ribadire che, davanti a difficili situazioni umane e sociali, una funzione importante deve assumere lo Stato, che non può e non deve rimanere sordo alle tante richieste avanzate dalle sue membra bisognose e tradite dall’economia di mercato capitalistica, della massimizzazione del profitto a tutti i costi, nelle logiche del breve ed immediato periodo, le quali istanze sociali non rappresentano, però, quell’interesse personale che il governante di oggi va in cerca, per propri tornaconti elettorali.

Nella logica del raggiungimento del bene comune, riprendendo le ultime parole di de Viti de Marco, obiettivo che fu dell’economia di mercato civile, snodo cruciale diventa la riduzione delle diseguaglianze sociali, economiche, politiche, civili, perché il progresso possa raggiungere ogni fascia della popolazione e non restare a vantaggio dei soliti pochi privilegiati. In questo senso, vi è un interessante lavoro del premio Nobel per l’Economia nel 1998, Amartya K. Sen, dal titolo La diseguaglianza (2000), in cui l’economista va all’affannosa ricerca di una risposta alla domanda “diseguaglianza di che cosa?”. In particolare, nelle sue meditazioni mette subito in evidenza come il tema della diseguaglianza affonda le sue radici nella sostanziale differenza interpersonale, basata sul sesso, sull’età, sulle capacità fisiche, sul carattere e le sue determinazioni psicologiche e altro ancora. In questo, una equa distribuzione del reddito, ispirata da politiche tese a ridurre e a combattere la forte differenza nel tessuto sociale, potrebbe portare a profonde diseguaglianze dovute alle diversità personali, al diverso approccio e nella diversa capacità dell’individuo di trasformare le risorse e i mezzi a disposizione in appagamento dei bisogni, soprattutto per il differente livello di libertà di cui ogni uomo può godere. Diviene, a questo punto, riduttivo pensare alla diseguaglianza, e quindi anche alla povertà, soltanto in termini di reddito e di reddito minimo di sussistenza, quando è presente una molteplicità di fattori che possono influenzare la diseguaglianza. Paolo VI parlava dello “scandalo di disuguaglianze clamorose, non solo nel godimento dei beni, ma più ancora nell'esercizio del potere”. Con l’affacciarsi dell’attuale pesante congiuntura economica, le diseguaglianze stanno divenendo sempre più croniche e sanabili con molta difficoltà, come è stato riconosciuto da Benedetto XVI nella Sua Lettera Enciclica Caritas in Veritate (2009), denunciando l’”erosione del <>, ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile”. Il lassismo da parte delle pubbliche istituzioni abilitate al controllo dei sistemi economici, a cui abbiamo assistito prima della crisi del 2008, sono state le principali artefici del degrado sociale in cui oggi versa l’uomo, vittima del suo stesso operare affannoso, alla ricerca del facile guadagno nell’ottica del breve periodo, piuttosto che mirare alle prospettive future: colpevole di miopia e causa dei suoi stessi mali. E. Berselli afferma che “la grande recessione non è semplicemente una questione tecnica e di regole, né soltanto di autorità deficitarie nel controllo, bensì è un problema anche questo <> di distribuzione fallimentare della ricchezza a vantaggio dei ricchi e a sfavore dei poveri” (2010). Il tema della diseguaglianza è stata affrontata agli albori dell’era industriale nell’Europa continentale, da Leone XIII e ripresa da Giovanni Paolo II in Centesimus Annus, nell’anniversario della stessa Enciclica leoniana Rerum Novarum, allarmando sulla grave situazione di dissesto sociale provocata da un capitalismo eccessivamente spinto e senza regole, ma ancora nella sua fase embrionale, che oggi si manifesta quotidianamente nella speculazione di borsa, dimostrando con quanta facilità si può comprare e vendere denaro, anche allo scoperto, provocando catastrofi sociali e umani inimmaginabili, di cui lo stesso uomo è il reo colpevole.

Per cercare tirare le fila del discorso e tessere una linea difensiva nella direzione della visione liberale dell’economia, i Governi degli Stati devono ispirarsi ai principi dei nostri padri, tornando ad occuparsi degli interessi collettivi, in una economia in cui i deficit eccessivi assorbono le risorse pubbliche, sottraendole dal mondo produttivo. Come osserva S. Zamagni, occorre riprendere nelle proprie mani l’idea del benessere comune, ritornare a quella che era l’economia liberale di ispirazione civile, di Genovesi, Verri, Palmieri, Broggia, e altri. Le politiche economiche di questi ultimi anni sono state, invece, lontane dalle logiche liberali, quando hanno imposto eccessive tasse senza crescita, dimostrandosi sorde davanti alle istanze di libertà e attente nell’ascolto del grido di aiuto che veniva dai pochi poteri forti del mondo capitalista. Oltre al pareggio di bilancio, compito dei governi è anche quello di stimolare la crescita economica e il benessere collettivo, attingendo dalle risorse di bilancio, che ogni buon padre di famiglia dovrebbe aver creato nei periodi floridi, per far fronte alle necessità improvvise, a quegli avvenimenti che non ti danno il preavviso. Era ed è sostanzialmente il pensiero economico che maturò e portò avanti nella sua battaglia liberale G. Fortunato, con lo sguardo sempre rivolto alla questione meridionale. Sul tema, lo stesso storico polemizzava che il denaro presente nelle ricche casse del Regno di Napoli, al momento dell’Unità italiana, era il segno evidente che la moneta non circolava abbastanza all’interno dello Stato, e l’economia ristagnava, in quanto gli investimenti erano piuttosto assenti nella politica borbonica dell’ultimo periodo. Risparmiare per investire: questa la ricetta proposta.

In merito alla eccessiva turbolenza dei mercati, provocata dai deficit eccessivi dei Paese più industrializzati, dovrebbe aver imparato a tutti una lezione importante, da riportare, in futuro, sui testi scolastici di economia, ossia che la politica del debito eccessivo alla fine non paga. O meglio, impostare le proprie scelte economiche su di un orizzonte temporale di breve periodo è sintomo di ignoranza, avrebbero detto Genovesi e gli altri, perché manca quella visione del futuro, ingrediente degli esseri savi. Messi alle strette, o si risana il bilancio o si rilancia la crescita, ma la seconda ha come base di appoggio importante il perseguimento del primo obiettivo. Si possono fare entrambe le cose, e pure bene. Tagliare la spesa superflua, i privilegi di pochi, che nel corso del tempo i fantomatici governi liberali hanno accumulato, e premiare quell’imprenditore, giovane e talentuoso, studioso, pieno di iniziativa, che reinveste il proprio guadagno generando produzione, lavoro e ricchezza, invece che assicurarsi rendite di posizione. In questo modo si generano a sua volta nuove entrate per le casse dello Stato, innescando un circolo virtuoso, sulla strada dell’equa distribuzione delle ricchezze. “La prima molla motrice dell’Arti, dell’opulenza, della felicità di ogni nazione, è il buon costume, e la virtù” (A. Genovesi). Le politiche dei governi rimarranno sempre all’ombra del futuro, prive di slancio e ricche di impedimenti e di interessi collusivi, fintantoché la loro funzione non sia orientata verso la riduzione delle diseguaglianze, combattendo le discriminazioni, per “liberare l’uomo dalle sue schiavitù”, rendendolo “capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del suo destino spirituale” (Paolo VI, 1967).

Tommaso Manzillo

 
 
 
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