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Venticinque dischi per il 2011 (9)

Post n°190 pubblicato il 28 Gennaio 2012 da syd_curtis
 

 

 

 

8.

Matana Roberts
Coin Coin, Chapter One: Gens de couleur libres.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paura del (free) jazz? Date un orecchio a Matana Roberts, sassofonista da Chicago, e vi passerà. Cominciate dalla seconda traccia, Pov Piti. Dalle urla strazi/lancin-anti dell'intro sino ai ricami del sax tenore di Matana, dalle bacchette delicate sui piatti allo spoken-word dell'autrice, dal contrabbasso indolente fino al violino che chiude la traccia. Sette minuti, sette minuti per liberarsi dalla paura. Poi riavvolgete il nastro e ripartite da Rise, ancora il sax di Matana in primissimo piano, lasciatevi portare dalla deriva di un album che è un patchwork di stili, dall'improvvisazione violenta alla cacofonia di certi frammenti, dallo swing all'inaspettato dixieland da orchestrina di Kersalia, dal gospel/blues di Libation for Mister Brown alla ballata di Lulla/Bye, giù giù sino al valzerino finale di How much would you cost?.
Coin Coin è il primo capitolo di un progetto, in dodici puntate, che ha come centro il racconto di un tratto di storia della comunità afro-americana, a partire dal commercio degli schiavi del diciassettesimo secolo. Figura centrale di questo primo capitolo è Marie Therese Metoyer, una figura semi leggendaria di schiava emancipata, che agevolò la creazione di una comunità Creola in Louisiana, nel diciannovesimo secolo.
Un album che sta stretto in una classifichina come questa, orientata verso il pop rock. Un album che è una boccata d'aria fresca. Non facile, nessuna strizzata d'occhio all'ascoltatore, ha bisogno della vostra giusta disposizione d'animo per la decodifica, ma regala emozioni e gioia. E' stato registrato dal vivo, il 9 Luglio 2010, e esce per l'etichetta Constellation, la stessa di gente di valore come i Godspeed You! Black Emperor e gli Silver Mt. Zion (con i quali Matana ha collaborato nel passato), etichetta che come al solito non sbaglia un colpo: è necessario ricordare che il povero Vic Chesnutt pubblicò per Constellation quello che resta il suo album migliore, North Star Deserter? Date una possibilità a Matana, non ne resterete delusi.


Il video

 

9.

James Blake
James Blake

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

James Blake ha probabilmente scoperto l'acqua calda. Aggiunge a una base acustica una maschera elettro-dub che rallenta, rielabora e deforma. Vien da dire: pensa che novità, cose del genere le progettava già la chillwave, e il riferimento (consapevole) a artisti come gli XX e/o i Burial è evidente. Tuttavia, Blake lavora con sobrietà, gusto e sensibilità tali da sfornare un prodotto freschissimo, innovativo e coinvolgente come pochi altri. E sa toccare le corde giuste, perlomeno del sottoscrivente ascoltatore. La base è un soul scarno/ectoplasmatico, una sorta di matrice emozionale d'antan, con pianoforte in bella evidenza e voce sofferta, spessissimo passata nel vocoder. Il risultato è uno splendore. Un disco che tira dentro di sé un sacco di aria nuova e pulita: l'ascolto regala sensazioni spazio/temporali, come se le canzoni fossero tridimensionali e si ascoltasse nel fondo lo scorrere del tempo, fatto di intervalli vuoti e pieni. Meraviglia del dubstep e giustapposizione di stili, che possono toccare persino il confine jazz. Mettiamoci pure il Bon Iver più rarefatto (i due hanno collaborato, di recente, tra l'altro), vah.
Non cambierà la tua vita, sfaccendato lettore, sapere che brani come Unluck, The Wilhelm Scream,  Limit to your love (cover di un brano di Feist, raro caso in cui una cover è persino meglio dell'originale), o la Measurements che sta in coda all'album (un Sam Cooke pastorale con gli elettrodi alle tempie), mi mettono sottosopra le coratelle a ogni ascolto, certo che no, ma prendilo come un delicato suggerimento: l'ascolto di uno dei brani citati è in grado di svoltarti la giornata. Trust me.
I don’t know about my dreams / All that I know is I’m fallin’, fallin’.



Il video

 
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