MACBETH: Avrebbe dovuto morire più tardi; non sarebbe mancato il momento opportuno per udire una simile parola. Domani, poi domani, poi domani: così, da un giorno all'altro, a piccoli passi, ogni domani striscia via fino all'ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno rischiarato, a degli stolti, la via che conduce alla polvere della morte. Spengiti, spengiti, breve candela! La vita non è che un'ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.
Accidenti, non è morta la regina, è morto il re, forse lo stesso Re nato a Tupelo, in una notte da tregenda, che dite?
Sono due, credo, le possibili reazioni di fronte a un disco come questo dei Decemberists (uscito il 18 Gennaio scorso e per un po' disponibile in streaming sul sito di NPR (ah, avercene, qui da noi, radio così!). La prima reazione, se la giornata è buona come oggi e si è sereni, per quanto concesso, è che sì, The King is dead è un disco imprescindibile, fa battere il piede mentre si aspetta a Cascina Gobba il metrò che ci riporterà a casa, col sole che indora l'orizzonte visibile (ossia, la vetrata della stazione). Se è questa la condizione di spirito, allora la Gibson acustica e gli echi di folk-country-americana fanno solletico piacevole e canzoni come Rise To Me vanno diritte giù come aperitivi. Difficile immaginare qualcosa di più Ammerikano di Rise To Me, ballatona per chitarra acustica, batteria, basso, slide e armonica a bocca. Aggiungiamoci che fa pure addormentare le bambine di un anno e due mesi (lo giuro, con mia figlia funziona), ergo assolve una funzione sociale importantissima, e il gioco è fatto. The King is dead è il vostro disco, con tanto di arco ben fatto, alla faccia dei Turin Brakes.
La seconda reazione, dite? Beh, se invece la giornata è No, viene fatto di rilevare una certa polvere tra le tracce, di alzare il sopracciglio e di eccepire, da bravi cagacazzo, che i Decemberists hanno già dato a inizio secolo le loro prove migliori; tornano _è vero_ alla semplicità degli esordi acustici, però, via, dischi così ne escono a pacchi e tra qualche tempo la voce pur bella di Colin Meloy ce la saremo dimenticata. Viene da chiedersi, sempre più insopportabili, quanto disti Portland da Athens, Georgia: poco, a sentire Calamity Song, che pare davvero cascata da un nastro di prova dei primissimi Rem; ma Cristo!, sono passati quasi trent'anni (la medesima interiezione viene alla bocca quando si legge in Rete, a proposito di questo disco, di rimandi a Young, Dylan e Van Zandt, uff). Quante volte avete sentito l'attacco western di Rox in the box, con minime variazioni e accordi che si rincorrono? Perché tutto questo funzioni, a volte, e a volte no, è la domanda cui bisogna cercare risposta. La polvere, dicevo, e la pigrizia dei musicisti, di questo mi fa malignare una giornata grigia di Febbraio; eggià, perché gli elementi noti ci sono proprio tutti: la Gibson acustica, l'armonica a bocca, il violino ispirato, il duetto voce maschile-voce femminile. Niente di nuovo sotto il sole. Yahown. E' tutta buona musica, intendiamoci, e i musicisti sono di Portland nell'Oregon, con la tradizione nel sangue. Tuttavia un filo di coraggio in più non guasterebbe. Bello, inzomma, ma nient'affatto indispensabile.
Poi, di lì a un tratto, riprende il controllo la voglia di ascoltare musica col vento nei (pochi) capelli e lo sguardo perso sulle vetrate sporche della stazione metrò di Cascina Gobba. Non so risolvere i dubbi, ve li restituisco così come mi son venuti. This is why we fight non vi ricorda dannatamente qualcosa d'altro, un altro pezzo di non so chi, è un refrain canaglia buono a catturare le allodole e i passaggi radiofonici, credo. Però Cristo!, Dear Avery e January Hymn strappano il cuore lo fanno a pezzettini: come conciliare, ora?
Inviato da: Gesu
il 28/07/2022 alle 01:24
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