Creato da LaCuna7 il 14/02/2015

Que sera, sera

Artista, reporter, scrittrice. Non sono nulla di tutto questo. (Quasi) ventitreenne Studentessa di medicina al quarto anno di corso, reduce da una storia d'amore naufragata tra lacrime e stridor di denti. Amante di cinema, libri e buon vino.

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La Sottoscritta

Post n°2 pubblicato il 27 Febbraio 2015 da LaCuna7

 

Se solo si potesse rinascere. Mettere indietro le lancette di questo grande orologio folle della mia vita e dare un senso ai giorni persi, ai treni affollati, agli sconosciuti sugli autobus che ti danno un fazzoletto in mano e un sorriso, mentre sei lì a piangere, carica d’angoscia e di valige che straripano sogni.

È un po’ di tempo che ho smesso di piangere sugli autobus, e ho iniziato a farlo sotto la doccia, ché si sa, siamo così noi donnine cresciute a pane e autoradio impolverate che mandano canzoni un po’ indie, un po’ rock, siamo così, dolcemente complicate. Cubi di Rubick con tube e ovaie.

Ma insomma, se rinasco – e dico se, ti giuro che ti amo meglio. C’era una canzone dei Baustelle che detestavi, si chiamava Il sottoscritto. E  anch’ io, come dice il Bianconi, vorrei vivere altre vite insieme a te.

Perché te ne sei andato troppo presto, e io non ho fatto in tempo a darti il mio meglio, e tu non hai voluto prendertelo. Io ti avevo aspettato pressappoco tutta la vita, e il giorno che t’ ho incontrato l’ ho capito subito che eri tu la mia persona. E forse l’ho capito un po’ meglio, la volta che hai dato un passaggio a quel ragazzo di colore che faceva l’autostop, che l’idea di invecchiare con te solleticava la parte più vera e nascosta di me. E’ vero, a conti fatti ci siamo amati per duemila giorni, ma è sempre poco, per una come me, un’ eterna insoddisfatta ubriaca di illusioni che non riesce a lasciare andare il passato.

Non è la tua assenza che mi fa male, sai,a farmi male è quello che non ci siamo permessi. Non ci siamo dati il tempo di sperimentarci, ci siamo bruciati troppo presto, e un po’ la colpa forse è anche mia, lo ammetto. Di me che credevo che t’ avrei avuto accanto un'altra vita e mezzo, e credevo quindi di avere tutto il tempo del mondo per ripeterti ogni mattina che ti amavo, per svegliarmi accanto a te, per cucinarti sbobbe improponibili e rimandare all’ infinito tutti i viaggi che non abbiamo mai fatto. Vorrà dire che la muraglia cinese andrò a vederla da sola, che vuoi che ti dica.

Ad aprile parto per Malaga con la Murci, l’amica storica di una vita, la dolce metà riccia di questo mio cuore sgangherato, col suo naso grande  e il suo cuore immenso. Ad agosto, poi, forse, mi faccio un InterRail.

Ma tu queste cose non le sai, perché io, sempre come cantano i Baustelle, sto scrivendo lettere a un destinatario andato via prima di averle ricevute. Che è una magra consolazione, ma è pur sempre terapeutico; un modo come un altro di asciugarsi le lacrime e dirsi: avanti.

Ieri parlavo con Marcella, come al solito di te, ed è venuta fuori dalle sue fin troppo sagge labbra una sconcertante e illuminante verità : la prospettiva può sempre cambiare, basta muoversi.

E come si fa, mi veniva da dirle, se t’ e venuto a mancare all’ improvviso quello che era il tuo orizzonte? Hai voglia a dire che la prospettiva cambia- e a muoversi per farla cambiare- , è proprio la messa a fuoco che ti manca.

La verità è che avevi i treni merci che ti passavano per gli occhi, e andavano a rifornire le mie città interiori. La verità è che alterno sapientemente momenti di ira funesta a momenti di lancinanti sensi di colpa per tutte le volte che il mio cuore non ho saputo dartelo, era lì in gabbia nella mia cassa toracica, troppo lontano dalle tue manone da bambino cresciuto in fretta.

Ché si sa, siamo così noi ragazzine che giochiamo a fare le virago, ci basta poco per sentirci grandi e non ci accorgiamo che certe persone dovremmo legarcele a doppio spago alle caviglie prima che fuggano via, prima che il vento le porti altrove. Pensiamo di essere forti e indipendenti , le donne che non devono chiedere mai.  Amazzoni sulla scena, principesse timorose che vogliono solo farsi salvare dal drago bheind the scenes. Ma guai a svelare il segreto.

Fatto sta che il mio castello di carte s’è sgretolato, è svanito, non c’è più, da quando tu te ne sei andato.

Ma che ne potevi sapere tu, che mi tenevi in piedi e tenevi in piedi tutte le mie illusioni, se non te l’ ho mai detto, se non ti ho mai fatto entrare in quel posticino segreto dove tengo l’artiglieria pesante dei sentimenti?

Questa è una delle cose per cui non mi perdono e forse non riuscirò a perdonarmi mai – ma ci sto lavorando.

E insieme a questa, il fatto di non averti mai comprato delle arance quando eri raffreddato, raggomitolato come un gattino nel tuo letto sempre troppo corto. Tu a me le arance le hai comprate, tante volte; ti preoccupavi che non avessi una qualche carenza di vitamine, che nemmeno mia madre nei suoi deliri salutisti è mai arrivata a tanto.

E io ho creduto che l’ amore fosse quello: tu che mi portavi la frutta a casa, tu che me la sbucciavi pure, pur di farmela mangiare, tu che mi hai fatto i bagnoli con gli asciugamani umidi la volta che avevo la febbre alta. Tu che mi hai accompagnata a casa infinite volte dopo le nostre serate passate insieme, incurante di macinare chilometri su chilometri. Tu che troppe volte hai provato ad abbracciarmi mentre io ti scansavo distratta. Che stronza. E’ una scusa da poco, ma che ti devo dire, quelle come me non sempre ce la fanno a prendere le carezze, sono troppo abituate a marciare come soldatini per il mondo, senza fermarsi mai ché se perdi il ritmo è la fine, e guai a distrarsi osservando il paesaggio.

Ecco, alla fine m’è toccato di fermarmi davvero a guardarlo, ‘sto paesaggio, peccato che tu non c’eri già più. E’ una lezione che ho imparato, a furia di sberle che la vita m’ha mollato in piena faccia, a forza di spranghe sui denti. Mi cospargo il capo di cenere e mi tengo su, in qualche modo, camminando distratta per strada, con la testa che deve essermi rimasta sulle tue mensole nere, in via Giampietro Zanotti. Il cuore te l’ho lasciato nel primo cassetto dell’armadio, controlla, sicuro che è ancora lì, vicino ai calzini e ai tuoi boxer neri che usavo come pantaloncini quando dormivo da te.

E quindi niente, non riesco a perdonarmi per non averti dato tutto l’amore del mondo quando ancora ti avevo tra le braccia, pensando che tanto eri la, inamovibile, e ci saresti stato sempre. E io sarei stata sempre in tempo per farlo. Errore.

Però non perdono neanche te, per aver violato il mio mondo privato e poi avermi lasciata lì, stordita, a smaltire e rimettere a posto i cocci.

Sei l’unico al mondo al quale ho mai mostrato e mai mostrerò i dietro le quinte della gigantesca maschera che porto addosso da una vita, e forse è un po’ anche per quello che sei scappato, alla fine. C’ avevo troppa roba dentro, ti capisco se non ce la facevi a contenerla tutta. Io ogni tanto ancora stravaso, figurati.

Eppure non te lo perdono, capisci, non posso proprio perdonartelo il modo con cui mi hai denudata delle mie corazze per poi lasciarmi lì nuda a prender freddo e pioggia. Mi torna in mente Verlaine, mentre scrivo queste parole, e il suo verso che diceva il pleut dans mon coeur. Ecco, io lo capisco, ‘sto poraccio, lo capisco eccome, ché pure a me so’ un po’ di mesi che mi piove dentro.

Io non lo so cos’è l’amore; ancora non l’ho capito. So che per un po’ di tempo ho creduto che avesse il tuo naso e i tuoi occhi, e che avesse a che fare col guardare the Walking Dead insieme e mangiare pizza su di un letto sfatto dalle lenzuola blu. So per certo che la parte difficile non è trovarsi, col cavolo; ma tenersi.

Tenersi per tutto quello che l’altra persona significa per te, e nonostante tutto. Per il mare, per le onde, per le pizze e le risate.  A volte mi capita di pensare che forse davvero ci siamo conosciuti troppo presto, che ne so. E che forse l’amore non dovrebbe fare rima con la fatica, non dovrebbe diventare un dovere, mai. Ero diventata faticosa ultimamente, lo so, e ancora me lo chiedo perché c’avessi l’anima in fiamme un giorno sì e l’altro pure, e ancora non l’ho capito io, figurati che potevi capirne tu.

Eppure, eppure. Una promessa è una promessa, ricordi?

Mettiamola così: forse la verità vera – anche se è una verità brutta e cattiva, ma si sa, la verità quasi mai è vestita di seta- è che non hai creduto in me quel tanto che bastasse da sapere che il brutto momento sarebbe passato e che sarei tornata, per me e per te, quella che ero.

Però, ti dirò, a me piace di più pensare che forse, invece, tu hai creduto in me – andandotene- molto di più di quanto non facessi io. E adesso, sai, mi sa che tocca proprio di dimostrartelo, che hai fatto bene.

(Però pensaci, ogni tanto, mentre bevi il caffè la mattina in quella casa dai muri ingialliti, pensaci a quanto sarebbe bello se si potesse rinascere ancora una volta, e fare l’orlo ai sorrisi che non abbiamo fatto in tempo a darci.)

 

 

 
 
 
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