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Marco Mancasolla THE LAST LOVE PARADE
Post n°232 pubblicato il 19 Settembre 2006 da VanillaDreams
un libro per chi ama la storia e cultura della musica elettronica... ‘Last Love Parade. Storia della cultura dance, della musica elettronica e dei miei anni’ è il terzo libro di Marco Mancassola, uscito nell’aprile 2005 per Mondadori-Strade Blu (nuova edizione tascabile Oscar Mondadori, giugno 2006 - pp. 234, euro 8,40). [ESTRATTI] (anni 70) Vogliono ballare. Gli uomini gay, gli uomini straight. Le donne vogliono ballare, e una musica meno maschilista del rock. Il corpo vuole ballare, e sfiorare altri corpi, e una sensualità di massa esplode nel mondo, come una sorta di geiser. Come un getto dal corpo, con un grido di sollievo… La gente vuole essere come i divi del cinema. Vuole avere mosse leggere. Vuole stare sotto liquide luci, volteggiare tra nuvole di fumo artificiale. La gente sa che vivere questa magia significa stravolgerla, consumarla, e allora tutto assume un sapore già nostalgico, ancora più struggente. Si balla l’hustle, una facile evoluzione dei balli latini nata nel ghetto, resa popolare dal singolo ‘The Hustle’ nel ’75. La musica non smette di accelerare. I titoli delle hit hanno qualcosa di tirannico: Dance Dance Dance. You should be dancing. Keep on jumpin’. Get dancin’. Moving like a superstar… Gli uomini indossano camicie di poliestere. Le donne vestiti fantasiosi, spesso fatti in casa. Sui capelli brillantini, ai piedi scarpe con zeppe. Un look vistoso e romantico. La classe lavoratrice ha trovato il suo rito estetico. Un rito di esaltazione, catarsi settimanale, produzione di miti, una nuova categoria emotiva: il sabato sera. La cultura dance è nata. Oh, è difficile definire l’intreccio: libertà da impiegare, nuovi ruoli economici, consapevolezza del corpo, nostalgia indefinita, istanze edoniste… Il divertimento come conquista sociale. La terra promessa in cui sembra allargarsi, e forse concludersi, il sentiero dei progressi politici e sociali. L’‘ideologia del party’ si è messa al lavoro (ancora ingenua, ancora embrionale: troverà compimento negli anni 80 e 90). Come scrisse un frequentatore del famoso Ice Palace: ‘E credevo, in quel momento, che noi ci stessimo divertendo più di chiunque altro nella storia della civiltà.’ Dunque è davvero questo? Il frutto più maturo della storia? Secoli di umanità per arrivare a una generazione capace di vivere una dimensione democratica, universale del piacere? (2001) Qualche mese dopo aver saputo che Leo era ufficialmente scomparso, andai al party di una piccola etichetta in uno studio di Hackney. Era una cosa tranquilla, quasi snob. Il tipo di party per gente che ha avuto troppi party, e ora ascolta elettronica post-dance con aria consapevole, e parla di meditazione buddista bevendo drink alla spirulina, dopo aver compiuto intorno ai trent’anni quel tipico passaggio. Da drug-addicted a health-addicted. A fine serata misero un classico. Lo riconobbi subito. Si era sentito molto nell’89, sebbene prodotto qualche anno prima: storicamente un pezzo pre-dance, composto agli inizi della house, ed era un modo indovinato, perfettamente complementare di chiudere la serata. Il mistero dei grandi pezzi: come poteva qualcuno aver composto un brano così forte quasi vent’anni prima? Si diceva che quando Jamie Principle aveva realizzato la prima versione e iniziato a farla sentire, a Chicago, nessuno credesse che era sua. Pochi pezzi hanno compiuto un’unione tanto intensa tra melodia evocativa e tempesta acido-elettronica, a partire dal titolo, Your Love, e quella strofa iper-romantica: but I need your love, I need your love. Quando qualcuno in pista iniziò ad abbracciarsi, sembrò naturale. In quel party così sofisticato, post-dance, post-rave, post-house, post-techno, post-qualsiasi-tipo-di-cosa, la nostalgia aveva avvolto la sala. Tutti rimasero a dondolare, come si fosse trattato di un lento, mentre la voce del vocalist toccava nel petto di ognuno, con l’abilità di una sonda profonda, quel punto esatto in cui si concentrano intensità e senso di mancanza. Guardai la dj. Una donna interessante, con l’aria di avere la mia età, i lineamenti induriti dai capelli rasati. Provai ad avvicinarmi. Non mi aspettavo nulla. Volevo soltanto incrociare il suo sguardo, per il gusto di esistere agli occhi di chi aveva messo quel pezzo, e finì che più tardi, dopo il party, restammo a parlare qualche minuto, fuori, accanto alla sua macchina. Parlammo dell’anno in cui andava quel vecchio pezzo, di cose successe negli anni 90, di posti visti e altri sognati. Mi ringraziò di averle portato la cassa dei dischi. Voleva essere a casa prima che si svegliasse suo figlio: mise in moto e partì. E mentre camminavo verso casa. Mentre il giorno sbiancava l’aria, simile al riverbero di un’esplosione lontana. Mentre una parte della mia mente eseguiva complicati calcoli sul numero di minuti che potevo dormire, prima di rimettermi al lavoro… Mi sentivo incompleto. Avrei voluto tornare indietro, e che lei tornasse indietro. L’idea di non aver detto abbastanza bruciava nello stomaco, e quella specie di sistema immunitario che nella mia vita, come in quella di tutti, neutralizza il continuo insorgere dei rimpianti, a quell’ora era fuori uso. Nei miei discorsi era mancato qualcosa. Avevo parlato di certi temi senza parlare di colui al quale li legavo. Mi ero fermato in ogni frase prima di nominarlo, avevo aggirato il suo nome come si aggira un terreno: perché non si vuole entrarci, o non si trova il modo. Quel mattino realizzai che Leo stava diventando un argomento vasto, ingombrante e complesso. Suppongo che ognuno abbia di questi argomenti, per affrontare i quali non esiste modo sufficiente, e ogni mossa è quella sbagliata: parlarne o non parlarne, ricordare o lasciar andare. |
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Inviato da: La_mOny88
il 30/05/2008 alle 15:21
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