2 passi tra le righe

Frasi rubate qua e là... di VILMA REMONDETTO

Creato da Vilma66 il 16/09/2012

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"Hunger Games" di Suzanne Collins

Foto di Vilma66

Non appena l'orologio cittadino batte le due, il sindaco sale sulla pedana e comincia a leggere. E' la stessa storia ogni anno. Racconta di Panem, la nazione risorta dalle ceneri di un luogo di un tempo chiamato Nord America. Elenca i disastri, le siccità, gli uragani, gli incendi, l'avanzare dei mari che inghiottirono buona parte della terra ferma, la lotta brutale per le poche risorse rimaste. Il risultato fu Panem. Una splendente Capitol City attorniata da tredici distretti, che portò pace e prosperità ai suoi cittadini. Poi vennero i Giorni Bui, la rivolta dei distretti contro la capitale. Dodici furono sconfitti, il tredicesimo distrutto. Il Trattato del Tradimento ci diede nuove leggi, per assicurare la pace e per ricordarci ogni anno che i Giorni Bui non dovranno più ripetersi, e ci diede anche gli Hunger Games. Le regole sono semplici. Come punizione per la rivolta, ognuno dei dodici distretti deve fornire due partecipanti, un ragazzo e una ragazza, chiamati tributi. I ventiquattro tributi vengono rinchiusi in un'ampia arena all'aperto che può contenere di tutto, da un torrido deserto a una landa ghiacciata. Per varie settimane i concorrenti devono combattere fino alla morte. L'ultimo tributo ancora in piedi vince. Prendere i ragazzini dai nostri distretti, obbligarli a uccidersi l'un l'altro sotto gli occhi di tutti ... è così che Capitol City ci ricorda che siamo totalmente alla sua mercè. Che avremmo ben poche possibilità di sopravvivere ad un'altra ribellione.                                                                                                                                                                                             Per rendere la cosa ancora più umiliante quanto straziante, Capitol City ci costringe a considerare gli Hunger Games come una festa, un evento sportivo che oppone ogni distretto a tutti gli altri, un reality show come un altro. Una volta tornato a casa l'ultimo tributo sopravvissuto avrà una vita agiata e il suo distretto sarà coperto di premi, soprattutto cibo. Per tutto l'anno Capitol City ostenterà le ricche forniture supplementari assegnate al distretto vincitore, cereali e olio e persino prelibatezze come lo zucchero, mentre il resto di noi combatterà contro la fame.

Poi accade qualcosa di inaspettato, o almeno sono io che non me l'aspetto, perchè penso che il distretto 12 non sia un luogo in cui ci si preoccupa per me, ma qualcosa è cambiato, dopo che mi sono fatta avanti per prendere il posto di Prim, e adesso sembra che io  sia diventata una persona cara. Prima uno, poi l'altro, poi quasi tutti i componenti del pubblico portano le tre dita di mezzo della mano sinistra alle labbra e le tendono verso di me. E' un antico gesto del nostro distretto, un gesto che si usa di rado e si vede qualche volta ai funerali. Significa grazie, significa ammirazione, significa dire addio a una persona a cui vuoi bene.

All'inizio sono impietrita, ma poi scorgo l'immagine di noi due su un grande schermo televisivo e rimango senza parole nel vedere quanto sia straordinario il nostro aspetto. Con quei mantelli ondeggianti, ci lasciamo dietro una scia di fuoco. Cinna aveva ragione riguardo al trucco essenziale: siamo più attraenti ma restiamo decisamente riconoscibili. 

Alzo il mento un pò di più, mi stampo in faccia il sorriso più affascinante che ho e saluto con la mano libera... Quando acquisto sicurezza , lancio qualche bacio alla folla. Gli abitanti di Capitol City stanno impazzendo, ci inondano di fiori, gridano i nostri nomi che si sono presi il disturbo di cercare sul programma. La musica incalzante, le acclamazioni, l'ammirazione mi entrano nel sangue, e non posso soffocare la mia eccitazione. Cinna mi ha dato un grande vantaggio. Nessuno si dimenticherà di me. Nè del mio aspetto, nè del mio nome. Katniss. La ragazza in fiamme.

Vado con la mente a mia madre e a Prim. Devono essere alzate. Mia madre starà preparando la pappetta della colazione. Prim starà mungendo la sua capra  prima di andare a scuola... Cosa hanno detto ieri sera del mio fiammeggiante debutto nel reality? Le ha fatte sperare o ha semplicemente accresciuto il loro terrore quando hanno visto la realtà di ventiquattro tributi che giravano in tondo sapendo che uno solo sarebbe sopravvissuto?

Non è stato il fuoco da campo sfuggito al controllo di un tributo, non è stato un fatto accidentale. Le fiamme che avanzano minacciose verso di me hanno un'altezza innaturale, un'omogeneità che le classifica come prodotto umano, come prodotto degli Strateghi. Oggi è stato tutto troppo tranquillo. Nessuna morte, forse nessun combattimento. Il pubblico di Capitol City si starà annoiando, dirà che questi Hunger Games rasentano la monotonia. E questa è la sola cosa che il reality non può permettersi. Non è difficile capire le motivazioni degli Strateghi. Da una parte c'e il branco dei Favoriti e dall'altra il resto dei tributi, me compresa, probabilmente lontani e sparpagliati da una parte all'altra dell'arena. Questo fuoco serve a farci uscire allo scoperto, ad avvicinarci. Magari non è la trovata più originale che abbia visto, ma è molto, molto efficace.

Da qualche parte, in una stanza fresca e immacolata, uno Stratega siede davanti  a una serie di comandi con le dita sulle levette che tra un secondo potrebbero mettere fine alla mia vita. Serve solo un colpo diretto.

Sorprendentemente simile nell'esecuzione. Un arco teso, una freccia scoccata. Totalmente differente nelle conseguenze. Ho ucciso un ragazzo di cui non so nemmeno il nome. Da qualche parte la sua famiglia lo sta piangendo. I suoi amici esigono il mio sangue. Forse aveva un'innamorata davvero convinta che sarebbe ritornato ... Ma poi penso al corpo immobile di Rue e riesco a scacciare il ragazzo dalla mente.  Almeno per adesso.

Compare un hovercraft che preleva il ragazzo morto. Il sole tramonta dietro l'orizzonte. Cala la notte. Su nel cielo vedo il sigillo e immagino che sia iniziato l'inno.

Nell'arena, quando ho tirato fuori quelle bacche, pensavo solo a mettere nel sacco gli strateghi, non alle conseguenze che le mie azioni avrebbero avuto su quelli di Capitol City. Ma gli Hunger Games sono la loro arma e non è previsto che tu possa farla fallire. Quindi adesso faranno finta di aver sempre avuto tutto sotto controllo. Come se avessero orchestrato loro tutto l'evento, compreso il doppio suicidio. Ma funzionerà solo se sto al loro gioco. 

"Non ce n'è bisogno. Lui ci è già arrivato". A cosa? A capire prima di me che gli Hunger Games non sono ancora finiti e il pericolo che corriamo? Oppure a ... essere follemente innamorato? Non lo so. Non ho neanche cominciato ad analizzare i miei sentimenti per Peeta. E' troppo complicato. C'è quello che ho fatto per il programma, per le telecamere. Che si contrappone a quello che ho fatto per rabbia, quando ero a Capitol City. O a quello che ho fatto pensando a come sarebbe stato giudicato nel distretto 12. O a quello che ho fatto semplicemente perchè era l'unica cosa giusta da fare. E poi c'è quello che ho fatto perchè mi importava di lui. Questi sono punti che andranno chiariti a casa, nella pace e nel silenzio dei boschi, quando nessuno mi starà guardando. Non qui, con gli occhi tutti su di me. Ma non avrò quel lusso per chissà quanto tempo. E adesso la parte più pericolosa degli Hunger Games sta per cominciare.

 
 
 

"Sei come sei" di Melania Mazzucco

Post n°44 pubblicato il 29 Ottobre 2018 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

Ricordati che ti voglio bene, le scrive. E prego per papà tutti i giorni. Eva le risponde con una letterina, allegando la sua fotografia più recente. Ma non le scrive che anche lei le vuole sempre bene, perchè non sarebbe vero. Non si può volere bene stando lontani. Il bene si nutre delle cose di tutti i giorni, della presenza. Però in realtà nemmeno questo è vero.

Eva non pianse, perchè non riusciva a capire esattamente cosa fosse successo a suo padre, e che significa morire. Andarsene. Dove? Si diventa puro spirito? Si comunica coi vivi? I morti vanno in Paradiso o sottoterra? Il Paradiso è un luogo, un'idea, un sogno oppure un imbroglio? Ma tutti fraintesero i suoi occhi asciutti: le dissero che era una bambina coraggiosa, aveva il carattere di suo padre, e lui sarebbe stato orgoglioso di avere cresciuto una figlia così.

Giura che torni a prendermi, disse Eva a suo padre che se ne stava pietrificato sul divano, col manico della valigia rosa di Eva fra le mani. Te lo giuro, aveva detto Giose. Eva gli aveva creduto.

Per molto tempo, Eva aveva pensato che tutto quello che era successo dopo fosse colpa sua. Lo aveva tradito e abbandonato quando aveva bisogno di lei, e per questo non poteva perdonarla.

Ti devo fare un discorso serio, Eva, le aveva spiegato zio Michele, e mi devi ascoltare senza interrompermi. Sei una bambina saggia, e ho fiducia in te. Ti tratto come se fossi grande. So che non ci deluderai. Giose è tuo padre, lo sai tu, lo sappiamo noi, però per la legge italiana non è così. Il giudice ha fatto il decreto? saltò su Eva, e quella parola, sulle labbra di una bambina di otto anni, suonò stonata e atroce.

Scosta la tenda, e lo consola verificare che tutto è rimasto identico, come se il tempo si fosse fermato. Il cielo grigio, l'orizzonte inghiottito dalle nuvole basse, felci di ghiaccio sul vetro, il mondo ridotto a una finestra ritagliata nella neve. Non ha nessuna voglia di partire. Vuole restare in questa casa sul limitare dell'altopiano, al sicuro, con sua figlia - fingendo di non sapere niente, come se la sua presenza qui non fosse legata al gesto sconsiderato del metrò, e il bene non fosse una conseguenza di un male. Come se lei fosse semplicemente tornata a casa.

Se qualche volta in spiaggia, in treno, in metropolitana, il suo sguardo si soffermava inavvertitamente sulla testa riccioluta di un bambino, si voltava dall'altra parte e impediva al pensiero di salire alla coscienza. Per questo non conosceva bambini, e non voleva frequentare neanche i pestiferi nipoti di Christian, il quale da parte sua si estasiava invece a sentirsi chiamare zio e della vita precedente, che aveva ripudiato senza esitare, rimpiangeva la possibilità di diventare padre. Giose aveva interrotto i rapporti con molte sue amiche, dopo che avevano partorito. Non frequentavano nessuna coppia con figli. A quel tempo nessuno dei loro amici gay pensava a generare. Anzi, alcuni erano ostili all'idea: deridevano l'aspirazione alla paternità che serpeggiava nei più giovani - volete essere come tutti gli altri, dicevano, ma abbiamo sofferto secoli per poter essere diversi, siamo stati condannati al remo, mandati in esilio in Siberia e nei campi di concentramento, maledetti e bruciati sul rogo per questo, e non possiamo rinnegare la nostra storia. Giose si diceva d'accordo. Aveva perfino teorizzato la purezza di un amore che non si riproduce. Gli amanti non hanno figli.

La notizia che lei non avesse una madre ma due padri aveva scioccato Loris. Ci si arrovellava, non si capacitava come fosse possibile. Inoltre quella di Eva gli sembrava una mancanza tristissima. Loris adorava sua madre. Al padre, invece, non sapeva mai cosa dire e temeva l'arrivo della domenica, quando pensando di farlo contento  si costringeva a passare il pomeriggio con lui, e si ritrovavano in tribuna dello stadio fra gente forsennata a guardare una partita di cui in realtà a nessuno dei due importava niente. Avere due padri invece che uno solo sembrava a Loris un incubo terribile. Eva aveva finito per confessargli che non sapeva dove fosse il suo secondo padre. E poi si era azzardata e glielo aveva proposto. Se vado a cercarlo, ci verresti con me?

Non le avevano detto nulla dei loro progetti. E quando ritornarono in Italia con Eva lei rimase traumatizzata. Tra tutti i loro amici e conoscenti, fu quella che la prese peggio. Lo considerò, da parte di Christian, l'unico tradimento davvero imperdonabile. Solo dopo tre mesi era venuta a vedere la bambina, e anche se Giose sperava che si fermasse poco, e che si trattasse di una visita formale, di cortesia, in fondo era la figlia del suo ex marito, Aurelia era rimasta quasi due ore, incantata dalle dita minuscole della piccola,dalle orecchie rosee, dalla sua bocca sdentata, dai suoi occhi offuscati. E' troppo bella, Christian, diceva mi sembra un miracolo.

 
 
 

"Quando eravamo eroi" di Silvio Muccino

Post n°43 pubblicato il 29 Ottobre 2018 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

Ecco, io non voglio più aspettare e ho deciso che la prossima volta inizia ora. O meglio, fra tre giorni, quando avrò detto addio alle uniche persone che hanno davvero contato qualcosa negli anni più incoscienti e liberi della mia vita. Eccoli qui, i miei amici. Una vecchia foto che ci ritrae quindici anni più giovane troneggia sul desktop del mio computer, e la sua sfacciata bellezza quasi mi ferisce. E' talmente piena di vita e ostinata a non morire che non mi sorprende che il suo ricordo sia sopravvissuto a questo silenzio forzato durato troppo a lungo, a questo abisso che ho messo tra me e loro e che ormai mi appare incolmabile. Sembra essere saltata fuori di sua spontanea volontà per ghermirmi, sfidarmi, ridere di me e delle mie sicurezze ora che sto per compiere quello che considero l'atto più oltraggioso e spregiudicato della mia vita.

Eravamo cinque alieni. Cinque creature testardamente determinate a sfuggire da qualunque definizione, qualunque categoria, qualunque incasellamento. Eravamo diversi da tutti. troppo strani per essere normali, troppo normali per essere alternativi. Eravamo cinque alieni in cerca di una casa, di un pianeta o di una stella dove non sentirci costantemente inadeguati, diversi e dove essere al sicuro. Non trovandola, la costruimmo noi quella stella.

Ma dal giorno in cui me ne sono andato non ho mai smesso di cercare la strada di casa. Non importa quanto lontano andassi, quanto mi sforzassi  di trovare una mia collocazione nel mondo,  non mi sono mai più sentito me stesso come in mezzo a loro quattro, mai più a casa come su quella stella.

"Cari alieni,

Non so come iniziare questa lettera che arriva con quindici anni di ritardo, se non in un modo: immaginate che questa sia la scena del film in cui il figliuol prodigo torna a csa per comunicare alla sua famiglia che gli resta poco da vivere. Ecco immaginate di essere dentro a questa scena. Voi siete la mia famiglia a cui mi rivolgo e a cui chiedo solo ascolto. Forse non ho il diritto di farlo, dopo il modo in cui sono sparito, ma questa è la scena in cui il cronometro segna un inesorabile conto alla rovescia e ormai non resta più molto tempo.Questa è la scena in cui, dopo tanto rimandare, i nodi vengono finalmente al pettine e a me non resta che chiedervi di starmi a sentire. Sto per tornare in Italia. Il prossimo weekend lo passerò in Umbria che è stata la nostra tana per cinque anni. Dopo di chè verrà messa in vendita e degli anni trascorsi non resterà più traccia. Ecco questa è la scena del film in cui per amore di ciò che è stato vi chiedo di trascorrere questi tre giorni con me per  dirle addio e per ascoltarmi. So di suonare melodrammatico ma queste scene lo sono sempre. Potrete mandarmi a fanculo, perdonarmi, capirmi o odiarmi se volete. Certo potreste anche non venire a questo appuntamento,  ma vi perdereste la scena madre più sensazionale della nostra storia. Scusatemi se non so essere piu chiaro  di così. Forse bastava dire: ho bisogno di voi, miei meravigliosi Alieni. Alex"

Torquemada - Come non mi vergogno di ammettere che per tuttigli anni del liceo sono stato poco più di una comparsa, nella mia vita e in quella dei miei amici. Una comparsa  anche piuttosto antipatica probabilmente, ma non ci posso fare nulla se non sono tenero come Melzi, bello come Rodolfo, o affascinante come Alex, nè una fica spaziale come Eva. Solo una cosa è certa: ero e sono il più intelligente di tutti. Il più brillante. Forse ero troppo avanti per la mia età. Forse lo sono ancora, mia madre me lo ripete ogni giorno. Poco importa. Ho smesso di provare a mimetizzarmi con i miei coetanei. Gli Alieni sono stati le uniche persone che non mi hanno mai chiesto di essere qualcosa di diverso da ciò che sono. La mia più grande scivolata sono stati loro, gli Alieni. Il più bell'errore della mia vita. Si perchè quando li ho conosciuti, a differenza degli altri, loro mi sono entrati sotto pelle, hannotrovato il modo di oltrepassare quella barriera di indifferenza che avevo eretto e lo hanno fatto dandomi l'unica cosa di cui ero sprovvisto: amore. E forse è per questo  che li odio  così tanto quando li vedo buttare via la vita in questo modo. Perchè in loro io vedo il potenziale che non trovo in me stesso e quindi li sprono, con tutta la mia brutale sincerità a fare meglio, a dare il massimo... e se ora odio Alex così tanto è solo perchè lo amo troppo.

Eva - La nostalgia, come una morsa feroce, la aggredì allo stomaco e lei non potè non avvicinarsi a quelle lenzuola per sentire se ancora parlavano di lei. E di Alex. Le sfiorò appena con la mano. E in quel preciso attimo le immagini dei loro corpi nudi che si rotolavano ansimanti in quel letto le sfilarono rapidamente davanti agli occhi come fotogrammi di un film che sentiva non essersi mai del tutto concluso.Si allontanò velocemente dalla stanza ... Scendendo i gradini si ripetè che era stato un errore tornare in quel posto, che sarebbe stato meglio dare retta a Rodolfo e lasciare che il passato restasse chiuso nel cassetto dove era stato messo. Sarebbe stato meglio per tutti ... " E adesso, guardando questa tavolata di persone dagli occhi nuovamente vivi, solo per lui, mi rendo conto che  lo ha fatto di nuovo, il suo gioco di prestigio del cazzo, il suo miracolo, la sua magia. Ci ha rimessi insieme. Come tanti pezzi di un unico cuore smembrato e mai più ricucito dal giorno della sua partenza. 

Rodolfo - L'elastico che avevo teso in quegli anni e che potevo finalmente spezzare, finì per farmi schiantare esattamente nel punto in cui ero partito. E se ora odio Alex con tutte le mie forze è perchè so che è colpa sua. Perchè ha coltivato le mie illusioni per poi farmele franare addosso. Ma soprattutto perchè  mi ha mostrato ciò che muove il mondo, il mio mondo; l'odio. Non l'amore. Per vendetta mi presi la sua donna, anche se forse è più corretto dire che ci raccogliemmo a vicenda. Anche Eva come me proveniva da una famiglia che si reggeva sul mantenere un decoro esteriore, mentre la polpa del frutto marciva e corrodeva ogni sentimento d'amore. Ci sentivamo più forti insieme, e determinati a fare in modo che la nostra vita prendesse una direzione del tutto diversa da quella dei nostri genitori. Ma fu Alex a farmi credere che potevo davvero farcela.

Melzi - Si dice che sono le radici a rendere più forte l'albero, che più esse vanno in profondità più il tronco è capace di sopportare qualunque tipo di vento e di sopravvivere al caldo torrido della neve. Ho sempre pensato che questo valesse anche per  gli esseri umani. Perchè sono le radici a renderti saldo, stabile, sicuro di te nella vita. Forse è per questo che io, forte, non mi ci sono mai sentito. Perchè io non ho radici. E quelle che mi hanno dato i miei genitori adottivi sono così fragili e superficiali che bastano appena ad ancorarmi al terreno. Ho passato la vita cercando di farmi amare, di farmi accettare, sicuro di non valere niente, di non meritare nulla se non compassione, perchè se perfino i tuoi veri genitori ti rifiutano, che speranze ci sono che gli altri ti accettino? Mi sono nutrito in modo bulimico di ogni grammo d'amore o di gentilezza che ho ricevuto,esattamente come ho fatto col cibo: senza mai esserne sazio e senza mai permettergli di rinforzarmi. Solo di ingrassarmi. "Radici". Questo era il libro che aveva scelto per me ... All'interno aveva scritto una piccola dedica a penna: "A Melzi, perchè possa affondare le sue radici nella nostra amicizia".

Passando davanti allo specchio osservò il viso sfatto dal trucco per via della pioggia, i capelli bagnati e corti si erano arruffati sulla fronte. Guardandosi pensò che assomigliava a un vecchio mimo di strada che aveva finito la sua rappresentazione, o a un clown triste che poteva finalmente arrendersi alla stanchezza e togliersi quel ridicolo mascherone di dosso, ma più di tutto pensò di assomigliare a sua madre, quando, concluso uno spettacolo, rientrava in camerino e si sedeva davanti allo specchio per affrontare quel lento rituale di svelamento che la riportava fuori dal personaggio. In quel momento si sentì esattamente come lei. La rappresenatazione che aveva messo in atto per i suoi amici era terminata e poteva finalmente dire addio al personaggio Alex, per iniziare a vivere la sua nuova identità.

 

 
 
 

"Da una vita perfetta" di Silvia Avallone

Post n°42 pubblicato il 16 Giugno 2018 da Vilma66
Foto di Vilma66

Lui scriveva. Avrebbe potuto passare ore in quella posizione scomodissima, pur di osservare Adele mentre sparecchiava, e immedesimarsi in lei. Prima i piatti, poi le posate: era in grado persino di prevedere i suoi gesti. Di rado le confidava qualcosa, anche solo per finta, con il pensiero; accadeva quando sua madre aveva una ricaduta e si sentiva solo. Ma il più delle volte rispettava il rigoroso ruolo che si era dato: quello del narratore esterno. Che al massimo simpatizza, ma non giudica e non interviene ... Adele non poteva saperlo, come del resto non sapeva un mucchio di cose, ma lui la considerava un'amica da molto tempo. E non una qualunque. Sentiva con lei un legame più puro, come accade tra gli amici di penna. Più esclusivo, come tra uno scrittore e il suo personaggio principale.

Esagerò con il rossetto. S'infilò il tailleur elegantissimo con la camicia di seta che aveva indossato solo una volta, alla laurea. Rivoleva se stessa a vent'anni, la guerriera, ed era la prima volta che se ne accorgeva. Eppure voleva anche una Dora nuova, che non conosceva ma che forse stava nascendo. Una donna in grado di accettare un fallimento, e andare oltre.

Li aveva letti, i libri consigliati durante gli incontri. Lo sapeva che i genitori sono coloro che ti hanno cresciuto, educato, amato. La conosceva, la differenza tra padre naturale e padre adottivo. Tra madre "di pancia" e madre "di cuore". E gli era chiaro che al centro doveva esserci il bambino, solo lui con il suo dolore, e non i sentimenti degli aspiranti genitori adottivi. Ma lui non ce la faceva, ecco.

A ricordarlo, il giorno più bello della propria vita, gli veniva da piangere e da spaccare il muro. Erano entrati nella biblioteca di Italianistica prima di rincasare, ubriachi di avventura. Scaffali di legno fino al soffitto e sale affrescate. Con le vertigini, tanti libri c'erano. Avevano cercato nell'inventario, recitato alla perfezione. E dalla pancia di quel luogo favoloso era risalito in superficie questo, che stringeva tra le mani. Si sedette, lo tenne a lungo sulle ginocchia. All'estate in cui l'avevano letto, no, non ci poteva pensare. Trenta pagine a testa. Di mattina e di pomeriggio. Sui tetti, negli scantinati, sui marciapiedi. Tra un furto di alcolici, una partita a pallone e un copertone a cui dare fuoco. Leggevano ad alta voce. E non c'erano più padri assenti nè madri stanche nè figli troppo unici e troppo soli.

- Posso dirti che ci sono quindicenni che hanno accoltellato per due grammi di fumo, ma credo che cambierebbero vita se avessero una madre ad aspettarli. Ho conosciuto un bambino di sei anni in una casa famiglia, che quando è stato adottato ha voluto essere attaccato al seno, e sbucare fuori da una maglietta simulando il parto. Per riprendersi quello che gli avevano tolto. Non ce n'è uno, anche adolescente, abusato o violento, che sia da considerarsi perso. E' che se da bambino non sei amato, poi non esisti.-

Cos'è una colpa. Cos'è un destino. "Il processo" era rimasto incompiuto. Il finale "Karamazov" era completamente aperto. Dora si alzò dalla sedia su cui si era raccolta per frenare il cuore, per racimolare le forze. Le ultime sì, ma le doveva usare. - Io non lo so -cominciò. - Cosa serve di preciso per formare la madre, la famiglia "migliore". Non ho studiato medicina nè chimica nè psicologia. Insegno letteratura, finzioni. Non corro i cento metri, non nuoto. - ... - Sono nata senza una gamba, è vero. Perchè mia madre in gravidanza fumava. Perchè un gene non ha funzionato. Vai a saperlo, non mi interessa. Ma vi assicuro che quel "senza" ha contato più della gamba che avrei potuto avere. Che è grazie a quel "senza" se sono qui e non cedo. E voglio prendere in braccio mio figlio, un giorno, e aiutarlo a fare i conti con tutti i senza che si troverà davanti, con tutti i senza che lo hanno già segnato. - ... - Ci ho messo trent'anni a capirlo, ma non è una colpa. -

Quando qualcuno ti abbandona, e lei lo sapeva bene, ti lascia in eredità un vuoto. Che rimane lì, tra le costole, e non c'è modo di mandarlo via. Però, le disse. Tu avrai una vita intera per costruirci intorno delle cose belle. Sai, io non conto niente alla fine. E' il mondo dove andrai ad abitare che conta. Un giorno ripasserò di qui, tra cinque, sei anni, te lo prometto. E la bambina più bella che vedrò giocare, anzi non la più bella, la più felice, penserò che sei tu.

A me non piace il futuro, avrebbe voluto rispondergli. Ma si limitò a sospirare alzando gli occhi al cielo, come a dire: Si, tutte quelle abolizioni - della punteggiatura, degli aggettivi - erano proprio una stronzata. Lo seguì con lo sguardo attraverso il fiume degli altri. Era così alto, aveva quei capelli lisci e folti che gli scendevano fino alle sopracciglia, e quella sciarpa a righe arrotolata male che lo faceva sembrare un bambino bisognoso di affetto. il "suo" affetto.

Adele immaginò questa ragaza della sua stessa età, questa estranea ben vestita, istruita, che provava a cercarla. E niente. Si sarebbe chiesta: Chi è la persona che mi ha lasciata lì, come una cosa? Perchè lo ha fatto? Senza uno straccio di nome. Forse sarebbe arrivata a domandare in ospedale , a setacciare i faldoni. O forse no, perchè la sua famiglia vera sarebbe stata lì, al suo fianco, a volerle bene. A quella ragazza che però non era una sconosciuta, perchè era Bianca. E l'aveva attaccata al seno, le aveva accarezzato la testa.

 

 

 
 
 

"Le quattro casalinghe di Tokyo" di Natsuo Kirino

Post n°41 pubblicato il 29 Maggio 2018 da Vilma66
Foto di Vilma66

Kuniko.

Masako le faceva venire in mente gli alberi secchi e nudi in inverno. Così era il suo corpo slanciato, senza un grammo di troppo, e il colorito del suo viso era simile a quello della sua corteccia. Il taglio degli occhi, il naso grazioso, le labbra sottili, tutto perfetto al millimetro. Se si fosse truccata un poco e avesse indossato vestiti un pò più raffinati, come faceva lei, sarebbe stata molto carina ... Che spreco! Kuniko provava un sentimento misto di invidia e disprezzo. Lei invece era brutta e grassa... Specialmente al mattino si sentiva brutta, alla fine del turno di notte. Prese un fazzolettino dalla pochette firmata Prada e si picchiettò la pelle nei punti in cui era più unta. Sapeva anche troppo bene che una come lei, senza particolari qualifiche, non poteva trovarsi un impiego migliore se non era almeno carina. Per questo aveva accettato quell'orrendo lavoro notturno. E più era stressata, più mangiava e ingrassava.

Il suo più grande desiderio era essere una donna diversa, vivere una vita diversa, in un luogo diverso, con un uomo diverso.

Yoshie.

Yoshie depose in un angolo la busta di carta contenente il camice bianco e i pantaloni da lavoro che si era portata a casa per lavarli, e attraverso la porta scorrevole aperta diede un'occhiata alla camera di sei tatami. Le tende erano tirate e la stanza immersa nell'oscurità, ma si accorse subito dei piccoli movimenti sul futon disteso sul pavimento. La suocera, costretta a letto da sei anni, doveva essere già sveglia. Tuttavia Yoshie rimase immobile in mezzo alla stanza, senza chiamarla. Nello stabilimento riusciva a farsi forza e a concentrarsi nel lavoro, ma appena arrivava a casa si sentiva stanca e molle come un vecchio straccio per spolverare. 

In fondo al cuore sapeva che evitava di guardare in faccia la realtà. Non voleva riconoscere che nessuno era disposto ad aiutare lei, non avrebbe potuto sopportarlo. Preferiva coltivare quella sorta di orgoglio che la costringeva ai più duri lavori. Yoshie si nascondeva la realtà e la riponeva accuratamente in fondo all'anima: in tal modo aveva finito col fare della fatica la regola suprema della propria vita. Era quella la sua tecnica per sopravvivere.

Yayoi.

Era la più bella, non solo tra loro ma tra tutte le operaie del turno di notte. Aveva lineamenti perfetti: fronte alta, sopracciglia e occhi ben disegnati, un nasino all'insù e labbra piene. Anche il corpo era bello, esile ma ben proporzionato. Era diversa da tutti gli altri e perciò la prendevano in giro, ma anche la viziavano.

Odio, odio puro, ecco quello che provava. Yayoi contemplava la propria immagine nuda nel grande specchio. Al centro del suo candido corpo di trenaquattrenne spiccava, all'altezza dello stomaco, un livido bluastro quasi circolare. Quello era il punto in cui suo marito Kenji, la sera precedente, l'aveva colpita con un pugno. Era stato questo fatto a risvegliare quel sentimento nel suo animo. C'era già da tempo. Ma fino ad allora non era riuscita a dargli un nome. Appena ebbe un nome, quel sentimento parve allargarsi come una nube nera e densa di pioggia e si impossessò in un batter d'occhio del suo cuore. Dove ora non c'era altro che odio puro... Si sentì terribilmente sola e seppe che da sola avrebbe dovuto cavarsela in questo mondo spaventoso, da sola avrebbe dovuto porre fine ai maltrattamenti di kenji. La cosa che più la feriva era che fosse proprio l'uomo su cui avrebbe dovuto poter contare a procurarle tutti i suoi guai.  Come avrebbe potuto uscire da quell'inferno? Non lo sapeva proprio.

Sotto il suo ombrello tutto era rosa, tuttavia il mondo esterno si era trasformato in un paesaggio minaccioso che la stringeva da ogni lato. Non riusciva a smettere di pensare che era il mondo che doveva affrontare dopo l'omicidio di Kenji. Yayoi si ritrasse sotto l'ombrello, come se volesse scacciare quell'immgine.

Aprì la porta ed entrò nella penombra. Forse per la presenza dei piccoli, la sua casa aveva il tenero, familiare odore di un cucciolo addormentato al sole. Ormai quella casa apparteneva soltanto a lei e ai suoi adorati bambini. Tirò un sospiro di sollievo. Kenji non sarebbe più tornato. Era morto, ma nessuno doveva accorgersi che lei lo sapeva, doveva stare molto attenta. Sarebbe riuscita a interpretare bene la parte della moglie preoccupata per la scomparsa del marito? Questa era la sua più grande preoccupazione ora.

Masako.

Il figlio che era stato espulso dalla scuola e si era rinchiuso nel mutismo, il marito con la preoccupazione del lavoro, lei che aveva dovuto abbandonare il suo impiego ed era finita ai turni di notte: ciascuno di loro era costretto ad affrontare la realtà e a portare il proprio fardello da solo, così come da soli dormivano nelle loro stanze.  Le dita del marito, che da lungo tempo non la sfioravano più, lavoravano senza sosta per costruire una fortezza. La sua inclinazione a escludre dalla propria vita la moglie e il figlio, come se appartenessero al mondo esterno, feriva profondamente Masako. 

Ombre minacciose si addensarono improvvisamente sulla sua serata, che aveva previsto di trascorrere tranquillamente a casa, senza figlio e marito che sarebbero rincasati chissà quando, e soprattutto senza dover andare a lavorare. La situazione era cambiata troppo in fretta. Si stava ancora cullando  nell'ingannevole sicurezza che tutto fosse andato per il meglio, ed ecco presenatrsi davanti a lei il fallimento. Il pericolo, che finora se ne era stato in agguato, era saltato fuori a farle lo sgambetto. Ma adesso era il momento di dimostrare cosa vuol dire essere padroni della situazione. Da ora in avavnti, a ogni passo, dietro ogni angolo, poteva aprirsi una tenebra nera, come le ali di un corvo, che non aspettava altro che inghiottirle tutte quante. Per qualche minuto Masako si concentrò intensamente sui propri nervi come si fa la punta a una matita dalla mina particolarmente dura.

Con calma tornò all'ascensore e premette decisa il pulsante per scendere. Avrebbe comprato un biglietto aereo. Da qualche parte doveva esserci la sua libertà, diversa da quella di Yoshie e di Yayoi. Adesso che si era chiusa tutte le porte alle spalle, non le rimaneva che trovare una nuova porta da aprire. Sentì il sibilo dell'ascensore che saliva e il rumore le ricordò il gemito del vento.

 
 
 
 
 

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