Dice il tuono: rgrmrgrhrg-brum!
E noi,
in file ordinate, presso gli eterni declivi, ce ne stiamo
a cantare.
Dal profondo dei nostri abissi espugnati duramente:
ciò che non abbiamo conquistato per niente.
E ora?
Benedicimi, Padre, perché ho peccato,
in nome della più vile delle alleanze, quella tra me e me,
tenendo fasci di parole tra i denti,
dure e fibrose:
i capelli di un demone indocile.
Ciononostante
continuavano a ripetere: “Così va bene. Non fermarti proprio ora:
sarai grande.”
Cercai di esserlo.
Forse, in parte, lo fui.
Ma anche nell’istante in cui fui più vicino alla gloria,
nel momento più magnifico, allorché
ebbi consolidata la mia posizione,
- in punta di piedi sulla cima della montagna più alta,
rischiarata pietra eterna dalle galassie australi -
il petto gonfio di letizia, le braccia
levate, e le dita protese
a sfiorare
filacci impetuosi di gas siderali
e le grinze inviolabili nell'infinito,
persino - dirò -
nell'attimo in cui lo splendore dell’esaltazione mi rendeva eterno,
mai mi sollevai al di sopra dello stato animale: fu sempre
la mia carne fremente nello spasmo lascivo,
la fronte paleolitica corrucciata,
un ghigno falce-di-luna a chiosare lo stallo eterno.
Sono certo più incantevoli le sinuosità di una conchiglia
di tutte le parole che potremmo mai scrivere.