Creato da b.zucchermaglio il 17/08/2014
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"Abolire il carcere" per progettare alternative serie di risarcimento e rieducazione sociale

Post n°9 pubblicato il 01 Febbraio 2016 da b.zucchermaglio
 

“Abolire il carcere” è un libro che dovrebbe essere eretto quale manifesto di un nuovo programma educativo della società, la quale dovrebbe convertire la propria idea di “pena” in “sanzione”, in riparazione del male causato, del torto subìto, e riservare la assurda pena della reclusione in un luogo prossimo alla tortura solamente per i casi davvero e concretamente più gravi e per i quali in nessun modo è possibile trovare una forma di risarcimento o di “contenimento” del reo.

Ma purtroppo, lo hanno detto in tanti, da un “teatrante” come Genet a un sociologo quale Foucault, la società ha bisogno del carcere per affermare se stessa, per sentirsi rassicurata, per determinare l’immagine positiva di sé per il tramite della esistenza – e relegazione – del suo negativo.

Sapere che c’è un luogo nel quale vengono catapultate – e rimosse – persone che noi non vorremmo essere, è un modo per definire noi stessi in quanto distanti da ciò che non siamo, soprattutto da ciò che temiamo di essere, senza però considerare che in quel luogo un giorno, per un errore, per una serie di disgraziate circostanze, o forse più semplicemente per una nostra responsabilità, potremmo finirci anche noi.

E se poi in quel carcere non ci finiamo – come fortunatamente accade alla maggior parte delle persone – con esso dobbiamo comunque e inevitabilmente fare i conti in quanto chi da quel carcere esce prima o poi incontrerà anche noi, e molto spesso senza che nemmeno ce ne accorgiamo.

E allora (a meno di non voler introdurre la pena di morte, e di introdurla per qualunque genere di reato) è conveniente per tutti, anche per le sedicenti persone “dabbene”, quelle che sono certe che mai avranno a che fare con questa realtà priva di senso e privata di ogni finalità rieducativa che invece avrebbe sulla carta, che chi davvero ha sbagliato e deve pagare il suo debito, con la persona offesa, se c’è, o con la società in genere, più in astratto, lo faccia in modo effettivamente utile nonché concreto, costruttivo, foriero di positività e di proiezione verso il futuro. Se messo nelle condizioni di comprendere il male che ha fatto, se reimmesso immediatamente nel consorzio sociale, con le eventuali, se necessarie, misure interdittive, se inserito in un meccanismo che sia risarcitorio in concreto ma anche in funzione futura, il reo si asterrà con ogni probabilità da commettere nuovi reati e la società non potrà che trarne enorme vantaggio e beneficio, anche perché si eviterà, fra l’altro, di avere ex detenuti pieni di astio e di rancore nei confronti di un sistema che non ha saputo far altro che bastonarli e relegarli oltre i margini della collettività e metterli nelle condizioni di non essere più utili.

“Abolire il carcere” è dunque un libro che andrebbe portato in giro per tutta l’Italia, andrebbe spiegato, nelle scuole, nelle università, nelle associazioni, bisognerebbe far comprendere che questa rivoluzione copernicana del sistema penale-sanzionatorio non implica affatto che le persone siano libere di delinquere e che non verrebbe meno in alcun caso quella che spesso si sente scioccamente invocare ovvero la “certezza della pena”.

Al contrario.

 

Ma è un lavoro duro, difficile, lungo, in quanto si tratta davvero di una rivoluzione che scardina completamente il baricentro delle nostre menti, quelle di tutti, sempre troppo inclini a sbattere dentro e “buttare via la chiave” senza in alcun modo domandarsi che cosa accade dopo. Dentro il carcere, ma anche fuori. Senza domandarsi che cosa accade fuori, una volta che riteniamo erroneamente di poter risolvere i problemi di una collettività ingabbiandoli in un cella chiusa a chiave e dimenticata.

Bruno Zucchermaglio 

 
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