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LA BAMBINA CHE LEGGEVA.

Post n°33 pubblicato il 02 Dicembre 2019 da cupidobruno
 
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“QUANDO SI AMA, SE SI AMA DAVVERO SI DOVREBBE CONTINUARE AD AMARE, ANCHE SE SI SCOPRE CHE L’ESSERE AMATO È DIFFERENTE DA CIÒ CHE SI CREDEVA.”-

Racconto di Bianca Fasano.

Michela aveva tanti anni e la sua memoria faticava ad andare molto indietro nel tempo, all’età dell’infanzia. Pure, quando si trattava di ricordare le ore trascorse a casa della nonna Michela, il ricordo esplodeva con lampi e bagliori, facendole rivivere tanti momenti trascorsi in quei luoghi. Non perché fossero stati particolarmente, felici: anzi. In effetti, per lei bambina non lo erano stati. I genitori, che all’epoca dovevano essere piuttosto giovani, vi si recavano per giocare a carte (briscola? Tressette? Poker? Non lo sapeva), con gli zii Andreina e Roberto e con i nonni. Non le riusciva di fissare in immagini che un vago sentore di sigarette (qualcuno fumava), la luce che batteva, tonda, su di un tavolo, l’ombra intorno ad essa e i giocatori silenziosi ed attenti. Intanto la casa era attorno a lei, di circa cinque anni. Che cosa può attirare una bimba di quell’età? Forse voi, passato quel tempo, avete perso il ricordo delle sensazioni misteriose, mistiche, leggendarie, magiche, che si possono provare da piccoli. In un mondo dove è ancora permesso l’ingresso alla Befana, a Babbo Natale e a tanti altri esseri fantastici, una casa antica come quella dei nonni poteva rappresentare un maniero. Così, la Michelina, crescendo, di sera in sera, pur protestando di avere sonno (andava da un genitore all’altro per dirlo e veniva rimandata come una palla dall’uno all’altro con un: - “Chiedi a papà, chiedi a mamma”-), finiva per andare in esplorazione. Di cose, da ogni parte, sia nel buio delle stanze vuote che alla luce di modiche lampadine giallastre, ve ne erano. Tra le tante cose che l’appassionavano c’era un autopiano che suonava da solo. Quando si fece un po’ più grande le spiegarono che c’erano, all’interno, dei rulli traforati (glieli fecero anche vedere), che inviavano i comandi alla tastiera del pianoforte e in tal modo venivano eseguiti in automaticamente le musiche che il tracciato traforato conteneva. Tuttavia continuò a sembrarle tutto un po’ misterioso. Sapeva che in quelle stanze antiche la mamma aveva conosciuto il papà, che abitava qualche piano più sotto, figlio di medico ed orfano di padre. Che il papà aveva un enorme ciuffo di capelli neri e lei lo chiamava “ala di corvo”. Tutto ciò sorprendeva un pochino Michelina più adulta, visto che suo padre, al momento, di capelli ne aveva davvero pochi. Ciò non toglieva che (si vedeva benissimo), per la mamma il suo innamorato restava sempre bellissimo. Il giovinotto con cui aveva ballato al suono, appunto, della pianola magica. Lei, da piccola, aveva un amore fra quelle mura: si trattava di una bambina di bronzo che leggeva da un grosso libro, non raggiungibile dalle sue mani, al culmine di un piedistallo in legno bruno ritorto, che si trovava nell’angolo buio del soggiorno. -“Mamma, chi è quella bambina?”- -“Non lo so.”- -“Cosa sta facendo?”- -“Non vedi? Legge!”- -“Cosa legge così attentamente?”- -“Non lo so, Michela. Forse un libro di scuola, oppure un libro di favole. Non si capisce.”- -“E’ una cosa bella leggere?”- -“Sì, molto bella. “- -“Potrò leggere anch’io un giorno?”- -“Certo: a breve andrai a scuola ed apprenderai a leggere. “- -“Libri, come quella bambina?”- -“Tutto ciò che vorrai leggere. “- -“Anche quello che legge lei? Sembra così interessata! Deve essere proprio bello!”- A questo punto, però la madre, perdeva la pazienza. Aveva tentato di farle capire che non sapeva cosa leggesse quella bimba, però lei si ostinava a credere che in qualche modo si potesse scoprire. Così, incantata, restava dieci minuti, a volte (un’eternità per una bambina di circa cinque anni), a fissare dal basso, la bella bimba con i riccioli ed il volto color oro bronzato, che si appoggiava alla manina destra, grassottella, tenendo con la sinistra il libro aperto su cui fissava lo sguardo. Gli anni volarono. Lei crebbe. Imparò a leggere e a scrivere. A otto anni scriveva poesie sul suo quaderno “a righi” con la copertina nera. Più in là prese a leggere tutto ciò che le capitava a tiro. Morì la nonna, si ammalò il nonno, le serate di gioco terminarono e capitò sempre più raramente che lei posasse lo sguardo sul volto di bimba studiosa. Le restò nell’animo, silenziosa immagine, anche quando proprio tutto quel mondo venne spazzato via dal cambiamento di casa della zia, che vendette la pianola, però dovette portare con sé la bambina di bronzo, benché lei, per anni, non ebbe modo più di vederla: forse era in qualcuno degli armadi della nuova casa senza ricordi. Anche quella casa venne abbandonata (venduta), morto lo zio, la zia andò ad abitare, sola ed anziana, in un altro appartamento dove la bimba in bronzo ricomparve, si direbbe all’improvviso, sul suo solito piedistallo in legno scuro. La ritrovò come si ritrova un pezzo di se stessa, però neanche ne parlò con la zia. Ancora anni che fuggono, tempi veloci trascorsi lontano dalla sua terra d’origine, marito, figli, cose belle accadute e cose meno belle. Da fanciulla, era divenuta donna, aveva conosciuto l’amore che, purtroppo, l’aveva dapprima illusa, poi anche delusa, come spesso accade. Tempo dopo ritornò alla sua città e riprese a vedere la zia e la sua casa e la bimba, che, sul suo piedistallo, continuava la sua eterna lettura. Desiderata? Sì, doveva ammetterlo: quella statua in bronzo della bambina l’aveva sempre desiderata. Avrebbe voluto farla sua, anche se non l’aveva mai chiesta. Infine la zia era morta. C’era stata una divisione ereditaria dei beni più rilevanti e perfino una giornata memorabile (per la riunione di molti dei nipoti, anche lontani), in cui si era deciso di dividere gli oggetti della casa, perché ognuno portasse con sé un ricordo. Non si trattava di cose davvero importanti: vasi, bronzetti di varie misure, oggetti di vario tipo. Con molta semplicità si era dato un numero a quelle suppellettili, applicandoli su di esse, dividendole approssimativamente per valore, grandezza, estetica, utilità. C’erano (quasi) tutti loro, quelli che potevano essere considerati “gli eredi”. Fu una specie di tombola e ciascuno scelse un numero, poi due, poi tre, finché in concreto, pressoché tutti gli oggetti di casa trovarono un “nuovo padrone”. Alla fine della giornata, affettuosa, familiare, Michela si rese conto che non le era toccata in sorte la bambina di bronzo. Pensò fosse destino. Però, fatto strano, chi l’aveva guadagnata in sorte non l’aveva portata con sé. Restò stupita. La vide lì, abbandonata sul tavolo, col suo numero attaccato alla base, che continuava, comunque, a leggere il suo libro, con il bel volto appoggiato alla mano. Le si avvicinò incuriosita nel vederla così vicina e, finalmente, a portata di mano. La sollevò: leggera, la vide nell’interno:candida, come un’anima fanciulla. La bambina di bronzo era di gesso. Comprese perché non l’avessero presa: cosa vale una bambina di gesso? Le carezzò il volto leggermente e capì come fosse stato il suo zio artista a renderla del colore del bronzo. Si spiegò perché non avesse una base in marmo. Tuttavia, questo non diminuì il suo amore per lei. Non importava quanto valesse. Così restò un po’ a pensare a sua madre, che aveva sposato ala di corvo ed aveva amato il suo uomo senza capelli. Evidentemente per lei non contavano, davvero, così come non contava per lei, Michelina, che la bambina non fosse di solido bronzo, Forse l’amore dovrebbe essere questo. Restare inalterato nel tempo, anche quando l’essere che amiamo si rivela di una sostanza differente da quella che ci aveva fatto innamorare. Forse, dovrebbe essere così. Bianca Fasano

 
 
 
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