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Iniesta lascia il Barcellona

Post n°493 pubblicato il 27 Aprile 2018 da MANonTHEmoonMilano
 
Tag: Iniesta

Andrés Iniesta lascia il Barcellona dopo 22 anni, 6 nelle giovanili e 16 in prima squadra. Lo ha annunciato, piangendo, lui stesso nel corso di una conferenza stampa: «È qualcosa su cui ho riflettuto a lungo, a livello personale e con la mia famiglia. Dopo 22 anni qui non potrei più dare il meglio di me stesso». Con il Barcellona Iniesta ha vinto finora 31 titoli (tra cui 8 campionati spagnoli e 4 Champions League). A questi vanno aggiunti il Mondiale 2010 e i due Europei (2008 e 2012) conquistati con la nazionale spagnola.

 

«Prima di colpire il pallone ho dovuto attendere che scendesse un po’. Se non avessi aspettato non avrei segnato. In quella frazione di secondo, la gravità ha fatto il suo dovere, e io il mio. Grazie Newton». Il commento di Andrés Iniesta al gol decisivo della finale Mondiale 2010 in Sudafrica - che lui stesso si è riguardato «centinaia e centinaia di volte» - è la sintesi estrema della sua intelligenza non solo calcistica.

 

Lì si concentrano infatti la sua consapevolezza molecolare della «fisica» del calcio; la sua matrice di giocatore artista-scienziato, tra impulso creativo e controllo razionale; la sua ineguagliabile cognizione del timing di una giocata, sempre tesa - anche nell’apparente virtuosismo personale - a integrarsi nella rete di rapporti della squadra.

 

Dando infatti per acquisite le eccelse qualità tecniche dell’uomo dai mille nickname (Don Andrés, l’Illusionista, il Cavaliere Pallido,...), il suo vero connotato è stato (a certi livelli e per l’Europa) e sarà ancora (nelle bonus tracks cinesi) l’equilibrio tra decisioni intuitive e elaborate, tra calcolo inconscio e cosciente nella ricerca dell’opzione più adeguata rispetto a una dinamica di gioco e soprattutto ai suoi sviluppi potenziali, la capacità, in breve, di prevedere e anticipare le sequenze successive, sapendo sempre quando dare la palla e quando (quanto) tenerla, quando tirare in porta e quando passare, quando dribblare e quando toccare di prima, quando cambiare fronte di gioco e quando confermarlo.

 

 

 

Perché questo sia possibile, tutto deve partire - in termini neuroscientifici - da un rapporto calibrato tra il cervello e l’ambiente, sia quello «prossimo» (il corpo, i piedi, il pallone, in Iniesta unitari e contigui come il corpo, la mano e la racchetta per un McEnroe) che quello «esteso» (i compagni, gli avversari, lo spazio). A questo, soprattutto, ci si riferisce, quando si parla della prodigiosa «visione periferica» di un fuoriclasse (vedi quella, ferina, dell’ultimo CR7 nello scannerizzare come un Terminator spazi e tempi potenziali di un’incursione, di un tiro, di un colpo di testa).

 

È un tipo di intelligenza calcistica «individuale» che ha trovato la sua espressione più compiuta, va da sé, in quella «collettiva» del Barça (in particolare dialogando con Busquets, Xavi e Messi); cioè in un sistema in cui ognuno integrava le proprie capacità decisionali con quelle degli altri, moltiplicando quelle della squadra. Una squadra - com’è noto - unica sia in fase di non-possesso (col recupero immediato della palla, poi affinato nelgegenpressing di Klopp) che in quella di possesso, con una tessitura - ricorda Xavi - cadenzata proprio sul pressing avversario, cioè coi giocatori che dovevano «attrarre» come magneti gli avversari, «nascondendo» loro la palla (secondo insegnamento «posturale» della Cantera, il vivaio blaugrana) per poi scaricarla nei tempi giusti ai compagni meglio posizionati.

 

In questo, Don Andrés era un maestro. Così come lo era nell’«arte di attraversare i muri» (espressione usata per il grande rugbista Barry John). In una squadra che, più in coerenza con la fisica quantistica che con quella newtoniana, i muri li attraversava tutta insieme (penetrando simultaneamente per profondità e ampiezza nell’assetto avversario), lui riusciva a far passare la palla o a passare lui stesso (la palla tutt’uno col piede) dove in teoria sarebbe stato impossibile: tra due o tre avversari schierati, tra un avversario e la linea di rimessa laterale, e così via. In questo, oltre al talento e alla cantera, lo aveva aiutato anche la pratica del futsal (il calcio a 5).

 

In tutti i momenti-Matrix o momenti-Iniesta che abbiamo visto scorrere, fossero gol o assist, sombreri o serpentine in infinite variazioni (come i momenti-Federer di Foster Wallace), Don Andrés sembrava rendere operativo uno degli adagi-must di Vujadin Boskov: «Grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri».

 

Eppure, il paradosso apparente è che esiti così alti sarebbero stati (molto) meno probabili se Iniesta non fosse approdato proprio alla cantera o meglio alla Masia, la fiabesca casetta-masseria settecentesca a lungo usata come struttura ricettiva per i «canterani» più promettenti. Originario di Fuentealbilla, Castiglia-Mancia, Iniesta arriva lì nel ’96 per restarvi cinque anni. Gli inizi, come per altri compagni - Messi incluso - sono traumatici: il piccolo Andrés sente un’acuta nostalgia di casa (fa a pugni con altri canterani per poter telefonare ai genitori) e vive con disagio la clausura che vieta le uscite serali (luci spente alle 23); normativa del resto inevitabile, perché - racconterà lui stesso molti anni dopo - il quartiere circostante (quello del Camp Nou) è un concentrato di sesso da strada a ogni livello e «quattro ragazzini che passeggiano possono far gola». Col tempo, però, gli insegnamenti ricevuti (i rondos o «torelli» di Laureano Ruiz, il gioco posizionale olandese, il controllo e la gestione delle emozioni) non solo ne plasmeranno l’identità tecnico-agonistica, ma ne faranno a tutti gli effetti un catalano d’adozione, più affezionato alla Sagrada Familia di tanti catalani.

 

La coda cinese della sua parabola (come quella di Pirlo in America e di Xavi in Qatar) sembra avere tratti finanziari più e prima che calcistici. Ma se a qualcuno capiterà di vederlo ancora attraversare i muri, anzi l’intera Muraglia, in pochi secondi (come nel numero del tunnel di uno dei maghi di «The Prestige») non dovrà stupirsi. Stiamo parlando di Don Andrés, del Cavaliere Pallido, o - appunto - dell’Illusionista: del giocatore che ci ha abituati da tempo a sospendere l’incredulità, facendo di tutti noi - che siamo cresciuti o invecchiati con lui - dei bambini coi capelli bianchi.

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Commenti al Post:
aldogiorno
aldogiorno il 28/04/18 alle 17:24 via WEB
CIAO MANonTHEmooMILANO. QUESTO NON E' UN COMMENTO, MA UN SEMPLICE SALUTO. TANTI AUGURI PER IL TUO CONPLEANNO, ACCOMPAGNATO CON UN CARO ABBRACCIO, DAL TUO AMICO ALDO.
 
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