Se un’enorme quantità di individui, con le loro azioni concrete, scelgono di fatto incondizionatamente sé stessi; a parole, nei loro proclami, un’altra parte sostiene di potersi dedicare agli altri al punto da dimenticarsi di se stessi.
Una tale credenza è stata formalizzata in vari modi. Non parliamo delle Religioni che, come si sa, poggiano tutte sull’assunto indimostrabile che esisterebbe un’anima immortale associata al nostro corpo, una parte eterna che può continuare a vivere anche dopo la morte, ma della filosofia e della psicologia.
Alberoni e Veca, per esempio, definiscono la morale come scelta (libera) dell’altruismo al posto dell’egoismo. La morale sarebbe una dedizione agli altri fatta in modo libero, in modo non condizionato. Ritorna così, come loro stessi suggeriscono, una vecchia tesi che era stata di J.J. Rousseau e poi di Durkheim.
Non dico che questo nella pratica sia impossibile. Si può effettivamente riuscire a scegliere gli altri, i loro bisogni, i loro interessi, ma poi bisognerebbe capire quanto davvero una tale scelta può essere libera. Bisognerebbe, ad esempio, mettere sul piatto della bilancia motivazioni come quella, per un credente, di guadagnarsi un posto privilegiato nell’aldilà: una situazione priva di dolore e ricca di gioie e di piaceri.
Alberoni e Veca, nel saggio L’altruismo e la Morale sostengono, a mio avviso in maniera contraddittoria, che Kant avrebbe sbagliato a considerare meritevole solo l’azione fatta contro i propri impulsi, contro i propri desideri. Anzi, sottolineano, dobbiamo sperare che i nostri impulsi e i nostri desideri ci portino spontaneamente ad amare gli altri. Giustissimo! Se però la scelta consiste nel seguire gli impulsi naturali, quelli dettati da un inconscio che non si è rivelato apertamente, ci si può chiedere che scelta mai sarebbe.
Il difetto di questa visione, come d’altra parte quella di Ciaravolo e Darkins, è che comunque essa resta all’interno di un concetto individualista che non infrange le barriere tra Io e non-Io.
La moralità, invece, sembrerebbe proprio il superamento di tali barriere, la creazione di legami che rendano la separazione tra Io e non-Io sempre meno evidente.
L’altruismo, oramai, non può essere valutato un’istanza pura della conoscenza emotiva e basta. Deve poter essere razionalizzato perché noi siamo diventati esseri razionali che non possiamo più ritornare indietro ad istanze conoscitive pure come nel passato.
Occorre impegnarsi per chiarire verso quali obiettivi i desideri ci vogliono indirizzare. E per obiettivo non si può intendere questo o quel piacere, perché il piacere è il premio per la capacità proprio di raggiungere un determinato obiettivo. Occorre, quindi, etichettare i desideri nel modo più chiaro e convincente possibile in quanto spinte verso una determinata condizione. Non possono rimanere qualcosa di mistico, nebuloso, indefinito.
Certo la ragione può anche accogliere l’altruismo, accettarlo, e suggerirci un comportamento dettato dal come se, senza arrivare ad una spiegazione logica. Se però non si è capaci di aprire un sipario sull’obiettivo che con la moralità si vuole perseguire si rischia di cincischiare perennemente nelle vicinanze della propria condizione, impediti da una visione ad ampio raggio. Si resta delle talpe.Se ci si convince di dover scegliere tra il proprio Io e quello degli altri, occorrerebbe innanzi tutto essere in grado di rispondere altrettanto coerentemente all’obiezione di Stirner che giustamente sostiene che se si è “unici” perché mai ci si dovrebbe preoccupare degli altri e non solo di se stessi? Anche gli altri in definitiva sono degli “unici”. Quindi unico per unico non si comprende la differenza tra essere egoista o altruista. Al più, sottolinea logicamente Stirner, potremmo mettere in piedi una libera cooperativa di “unici”. Il discorso credo non faccia una grinza.
L’inferenza è scontata se si sceglie un Io comprensivo del proprio recinto. Allora diventa impossibile comprendere una proposta come quella di Edgar Morin di considerare l’individuo come un’entità che debba necessariamente essere ad un tempo ego-centrica, ego-istica ed etero-centrica o altru-istica.
E’ su questa proposta che bisognerebbe ragionare a fondo!
E’ su come effettivamente sia possibile pervenire ad un’ambivalenza che può tirarci fuori dalle innumerevoli contraddizioni in cui si è impantanato da sempre il ragionamento.
Per uscire fuori dal pantano delle contraddizioni ci vuole quasi sempre un’idea che risolva le diatribe, che magari le sintetizzi in un’unica idea capace di abbracciare l’una e l’altra visione. Già che si sostiene di dover operare una scelta tra due modi alternativi di essere, significa che questi sono delle realtà che si evidenziano in modo netto in certe situazioni. E allora perché dover negare l’uno e accettare l’altro?Una situazione simile si è verificata nella scienza, ed esattamente in Fisica, quando sorsero due contrapposti schieramenti che si sfidarono a suon di prove sulla natura della luce. Uno schieramento sosteneva che la luce avesse natura corpuscolare, un’altra, ondulatoria ed entrambi portavano prove a sostegno della loro tesi. Non si capì subito, ma solo dopo qualche secolo, che invece, avevano ragione e torto entrambi. La natura della luce è tale, possiamo ora sostenere, che essa è sia corpuscolare che ondulatoria. E che un aspetto o l’altro ci si manifesta a secondo delle condizioni in cui si compie l’esperimento.
Ad una mente non allenata, ancora oggi, risulta incomprensibile come la luce possa avere una doppia natura. Ed in Filosofia, purtroppo, le menti poco allenate sono ancora tante, troppe.
In effetti anche qui, ci troviamo apparentemente di fronte a due situazioni che sembrano escludersi a vicenda: l’egoismo e l’altruismo. In realtà questo avviene solo perché fin dall’inizio la razionalità non ha potuto rendersi conto che l’individualità ha una natura ambivalente. E’ composta cioè da due spetti interni complementari. E così quando uno di questi aspetti si assolutizzano esso esclude l’altro. Esattamente come avviene nel caso della natura della luce. Essendo la luce composta da due aspetti complementari, come hanno correttamente compreso Einstein e Bohr, se si assolutezza l’aspetto corpuscolare quello ondulatorio viene escluso e viceversa.Se si vuole ragionare correttamente sull’individualità e pervenire ad una visione non ambigua delle sue relazioni, occorre partire inizialmente dalla sua doppia natura. Non si può inizialmente sostenere che essa sia già un’umanità, una socialità perfetta, come neppure si dovrebbe sostenere che sia sostanzialmente una monade.
Semmai si potrebbe sostenere, volendo farne una proiezione storica, che essa sia partita da una condizione di monade, poiché l’unità biologica e la chiusura operativa sono state sicuramente l’obiettivo passato di milioni e milioni di cellule che dovevano trovare il modo di concatenarsi tra loro in una nuova struttura, ma che poi, a sua volta l’individuo diventando una sorta di cellula abbia sentito la necessità di superarsi in una nuova e più ampia socialità perfetta. Due obiettivi, dunque, uno vecchio ed uno nuovo che devono combinarsi e svilupparsi armonicamente affinché entrambi possono essere centrati. E’ accaduto invece che si è tentato di perseguire questi due obiettivi in modo indipendente l’uno dall’altro, come se la socialità potesse essere una prerogativa dei singoli acquisita senza una sperimentazione e senza, quindi, il necessario dialogo con gli altri.In un mio precedente lavoro letterario dall’emblematico titolo “Gusci di cristallo” ho lanciato in modo romanzato una provocazione tesa a mettere in guardia l’uomo sull’assurdità di voler, da una parte, continuare a chiudersi in se stesso per continuare nel vecchio obiettivo di perseguire la sopravvivenza dell’entità pluricellulare e dall’altra di voler seguire il bisogno di aprirsi alla possibilità di fondare una nuova comunità, senza ritornare a modificare, a variare, gli assetti precedenti. E’ indubbio che una nuova idea può realizzarsi solo se, contemporaneamente, si trova la maniera di ricostruire l’identità dell’individuo in funzione di un diverso obiettivo. Ma di questo non sembra esserne consapevole nessuno.
Così l’assurda situazione che si è creata assomiglia molto ad un miscuglio che si ottiene mettendo insieme singoli pezzi di materia inerte. La società, l’umanità è piuttosto un miscuglio di individui che si chiudono in un guscio ermeticamente impermeabile, ma che poi cercano di rendere trasparente per dare vita ad una comunicazione che non porta a niente se non ad illuderli che il guscio non ci sia. Il guscio invece c’è e diventa ogni giorno più duro e impermeabile. E l’evidenza che al posto dell’ambivalenza si è pervenuti ad una ambiguità, ad una delle due possibili condizioni che risuona falsa seppure in maniera non chiara, non evidente.
E’ questo il nostro destino a cui stiamo andando incontro a ritmi sempre più elevati. Stiamo diventando una sorta di fossili che cercano di trovare il modo di stare insieme, che si chiudono sempre più in un bozzolo che li inganna sulle loro effettive condizioni.Così quando, attraverso un luogo comune sicuramente abusato, si sostiene che la libertà di ognuno finisce dove inizia la libertà di un altro, si finisce per specificare, quasi sempre inconsapevolmente, che l’umanità è un insieme sparpagliato di individui che dovrebbero trovare il modo di vivere perennemente confinati nei propri recinti, nelle proprie emozioni, nei propri interessi. Se questo alla nostra ragionevolezza riesce ad apparire come qualcosa di scontato, di primigenio; per la nostra emotività si traduce in uno squallore indicibile, in un’insensatezza insostenibile. La nostra emotività che è una conoscenza basilare che cerca di proteggerci dagli errori della razionalità, non può rassegnarsi a quello che sta avvenendo e preme in tutti i modi in cui le è consentito per far sentire i propri ammonimenti, per farci desistere da un progetto che ci sta sì portando a consolidarci come singole soggettività ma che sta anche condannandoci definitivamente alla solitudine, eliminando ogni possibilità di stabilire tra di noi legami forti e desiderabili.