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IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 2

Post n°56 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

Whole lotta love

 

 

     Ripetevo il quarto anno e dopo il disastro totale di quello precedente feci di tutto per frequentare le lezioni nella sede centrale. L’altra scuola aveva un aspetto tetro e lugubre, questa invece sembrava promettere meglio. Era vicina alla stazione degli autobus e aveva una facciata seria, fatta di mattoni scuri che incuteva rispetto. Ti faceva sentire a "scuola", si sentiva che lì dentro si studiava per davvero. Sulla facciata c'era persino la bandiera che sventolava. L'edificio era squadrato a dovere, ma non metteva soggezione perché gli infissi alle finestre erano in legno e questo mitigava la dura solidità della pietra scura. L'altra scuola era in prefabbricato con grandi vetrate tristi in alluminio, tutto sembrava precario e provvisorio. Quando accolsero la mia richiesta tirai un sospiro di sollievo. Nella nuova classe predominavano le ragazze e questo particolare rese più interessante la vita studentesca, uno stimolo in più a non fare troppe assenze. Il primo giorno di scuola non mi filò nessuno, scelsi un banco a metà classe e mi ci infilai dentro. Ascoltai con grande attenzione ogni cosa che veniva detta, portai perfino un quaderno che tenni arrotolato e sul quale appuntai la data di quel giorno, non vi scrissi altro.

Osservai i nuovi compagni con attenzione. Non rivolsi la parola a nessuno e tutti si comportarono come se io non esistessi affatto, finchè mi si fece avanti uno spilungone che, senza troppi preamboli, mi chiese chi fossi. Si chiamava Matteo Vigliani, ma lo chiamavano Vallanzasca. Era alto e grosso e ripeteva pure lui. Tutti sapevano che rubava. Aveva sempre jeans e maglioni nuovissimi e stivaletti alla Butch-Cassidy molto glam. Rubava e rivendeva, il suo posto sembrava un banco dei pegni. Era fornito di tutto, squadrette, portamine, compassi, aveva perfino le cartucce per i rapidografi. Rubava qualsiasi cosa potesse rivendere con successo. Entrava nelle aule vuote, ma non prendeva troppi oggetti in una volta, così non lo pizzicarono mai. Un giorno mi si avvicinò mostrandomi un disco enorme che estrasse da una custodia in cartoncino duro su cui era stampata una foto a colori. Si guardò intorno sospettoso e con la voce di uno che abbia fretta di concludere un accordo mi disse:

- Senti Grigio, ti propongo un affare perché so che la buona musica ti piace. E' un favore che ti faccio, lo potrei vendere ad altri, ma di te mi fido. Ho qui il Secondo dei Led Zeppelin come nuovo, c'è qualche graffietto, roba da niente. Mi servono subito 1500 lire. 

- Il Secondo di che? - dissi io

- Il Secondo dei Led Zeppelin, scemo, il migliore, ma dove vivi. Lo vendo per niente, te lo do per 1500 lire, ma lo ricompro, appena posso.

Era la prima volta che vedevo un L.P. Toccarlo mi piacque subito e me lo rigirai fra le dita. Il cartoncino della custodia era logoro e la foto appariva grattata in qualche punto. Si apriva e diventava come una enciclopedia di due sole pagine con dentro un'altra immagine.

- Ma è enorme - dissi. - Come si usa?

- E' un "trentatrè" tonto, ma non come quello del dottore l'ultima volta che ti ha sentito il rantolo, un trentatrè vero, quello che lo metti sul piatto del giradischi e ascolti la musica che esce dalle casse. Ce l'hai un giradischi, si? 

   No, non ce l'avevo il giradischi e non conoscevo nessuno che ce l'avesse. Combinai “l'affare” con Vallanzasca, comprai il disco e per qualche giorno lo studiai a casa.  Estraevo il vinile e ne studiavo i solchi, mettendolo radente contro la luce della finestra. Ammiravo i colori che si riflettevano sulla sua superficie nera. Ricordava il petrolio da cui proveniva, ne aveva la stessa consistenza, calda e duttile. Era perfettamente piatto e lucido, la sua forma eccitava la mia curiosità. Così chiesi a Vigliani se avesse anche un giradischi da vendermi.

- Un giradischi?  dammi un po’ di tempo.

Tornò quattro giorni dopo con un attrezzo curioso, pieno di fili e di cavetti, fatto di legno e plastica. - Un affare che non ti pentirai! - mi disse - Non troverai niente di meglio è una novità assoluta, due casse stereo con la possibilità di allontanarle fino a tre metri per un effetto stereofonico-by-brivido. 

- Effetto stereofonico “by-brivido”? Che cazzo stai dicendo? Mi serve un giradischi, ce l’hai o no?

- Ma allora sei fuori vero tu. Certo che questo è un giradischi, non lo vedi? Tiri su questo coperchio di vetro e ci metti dentro il disco. Un affare che non ti pentirai. - ripetè con un mezzo sorriso. Era uno di quei giradischi che tutti compravano a rate e nessuno finiva  di pagare. Aveva due casse di legno e un coperchio in plastica trasparente. Mi sembrava gigantesco e tecnologicamente all’avanguardia. Misi insieme i miei risparmi e feci il secondo acquisto più importante della mia vita. Lo portai a casa e lo montai subito. Mia madre mi osservava mentre armeggiavo con fili e cavetti e disapprovò con un leggero movimento del capo, prevedeva brutti tempi.  

Non misi subito il disco sul piatto, preferii creare una zona di trapasso dolce che mi avvicinasse con più cautela alle nuove emozioni che prevedevo. Troppe cose stavano accadendo tutte insieme, una nuova scuola, le ragazze, il giradischi, l’ellepì, l’anno cominciava proprio bene. Collegai la spina alla presa di corrente e premetti il tasto ON, dalle casse si sentì una leggera spinta e il led rosso della spia si illuminò. Minchia, quella spia rossa, era meravigliosa, era la conferma che dio esisteva e viveva nel paradiso stereofonico dell’alta fedeltà. Trafficai un po’ col bilanciamento dei toni e infilai i Led Zeppelin nel pernetto, accompagnandolo dolcemente verso il piatto. Mi rigirai fra le mani la copertina e osservai la superficie nera del disco. Aveva dei graffi e una marea di peluzzi sparsi fra i solchi. L’etichetta era Atlantic, rosso e verde con una grande A che la tagliava verticalmente. Era il primo disco vero che compravo in vita mia, i solchi disegnavano un percorso intricato e la luce lo illuminava in modo difforme differenziando le tracce. La copertina del disco raffigurava la sagoma bianca di un dirigibile e, sotto, stavano in piedi dieci personaggi vestiti con enormi cappottoni di pelle e divise da aviatori. Quattro di loro erano i Led Zeppelin, dovevano essere quelli al centro. L’interno della copertina era occupato da una grande scalinata, simile a un tempio romano visto in prospettiva dal basso. In alto, un gigantesco dirigibile tutto d’oro era illuminato da dei fari, come nella sigla dei film della Twentieth Century Fox, uno sballo. Quella copertina mi piacque subito e sopra ci scrissi il mio nome di battaglia, Grigio!  Mi infilai la copertina sotto il braccio e mi guardai allo specchio. Avevo i capelli con la riga a destra, un paio di pantaloni di velluto marrone a coste larghe, un maglioncino d’angora bianco, corto di maniche che faceva le palline e stivaletti di pelle nera con la chiusura lampo, facevo pena. Osservai il disco che se ne stava immobile, adagiato sul piatto dello stereo, non erano i Pooh, era una cosa diversa. Sentivo che stava per iniziare una nuova vita, che sarei ripartito da lì, dal Secondo dei Led Zeppelin. Tirai finalmente indietro il braccetto con la puntina e lo feci planare  con delicatezza sopra il disco che scricchiolò e cominciò a friggere. Prese subito il largo e dopo un attimo sentii la chitarra elettrica distorta che attaccava un riff, poi una voce altissima in falsetto che urlava: “You need coolin', baby I'm not foolin'. Way down inside... Afferrai queste parole confusamente, il resto mi sfuggiva e non riuscivo a capirlo, ma quello che sentii mi bastò. Lessi il titolo: “Whole lotta love”, Un sacco d’amore. Poi cominciò un turbinare di suoni, grida, echi distorti e strizzati in passaggi di note allucinate. Venti gelidi che si rincorrevano dentro sirene da incubo, poi un urlo, lungo e rauco, che si sciolse dentro un rullare di batteria. La chitarra di Jimmy Page riprendeva il suo riff indiavolato e di nuovo la voce graffiava parole misteriose, intrappolate in aah, ooh, spezzate in ma, ma, ma, ma...   

Quando la prima facciata del disco finì mi ci volle un po’ di tempo per rendermene conto. Rimasi immobile ad osservare il braccetto che, ordinatamente, se ne tornava al suo posto, come se niente fosse accaduto. I suoni e la voce del cantante risuonavano ancora dentro la mia testa in subbuglio, rimbalzando dentro le orecchie, gridandomi ancora quelle parole così nuove, così diverse da tutte quelle che avevo ascoltato fino a quel momento: babe-babe-babe. Una tempesta di suoni, di voci incomprensibili e inarticolate mi restituiva finalmente al mio tempo. “Devi darti una calmata, baby, non sto scherzando, ti insegnerò tutto daccapo.” Whole lotta love risucchiò in un attimo i litigi familiari, tutto il repertorio delle facce arrabbiate di mio padre. Aspirò la recente bocciatura e le mie figure da imbranato. Il mio corpo seguiva quel ritmo, lo aspettava inconsapevolmente e lo riconobbe all’istante. Whole lotta love mi afferrò alla gola e mi fece saltare i confini geografici catapultandomi nelle strade del mondo, dove altri ragazzi come me facevano girare un disco di rock su un piatto. Modificò  il mio linguaggio, lo rese più agile e svelto e portò nella mia vita l’immensa tristezza dei blues elettrici. Whole lotta love mi portò nel sud degli stati uniti, dove il Mississippi ha il suo delta e dove i Neri crearono la musica più bella del mondo, alla faccia dei Bianchi, tristi e crudeli, perennemente innamorati di donne frigide. “Agitati per me ragazza. Voglio essere il tuo amante. Datti una calmata, baby. Datti una calmata, baby. Hey, oh. Hey, oh. ” Whole lotta love. Con quella canzone morì la prima parte della mia vita. John Bonham la seppellì definitivamente sette tracce più avanti in un mare di tamburi e percussioni per inseguire la balena bianca, Moby Dick, il mostro oscuro che è dentro ognuno di noi. Gli diede una caccia spietata con un’assolo di batteria che mi prese a pugni nello stomaco. La balena bianca, che era nascosta dentro di me, emerse e mi fece vedere una luce, come non ne avevo mai visto prima d’allora.

 
 
 
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