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alessandro canu

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IL GUARDIANO DI SANTO TOME` (III. parte)

Post n°66 pubblicato il 04 Febbraio 2012 da alex.canu

 

   Lei era lì, dicevo, insieme alle tre o quattro persone che aspettavano, intirizzite, che il custode della cappella finisse, con comodo, di mangiare la sua brioche di marzapane, come se fosse pagato per non fare nient’altro. Io li osservavo da un pezzo pensando che fossero un piccolo gruppetto, in attesa della guida. Lei se ne stava a due passi di distanza dal resto del gruppo e fumava una sigaretta. Non rivolgeva la parola agli altri e nessuno la rivolgeva a lei. Se ne stava appartata, col suo pacchetto di Camel in una mano, la sigaretta accesa nell’altra e i capelli neri, che scostava continuamente sopra l’orecchio, con un gesto delicato delle dita che contrastava col suo spostarsinervoso da un piede all’altro. La borsetta di pelle nera che teneva infilata fino al gomito, stretta alla vita, era di una foggia non comune. Ogni tanto la apriva fingendo di cercarvi qualcosa, ma era evidente che lo faceva per prendere tempo, nell’attesa che qualcuno arrivasse ad aprire la cappella. Quella borsa nera mi dava un inspiegabile fastidio, quel suo cercare, fumare, scrollare la cenere, gettare a terra il mozzicone senza spegnerlo, persino l’eleganza del suo gesto nel ravviarsi i capelli mi indisponeva. Da dietro la tenda la osservavo senza decidermi ad uscire dalla confiteria di Inès. Quando mi stancai di osservare attraversai la strada e andai ad aprire il cancello che chiudeva la cappella. Li sentii mugugnare, ma ebbi l’impressione che a lei non fosse scappato un fiato. Entrò anzi per ultima e si mise appena sulla soglia, come se avesse timore di quello che stava per vedere. La mia sedia di paglia era sistemata all’entrata, appena dopo, sulla sinistra del cancello. Lei, aggrappata alla sua borsetta di pelle nera, se ne stava sull’altro lato e li, per quanto mi ricordi, rimase. Non sollevò ancora gli occhi a guardare il dipinto, se ne stava lì in piedi ad osservare i mattoni o le caviglie dei visitatori. Studiò la zoccolatura dipinta con la tempera marrone lungo tutto il muro, ma il suo sguardo non andò oltre. Ero imbarazzato, ma non mi sognai minimamente di offrirle la sedia, c’erano le panche perquesto, se voleva sedersi. Il prezzo del biglietto non includeva che io stessi scomodo per lei o per nessun altro. Dopo un’ora circa spostò lo sguardo sulla parete opposta a lei, dove stava appesa la grande pala, lasciò indugiare la sua attenzione lungo il bordo inferiore del dipinto e poi risalì rapidamente in verticale, verso la cèntina superiore.

  -Sono tutti uomini-, bisbigliò in un soffio, 

  -No, c’é anche la madre di Dio- mi lasciai scappare, e furono le uniche parole che scambiammo. Allungò una mano verso il grande quadro, come a volerlo toccare, da lontano- Ho fame- mormorò a se stessa. Si voltò piano e uscì sfiorando lievemente il cancello. Istintivamente e contro la mia volontà, mi alzai e mi levai il cappello, dopo me lo sarei mangiato per la rabbia.

  Tornò di lì a una settimana. La mattinata era grigia, soffiava un vento di scirocco e sembrava che, da un momento all’altro, dovesse piovere ferro e ruggine. Per strada poche persone, nessuno sembrava aspettarmi all’entrata. Quando, dopo tanto, finii il mio solito dolce di marzapane, uscii svogliatamente dalla confiteria, entrai in chiesa e lì, nel buio in cui la navata era ancora immersa, la vidi seduta su un banco e la riconobbi subito. Certe persone somigliano alle ombre che vedi scivolare lungo i pavimenti o spezzarsi, improvvisamente, lungo i muri d’estate. Aspettava lì da chissà quanto tempo e quando sentì il cigolìo del cancello, si alzò e senza un saluto entrò dentro la cappella. La prima a destra, da sempre. Stavolta non rimase ferma a lungo all’entrata e con passo rapido che mi stupì molto, si diresse verso una delle panche e si sedette. Zoppicava leggermente, in modo quasi impercettibile, ma quel leggero dislivello delle anche si trasmetteva alle sue spalle, facendole dondolare dolcemente. La testa era tenuta su, eretta, a forza e si capiva immediatamente che, dietro ogni movimento del suo corpo, così rigidamente tenuto a bada, doveva esserci una volontà ferrea che sovrintendeva ogni singolo gesto. Persino il muovere delle mani o lo schioccare rapido degli sguardi era il frutto di un lavoro attento di studio degli equilibri precari del suo corpo. Ciononostante i suoi capelli neri, lunghi sulle spalle, ondeggiavano delicatamente, dando a tutta la persona una grazia che compensava abbondantemente quel suo leggero difetto fisico. Notai tutto ciò tenendo il tascapane ancora sulla spalla, senza che mi fossi seduto sulla mia vecchia sedia di paglia grezza. Osservai quella donna e, immediatamente dopo, guardai il dipinto appeso alla parete per pochi secondi soltanto. Il lampo di un attimo, non mi era concesso niente di più. 

   Il bambino in basso, sulla sinistra del quadro, tutto vestito di nero, mi osservava, aveva una faccia triste e antipatica. Le guide autorizzate soddisfacevano, con finto piacere e evidente malagrazia, le ingenue curiosità dei visitatori, dicendo come in confidenza che - quello che il pittore aveva voluto rappresentare, in quel ragazzo annichilito in primo piano, era sicuramente il suo proprio figliolo, Jorge-Manuel- con una torcia accesa che ardeva da quattro secoli, retta dalla sua mano destra abbassata. La sinistra, invece, indicava il morto. Tutto il suo corpo era messo come una quinta di teatro, con il solo scopo di far scivolare l’attenzione dello spettatore lungo il braccio, verso la scena terribile del seppellimento del conte. Jorge-Manuel mi osservava, sicuro dell’effetto del suo sguardo liquido e delle sue labbra perennemente serrate. La gorgiera inamidata staccava di netto la testa, ancora infantile, dal resto del corpo. I capelli apparivano radi e tutta la persona esprimeva una tristezza che non comprendevo. La donna estrasse un taccuino dalla sua borsa, frugò ancora e trovò una matita. Con gesto antico la inumidì sulla punta della lingua e osservò, con grande attenzione, lo stesso punto (mi parve), che stavo osservando anch’io. Posò la matita sulla pagina bianca e la lasciò lì, come se l’avesse abbandonata a se stessa, come se si aspettasse che la matita dovesse muoversi da sola, animata di vita propria. Non la mosse con gesti rapidi e nervosi, come vedevo fare agli entusiasti studenti di belle arti che venivano da Barcellona, da Madrid  perfino da Coimbra. La sua matita, inumidita nella sua bella lingua, rimase lì bloccata come in un cattivo sortilegio, non si mosse leggera sul foglio e non tracciò nessun segno. I muscoli del suo viso erano contratti, la mano che impugnava la matita era dura. Improvvisamente strappò la pagina dal taccuino, accartocciò il foglio e lo gettò per terra. Richiuse il quaderno, posò la matita e con un rumore secco richiuse la borsa. Si voltò. 

Abbassai gli occhi e finsi di guardare altrove. Ascoltai il rumore sordo dei suoi tacchi sul pavimento, il ritmo di battuta era sfalsato. Quando mi passò accanto sentii il suo respiro e un leggero spostamento d’aria mi annunciò la sua assenza. Il portone principale della chiesa si aprì con un cigolìo e mi ricordò l’ordine di don Andrés di oliarlo, poi lo sentii richiudersi con un tonfo. Osservai a lungo il foglio di carta strappato, giaceva sotto una delle panche. Aprii il tascapane, presi il coltello a serramanico e mi tagliai due grosse fette di pane. Il formaggio che mia moglie mi aveva lasciato, avvolto nella carta oleata, era il mio preferito. Ne tagliai un grosso pezzo da mordere, le olive le aveva cacciate sicuramente dentro il barattolo. Al diavolo la donna e la sua stramba camminata che mi aveva infatuato. Mi aveva costretto a guardare il quadro. Non ero riuscito a controllare la mia curiosità, gli occhi erano andati a fissarsi lassù, dove lei li stava dirigendo. Ero sicuro che tenendo una matita in mano e un quaderno per disegnare, si sarebbe soffermata subito sulla figura esile del ragazzo. Tutti quelli che arrivano con fogli e matite, si sentono irresistibilmente attratti dalla lunga fila di ritratti del gruppo processionale che formano un fascio di teste che emergono, potentemente, dal buio delle loro vesti luttuose. I giovani studenti che arrivano, sopratutto quelli stranieri, supponiamo i tedeschi e tutti quelli del nord, sono attratti dalla magrezza delirante dei loro volti che scambiano volentieri per eccesso di spiritualità tipicamente spagnola. Nei loro rapidi schizzi, ne esaltano la struttura triangolare, la mettono in relazione con il divino, con la santissima trinità, con la cabala e tutti i misteri esoterici per cui, le loro giovani menti si infiammano beatamente. Pronunciano frasi oscure, con linguaggio adatto alle guerre, consumano fogli su fogli, fanno la punta alle loro matite lasciando i trucioli per terra, a me, e dopo tanto disegnare non ne vengono a capo di niente, uscendo sconfitti da questa cappella che li respinge. Gli studenti e i giovani artisti di casa nostra hanno pochi fogli e una matita soltanto. Osservano a lungo e fanno pochi disegni, perché c’é poco da disegnare. Capiscono subito qual é il problema che non si può  leggere e non si può vedere nelle riproduzioni dei libri da cui hanno studiato. I giovani artisti spagnoli sanno, della fame, la conoscono dai racconti dei loro nonni e dei loro genitori. Sanno interpretare, correttamente, le inclinazioni delle teste, gli occhi asimmetrici, semichiusi in una strizzatina che la dice lunga sul vuoto, più in basso, dentro le loro pance. 

Quando il conte di Orgaz venne effettivamente seppellito, nel buio medioevo, era quello il problema principale che ogni cristiano, ad ogni latitudine, doveva affrontare. Anch’io ho guardato al ragazzo, al figlio di Domènikos, come nessuno mai qui lo chiamava, perché per tutti era semplicemente el pintor Griego. Altri lo chiamavano, con disprezzo misto a invidia, el griego, come si poteva dire l’ebreo o il negro... Stranieri, capitati qui per caso o per ventura. Perché qui, in questa città imperiale, arrivavano tutti, prima o dopo, o per elezione o perché non ce li volevano all’Escorial o da qualche altra parte. Lui si era adattato subito e anche molto bene direi. Aveva sposato Jeronima de las Cuevas, una donna molto bella, con un perfetto ovale del viso che, dopo poco tempo, gli aveva dato un bel maschietto. Il desiderio di arrivare e la sua ambizione di porsi alla pari con le persone che ritraeva, lo spinsero ad adottare comportamenti che, a Madrid o  a Venezia, sarebbero parsi ovvi, ma che in un piccolo centro come il nostro, sembravano una offesa alla decenza e al buon gusto. Le cene dal pintor erano abbondanti con frutta fuori stagione, ospiti e musici che allietavano i commensali, eseguendo graziose arie. E non sempre el griego aveva di che pagarli.

 

 
 
 
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