Creato da alex.canu il 28/01/2012

alessandro canu

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STORIA DEL DECIMO FIGLIO figlio decimo

Post n°71 pubblicato il 06 Febbraio 2012 da alex.canu

Figlio decimo

Agàhniu Chnua

 

 

    Mai più, dopo la morte di Itthòriu, Aisentha permise al marito di avvicinarsi a lei. Non gli perdonò di non averla ascoltata e di averla lasciata sola con la santa dimenticata. Avrebbe voluto che Anzichu, e non lei, fosse andato in chiesa a gettare a terra quella maledetta statua di gesso che si era portata via suo figlio. Da qualche tempo accompagnava la sua voce con una armonica di poco prezzo, comprata da un ambulante passato per caso a Issòghene. La suonava ostinatamente, soffiandovi dentro un canto leggero e malato. I primi tempi pensarono che le sarebbe servito a distrarla dal ricordo ossessivo del bimbo morto, ma poi si accorsero che in quel soffiare, continuo e sommesso, Aisentha annullava se stessa. Si metteva sull’uscio di casa e sedeva su un gradino all’interno a ridosso della porta. Da quella posizione poteva guardare sulla strada senza essere vista, si accucciava sul gradino e tirava fuori la sua armonica. La suonava piano cercando i toni bassi senza spingere troppo e la melodia che ne usciva aveva qualcosa di ipnotico e di doloroso che ammaliava, costringendo la gente che passava a fermarsi in ascolto. Alcuni si sedevano sui gradini che davano direttamente sulla strada  a sentire la sua musica e riposare al suo canto. Le donne che andavano a prendere l’acqua alla fontana si fermavano li per una sosta, prima di riprendere il cammino.  “A fizu meu, su coro”, cantava Aisentha ed era cosciente della bellezza del canto e dell’effetto che produceva su chi l’ascoltava.

   - La mamma sta uscendo fuori di testa- diceva Nughavi- il telaio la stanca e non riesce più a consegnare i lavori. Mihlusa è costretta a tessere al posto suo per finire i tappeti che lei lascia a metà.- 

Epìhnea si occupava della cucina e questo la rendeva felice perchè le risparmiava il duro lavoro in campagna. Miràh aveva allora appena dieci anni, ma si dimostrava pienamente capace e responsabile, tanto che Anzichu faceva affidamento su di lei per tante cose. Miràh somigliava a Aisentha, come temperamento e schiettezza del linguaggio. Non aveva peli sulla lingua e la reticenza non sapeva che cosa fosse. Diceva apertamente, in faccia a tutti, quello che pensava, parlava poco e sempre a proposito. Disse che la madre non sarebbe guarita tanto facilmente, disse che ci si doveva mettere il cuore in pace, disse ad Anzichu di portarle ogni giorno qualcosa di buono, se voleva ottenere qualche risultato. Bastava un pensiero, un frutto, una melagrana, una pera matura, o un grappolo d’uva bianca. Ogni giorno un piccolo regalo per Aisentha, da offrire solo a lei, che capisse che era solo per lei. Anzichu così fece tutti i giorni, senza che sua moglie lo ringraziasse mai. Lui, ogni giorno, al ritorno dal lavoro, le metteva in grembo un frutto, un fiore o un piccolo animale che aveva catturato, un falco caduto dal nido e lei lo allevava e mangiava quello che suo marito le portava, senza mai dire niente, mai un grazie o un segno che gradiva le sue attenzioni. Davanti agli occhi solo quella statua falsa di gesso dipinto e il rumore sordo mentre disperdeva sul pavimento i pezzi del braccio, del naso e di tutto il resto. Suonava l’armonica, soffiandoci dentro il suo racconto rabbioso che non sapeva esprimere con nessun altro linguaggio che la sua mente ottusa sapesse concepire.

   Anzichu le portava dalla campagna le erbe amare che le piacevano e il finocchio selvatico che profumava tutta la casa. Raccoglieva per lei le lumache verdi da preparare con aglio e prezzemolo. Le sbucciava l'arancio più rosso e la mela più dolce. Le spaccava la melagrana, raccogliendo le gocce di rubino in un fazzoletto e porgendoglielo, ricco del suo sangue, che colorava il piccolo telo di un rosso acquarellato. Anzichu imparò ad avere  pazienza, compose una piccola poesia che volle leggerle ad alta voce, mentre lei, apparentemente ignara, cuoceva delle castagne nel fuoco del braciere. Ad Agosto dell'anno successivo Anzichu la portò con se in campagna, pensò che stare all'aria aperta le avrebbe fatto bene. Partirono la mattina molto presto, dopo aver preparato del pane con il pomodoro, le olive e il formaggio. Aisentha seguì in silenzio tutti i preparativi e quando fu l'ora della partenza saltò con un balzo in groppa all'asina, dietro suo marito. Sia detto che Anzichu non aveva intenzione di lavorare più di tanto quel giorno, ma voleva avere Aisentha con se. Lavorarono alla vigna, liberando le radici delle viti dalle male erbe che le infestavano. Un lavoro leggero che di solito facevano i ragazzi. Quando il sole fu alto Aisentha si allontanò verso il bosco di lecci e querce, Anzichu la seguì con gli occhi, malcelando una leggera inquietudine. Dopo qualche tempo sentì l'armonica di Aisentha suonare una melodia dolce, ma il suono giungeva da lontano, intermittente. Decise di seguirlo per raggiungerla e quando l'ebbe trovata lei gli sorrise, dopo tanto tempo finalmente gli sorrise. Anzichu si sentì rassserenare e le si avvicinò. Le cicale frinivano in maniera assordante, ma il fresco del bosco alleviava la calura dell’agosto. Si distese vicino a lei in modo goffo, facendole cadere l'armonica per terra, ma lei non si chinò a raccoglierla. La osservarono sorridendo, mentre delle formiche la esploravano con curiosità. Lei gli prese la mano e la portò in alto ad indicare il muretto di fronte a loro: - guarda da quella parte - gli disse- è la che l'ho vista e mi sorrideva, mentre mi diceva che il bambino le apparteneva, ma allora non capivo cosa intendesse dire. Anzichu rimase in silenzio ad ascoltare il racconto di sua moglie e capì che era tutto vero, capì che sarebbe dovuto andare subito in chiesa a rompere quel simulacro falso, abbandonato nell'angolo più buio da chissà quanti anni. Si domandò con un brivido quanti bambini si fosse portata via in tutti quegli anni, a quante donne sole avesse sorriso come a sua moglie in cambio, forse, del loro unico figlio. Non seppe spiegarle il dolore che provava, il suo corpo era rigido e indifeso e la sua bocca non conosceva parole adatte a quel momento. Fu lei a liberarlo portandosi la sua mano dura al petto e sciogliendo la pena che li opprimeva entrambe da troppo tempo ormai. Aisentha si distese sull'erba e lo chiamò accanto a se. Quando Anzichu entrò dentro di lei le sussurrò dolcemente all'orecchio: - a casa finalmente, a casa!

   Il mese di Gennaio ingannò tutti, portò un anticipo di primavera che regalò delle giornate di sole tiepido e scoprì la testa degli uomini e delle donne. I bambini giocavano per strada, felici di poter raccogliere piccoli sassi e tappi di birra con cui inventavano gare infinite. Aisentha non suonò più la sua armonica, sapeva dove l'aveva dimenticata e la immaginava ancora la con le formiche che vi avevano fatto il loro nido. Le piaceva pensarla come una casetta di quei piccoli animali. Il suo canto tornò a distendersi, come una umile preghiera che rivolgeva a qualcuno più importante di lei e ne aveva motivo, perchè il suo decimo figlio era in procinto di venire alla luce. In famiglia nessuno si azzardò ad esprimere alcun parere, solo Nonna Mihlusa Nanhas le fece un velato rimprovero, ma fu tutto. A Febbraio venne dal nord un vento gelido che paralizzò tutti e gelò la campagna. Dopo una settimana il vento non accennava a calmarsi e le scorte di carbone stavano quasi per terminare. I carbonai che venivano dalle montagne dell'interno riuscirono a rifornire alcune famiglie prima di rimanere bloccati anche loro nelle montagne già coperte di neve. A fine Febbraio la pioggia si trasformò in nevischio e poi un manto fitto e bianco avvolse definitivamente tutto, facendo scomparire sotto un unico lenzuolo case, strade e campagna circostante. Gli uomini e i giovani si diedero da fare per spalare la neve dalle porte e dalle strade, le scarse automobili non circolarono più e neppure la corriera riusciva ad inerpicarsi verso Issòghene. Anzichu, come tutti, non potendo andare al lavoro rigovernò il magazzino nel quale teneva le sue due asine, facendosi aiutare da Nughavi e Ghelanu. Ripulì la stalla e fece delle grandi fascine con il sarmento della vigna e le legò col fil di ferro, sarebbero servite per il forno da tia Toieddha dove Aisentha cuoceva il suo pane. Febbraio lasciò posto ad un mese di Marzo che non ne voleva sapere di smettere di nevicare, ormai erano tutti ridotti allo stremo e dalla radio arrivavano notizie non certo confortanti. Tutta l'Italia, tutta l'Europa, era nelle stesse condizioni. I vecchi sostenevano che un inverno così non lo ricordavano a memoria d'uomo e che certamente nessuno l'avrebbe scordato mai più.

   Marzo finì e finì anche la neve, si sciolse e non lasciò traccia se non nei campi dove bruciò tutto e si dovette archiviare quell'anno e chiedere aiuto allo stato. Aprile arrivò, tiepido e luminoso e Aisentha portò ancora una volta a compimento la sua decima gravidanza. Aveva quarantaquattro anni, Anzichu ne aveva cinquantasei, Nughavi ventuno e già manifestava il desiderio di andare via di casa. Ghelanu contava diciannove anni. Mihlusa andava per i diciassette e si era fatta una bellissima ragazza e Benìah che di anni ne aveva appena quindici la guardava con desiderio malcelato. Epìhnea ne avrebbe fatti tredici a Settembre, l'età giusta per entrare in convento come desiderava. Mirah e Jahnua ne avevano rispettivamente undici e otto e ancora giocavano a brucio e saltavano con la corda. Tothoi aveva compiuto cinque anni e disegnava come Raffaello, con pezzi di gesso sul marciapiede, la gente si fermava incantata ad osservarlo. Itthòriu ne avrebbe avuto quasi tre se non fosse stato per quella statua orrenda. Una Domenica mattina, una tia Lehana invecchiata e stanca entrò per la decima volta nella stessa stanza, si chinò sullo stesso letto e pronunciò le stesse identiche parole che pronunciava sempre in quell'occasione:

- allora ci siamo Aisè? Lo facciamo anche questo?  

- Sarà meglio- disse lei. Fece riscaldare l'acqua, preparare i panni asciutti e caldi, fece portare il braciere in camera da letto e tutto quello che si sentiva era il fuoco appena preparato crepitare gagliardo. Poi si sentì un grido di bimbo nuovo, il decimo vagito della famiglia di Aisentha Isphra e Anzichu Chnua. -E questo come lo chiamiamo?- disse don Eshòle, quando venne a battezzarlo nella stessa giornata. - Itthòriu, -disse rapido Anzichu- in ricordo dell'altro bambino. La cosa non sembrò gradita alla mamma che corresse il marito con un nome che nessuno si sarebbe aspettato:- questo lo chiameremo Agàhniu, come un grande eroe della nostra terra antica. Babai protestò dicendo che non c'era nessun santo con quel nome sul calendario, ma poi si ricordò che non era cosa buona parlare di santi in quella famiglia e Agàhniu fu.

   All'età di sei anni Agàhniu venne iscritto alla classe prima delle scuole elementari di Issòghene e imparò la storia e la geografia, imparò a leggere e a contare. Osservava tutto con grande curiosità, divenne un gran chiacchierone, ma si bloccava sempre di fronte ad una bambina con il fiocco del grembiule inamidato e le calze bianche di cotone sempre perfettamente tirate su. Le scarpette di vernice nera, lucide e pulite, lo attraevano mettendogli un disagio addosso che non sapeva spiegarsi. Il suo sorriso era aperto e invitante e Agàhniu faceva di tutto per farla ridere, mettendosi talvolta in ridicolo con gli altri maschi della sua classe. Sognava di rapirla romanticamente e portarla via in sella ad una moto rombante, ma aveva solo sette anni. Ne parlò un giorno con la mamma e Aisentha gli consigliò di cantarle una canzone e gli disse di suonarle dei muttos d'amore. - Ma io non so suonare e non so cantare- disse Agàhniu. - non fa niente, imparerai- replicò lei- ti insegnerò io. Qualche giorno dopo Agàhniu iniziò ad esercitarsi a soffiare dentro un armonica a bocca mezza arrugginita che, chissà come, Aisentha aveva tirato fuori, avvolta dentro un fazzoletto, da una vecchia scatola di scarpe.  

 
 
 
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