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STORIA DEL DECIMO FIGLIO figlio quarto

Post n°77 pubblicato il 06 Febbraio 2012 da alex.canu

Figlio quarto

Benìah Chnua  

(La morte della mosca)

 

 

     Mihlusa aveva due anni, Ghelanu quattro e mezzo e Nughavi già sei o poco più. Anzichu andava per i quaranta e Aisentha, la protagonista del momento aveva da poco compiuto i ventotto anni. Il ventiquattro di Agosto è la festa del santo patrono a Issòghene, si celebra in gran pompa un martire scuoiato vivo chissà quando. In paese facevano una festa che tutti aspettavano per un intero anno. Aisentha iniziò ad avere le doglie proprio in quel giorno e cominciò a cantare il suo sgravamento, intonandolo sui colpi di fucile sparati in onore del santo. Provò un dolore nuovo che non aveva conosciuto nei parti precedenti, le sembrava che le stessero levando la pelle come al santo in processione. La levatrice era arrivata in tempo e aveva predisposto tutto. Anzichu aveva spedito Nughavi e Ghelanu a seguire la statua del martire, mentre Mihlusa l'aveva portata a casa dei nonni materni, se ne sarebbe occupata Manthoi. Aisentha cantava e soffiava forte e spingeva. Ma il figlio non si decideva a venire fuori. La gravidanza era stata regolare e tutto era andato bene. Aisentha spingeva e soffiava le sue canzoni masticate in mezzo ai denti, ma il figlio non nasceva. tia Lehana si accorse che il bambino non si trovava nella posizione corretta e allora decise di infilare la mano dentro l'utero di Aisentha per farlo girare. Anzichu, spaventato, uscì fuori e lasciò le due donne sole. Dall'uscio della porta lasciato aperto sentiva un canto religioso, intonato da sua moglie per la santa Vergine, mescolato alla fatica e alle sollecitazioni della levatrice. Quando tia Lehana si decise a infilare la mano dentro, sentì il cordone ombelicale avvolto attorno al collo del bambino. Lo afferrò perentoriamente e lo rivoltò, riportando la testa verso l'esterno, quindi lo prese delicatamente con tutte e due le mani aiutandolo a nascere. Anzichu sentì il vuoto di silenzio e poi il grido del bambino spaccò la casa. Quando entrò vide la levatrice guardarlo preoccupata e balbettare qualcosa. Gli mostrò un piccolo torello di quattro chili e due, livido, con ancora lo strato protettivo di caseina spalmato sul corpicino. La levatrice rovesciò il neonato per dargli altri due colpetti sulla schiena e poi lo girò verso Anzichu che inorridì.

    Guardò la levatrice come per accusarla di qualcosa e poi rivolse lo sguardo verso la moglie. Il bambino aveva un taglio sul labbro superiore come non ne aveva mai visti prima e non riusciva a capire cosa potesse essere. Aisentha disse qualcosa e la levatrice le porse il bambino, lei lo osservò a lungo, muta, poi gli cantò una canzone con voce tenera, velata appena dalla stanchezza. Lo chiamò per nome, non avevano deciso niente riguardo a questo, ma lei non ebbe il minimo dubbio e lo chiamò Benìah, come suo padre. Non sarebbe stato Benìah Isphra, ma Benìah Chnua. Gli cantò una ninna nanna e il bambino si attaccò al seno della mamma. Succhiò forte, ma dal suo naso fuoriusciva il latte che prendeva. Anzichu disse che c'era il malocchio in casa sua e si lasciò cadere su una sedia. Tia Lehana spiegò che non si trattava di fatture, ma di una patologia comune che poteva essere curata. Bisognava avere pazienza e aspettare che Benìah crescesse ancora un po'. Nughavi e Ghelanu tornarono di li a poco e corsero in camera per vedere il bambino, ma il padre li fermò e disse che ancora non potevano entrare, che il bambino non stava bene, che la mamma era stanca, che la levatrice aveva ancora tanto da fare. I due fratelli sospettarono che qualcosa non fosse andato per il verso giusto e Nughavi mise la mano sulla maniglia della porta e chiamò la mamma. Aisentha rispose e pregò i figli di entrare. Ghelanu vide lo strappo sul labbro del bambino e si spaventò, Nughavi lo guardò a lungo e provò un misto di ribrezzo e di perfido piacere nel vedere quel piccolo mostro. Si lasciò andare ad un commento infelice e il padre liberò un ceffone che lo fece gridare. Ma quel commento rimase incollato nell'aria e lo chiamò sempre così, "Laritrappadu", labbro spaccato.

   Questo era il soprannome col quale tutti lo conoscevano a Issòghene e gli altri bambini lo deridevano così, quando la sua esuberanza nel crescere provocava qualche risentimento. Benìah a dispetto del labbro leporino cresceva sano e forte, soprattutto forte. Sembrava che i suoi muscoli ubbidissero ad una diversa legge del normale sviluppo e a dieci anni aveva già un corpo armonico, piccolo di statura, ma con una muscolatura da adolescente. Vinceva tutti a braccio di ferro e talvolta anche gli adulti si misuravano con lui, Nughavi non si azzardava a tiranneggiarono, profittando del fatto di essere il maggiore, ma lo teneva a distanza e si vergognava di quel fratello tagliato in faccia. All'età di otto anni Anzichu entrò in classe dove Benìah stava attento alla lezione e parlò a bassa voce con la maestra. Dieci minuti dopo aveva già preparato la sua cartella e il pomeriggio stava in campagna con gli altri fratelli. Mihlusa, forse per la contiguità anagrafica si legò particolarmente a lui, gli piaceva toccargli i muscoli, sentirli così vibranti e turgidi, si sentiva protetta e spesso il suo dito partiva dalle sue braccia e saliva lentamente verso il labbro per poi toccarsi la piccola cicatrice che aveva ancora sul sopracciglio destro. - Siamo uguali, io e te, abbiamo entrambi una ferita sul volto, io vicino all'occhio, tu sulla bocca. Benìah rimaneva immobile e sentiva il ronzio del sangue battergli sulle tempie. I capelli nerissimi e lunghi di Mihlusa lo attraevano irresistibilmente. La loro complicità era totale, Nughavi e Ghelanu non contavano niente per loro. In assenza del padre era Nughavi, il più grande, che stabiliva il lavoro in campagna e spesso si liberava un po' del suo facendolo fare a Ghelanu. Fra i due fratelli maggiori non esisteva pace e le zuffe erano furibonde. Arrivarono a minacciarti col coltello e Mihlusa e Benìah intervennero per separarli. Nughavi si volse verso di lui e gli scaricò il veleno che aveva in corpo, chiamandolo mostro e Laritrappadu. Benìah gli torse il braccio e lo fece inginocchiare per terra, mentre il fratello maggiore cercava di colpirlo al piede col coltello. All'età di quattordici anni venne invitato ad allenarsi nella palestra del paese dove praticavano la boxe e li i suoi muscoli volarono. Non aveva avversari a Issòghene e già il suo allenatore si dava da fare per procurargli i primi incontri a livello provinciale.

    Mihlusa otteneva tutto da lui, non c'era cosa che Benìah non fosse disposto a fare, la adorava di un amore cieco. Quando lei si interessò a un ragazzo che la guardava con insistenza soffrì senza dire niente. Lei se ne accorse naturalmente, sperimentava la sua vanità e il potere dei suoi lunghi capelli. Lei amava Benìah perchè la faceva ridere con le imitazioni che sapeva fare degli animali e dei fiori. Sapeva corrugare gli occhi come il gheppio e imitarne lo stridio, si gettava carponi per terra puntando i piedi su qualche roccia come gli scarabei stercorari, saltellava con la grazia delle farfalle e belava disperato come l'agnello smarrito. Soffiava forte e mulinava le braccia, girando tutt'intorno come una trottola, alla maniera delle nuvole. Danzava, per lei soltanto i suoi muscoli si addolcivano e si distendevano leggeri e innocui. Ma la cosa che faceva ridere Mihlusa fino alle lacrime era l'imitazione dei fiori che trovavano sul loro cammino, quando col padre andavano in campagna a piedi. Rimanevano indietro rispetto agli altri e lui le indicava i poveri fiorellini che si trovavano sul ciglio della strada gelata. Ce narrano di tristi e di allegri le diceva e si curvava e lasciava penzolare le braccia, fingendo una canicola che non c'era, iniziava un canto di sfibrante di cicale e richiudeva le dita, come se fossero petali disperati per la loro breve esistenza. Oppure le allargava, estendendole all'infinito nell'aria, aprendosi in un muto sorriso e allora il fiore era allegro, per lei. Mihlusa lo guardava incantata e avrebbe voluto che il tempo morisse, in quell'istante, insieme a loro due, soli.

   Quando lei si sposò all'età di diciannove anni, il giorno delle nozze Benìah si chiuse in bagno. Non vedendolo Mihlusa lo chiamò e lui disse che non sarebbe uscito. Allora lo pregò di aprirle la porta e di lasciarla entrare. Vestita di bianco, con i capelli raccolti e lo sguardo inquieto gli si avvicinò tendendogli una mano. Laritrappadu si concentrò sulle mattonelle evitando il suo sguardo, allora Mihlusa gli sollevò il mento, lo inebriò del suo nuovo profumo e lo baciò a lungo sulla bocca.

    Quando compì il ventunesimo anno di vita Benìah se ne andò insieme a tanti altri ragazzi di Issòghene. Migrarono a nord verso Milano, Varese, dove c'erano le grandi fabbriche. Lavorò in una acciaieria per tanti anni. Tornò cambiato e stanco, beveva in continuazione, non aveva amici, era rissoso e tutti ripresero a chiamarlo col suo soprannome, Laritrappadu, labbro spaccato. Con l'andare del tempo divenne lo zimbello del paese e quando era ubriaco, in piazza gli organizzavano dei finti incontri di boxe e lui dava dei grandi pugni in aria, per colpire un avversario che non esisteva più. Quando cadeva a terra e imprecava contro i bambini che lo insultavano, la gente rideva e li solitamente finiva lo spettacolo con Aisentha che se lo veniva a riprendere. Morì a quarant'anni, solo. Mihlusa ebbe quattro figli e per nessuno di loro lo volle come padrino al battesimo.

 
 
 
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