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STORIA DEL DECIMO FIGLIO figlio primo

Post n°83 pubblicato il 07 Febbraio 2012 da alex.canu

Figlio primo

Nughàvi Chnua   

 

 

   Aisentha non si accorse del suo primo figlio fino a quando non sentì una fitta forte all'addome. Pensava che fosse quell'erba che aveva colto la sera prima e che non aveva fatto star bene neppure suo marito per tutta la notte. Ma le fitte continuarono e fu lui a dirglielo: "aspetti un figlio da me", le disse e fu tutto. Il bambino dava calci nella pancia e non la lasciava riposare e quando lei si lamentava il marito alzava le spalle e diceva che presto le sarebbe passato tutto. La pancia cresceva e quando fu l'ora di sgravarsi arrivò la vecchia levatrice del paese e le cavò fuori un maschio di tre chili con due occhi lividi dalla rabbia. Del primo figlio ebbe subito paura e lo chiamò Nughavi. Lo allattò col suo latte, ma non lo faceva volentieri perchè il bambino si avventava sul seno mordendole i capezzoli con voracità. Sembrava che volesse nutrirsi della sua carne piuttosto che del suo latte. Anzichu diceva che era un torello e che così fanno i maschi. Non era vero, ma non sapeva che altro dirle. Aveva intenzione di paragonarlo al Mascelluto nazionale, ma rinunciò quando si rese conto che l’olio di ricino era stato un gioco, in confronto alla follia collettiva che si andava preparando, con l’idea di sbarcare in Abissinia, per civilizzare i pochi selvaggi che la abitavano e prendersi le poche ricchezze che sarebbero riusciti ad arraffare. Lui di abbandonare il suo lavoro, il suo paese e, ora, anche il suo primo figlio, proprio non ne voleva sentire parlare.

   Quando anche Nughavi ebbe compiuto i sei anni, Anzichu lo portò in campagna con sè. Lo vestì con un vecchio cappotto che Aisentha ebbe adattato e gli fece confezionare un paio di scarponi da masthru Filippu, il calzolaio di Issòghene. Gli raccomandò di rinforzarli forte, con i chiodi ben piantati sulla suola perchè, gli disse con orgoglio, "è un torello, saltella e corre e queste scarpe le distruggerà in meno di un anno". Quando fu l'ora Anzichu lo svegliò che non era l'alba e lo caricò mezzo addormentato in groppa all'asino, dietro di lui. In campagna Anzichu diventava un'altra persona, era felice di stare solo con gli alberi e la terra da coltivare. Insegnò a Nughavi a potare l'ulivo,  a riconoscere il vento che agitava la loro vallata e dargli il nome. Gli insegnò a capire il momento esatto in cui i primi, timidi fili di grano, bucavano la terra e, simili a erba comune, si affacciavano al cielo. Gli insegnò a valutarne, fin da quel primo momento, la qualità e la consistenza e a prevedere gli esiti della mietitura. Nughavi faceva domande che stupivano il padre, gli chiese se era possibile alternare le coltivazioni e Anzichu gli rispose felice che questo era normale, che lui stesso alternava il grano con le fave, "due anni grano e un anno fave", gli disse e Nughavi ripeteva contento: "due anni grano e un anno fave". Anzichu lo amava, lo vedeva simile a lui, gli era facile insegnare al figlio e Nughavi apprendeva con facilità. Anzichu lo lasciava spesso libero di correre per la campagna e quando, una volta tornò spaventato,  gli insegnò a non aver paura dell'avvoltoio; gli disse che il suo aspetto non corrispondeva alla sua indole; gli disse che l'avvoltoio non attacca i vivi, ma li lascia tranquilli, aspetta la loro morte e poi pulisce la terra. Disse al figlio di diffidare dell'aquila e della poiana, che sono animali belli, ma infidi. Anzichu fece costruire una piccola roncola per il figlio e, quando venne giugno, lo mise in mezzo agli altri uomini a mietere il grano. La sera, quando  tornavano a casa, Nughavi si addormentava sulle grandi spalle del padre, il dondolio dell' andatura dell'asino, accoglieva la stanchezza del bambino che era. 

   Nughavi però, nascondeva in sè un doppio aspetto della personalità che si andava formando, la vicinanza col padre, che ammirava come un eroe, lo inorgogliva. Gli piaceva osservarlo mentre lavorava, come buttava le olive dentro i sacchi di juta neri di terra. Gli piaceva vederlo contrattare col padrone del frantoio e poi fare la guardia, perchè non lo truffassero con il ricavato di olio. Nughavi amava immensamente il padre e forse, o proprio per questo, disprezzava la madre, a cui dava impunemente del "tu", cosa che non avrebbe mai fatto col padre a cui dava correttamente del "voi". La sua doppia indole lo portava a violenze gratuite, che perpetrava contro piccoli animali innocenti a cui infliggeva i supplizi più crudeli e questo era l'unico aspetto che Anzichu non riusciva a correggere del proprio figlio. Lo lasciava fare, convinto che col crescere sarebbe cambiato, ma quando vedeva Nughavi strappare le zampette agli insetti che teneva prigionieri tra  due dita, non ci vedeva dalla rabbia e gli scaricava addosso tanti schiaffi da lasciarlo per terra come morto. Aisentha lo raccoglieva e gli sussurrava piano "ssh, non è niente, ma lascia in pace quei poveri animaletti". Nughavi non piangeva, ma capiva che nel padre c'era una doppia indole, esattamente come in lui e la cosa pareva, stranamente, dargli piacere. Tutto questo si manifestò già all'età di due anni. Nughavi vide la pancia della mamma crescere tesa e rotonda come quella di un cocomero, gli piaceva toccarla con la mano. La mamma lo carezzava e lui tornava contento ai suoi giochi. Uccideva lucertole e cadelanas e acchiappava cavallette che le portava in dono. Si divertì meno quando, un giorno, al posto della pancia gonfia, sentì uno strillo forte, che non era il suo, provenire dalla camera dei genitori. Il padre gli mostrò un topo bagnato con gli occhietti chiusi, come quelli che uccideva a sassate, e quello fu il suo primo istinto nel vederlo. La voce del padre gli disse che il topo si chiamava Ghelanu e che ora aveva un fratellino con cui giocare al posto dei piccoli animali che torturava nelle maniere più fantasiose prima di ucciderli. Aveva da poco compiuto i tre anni e comprese in un lampo che era appena sceso di un gradino. Nughavi se ne stette immobile ad osservare la bestiolina che agitava le sue gambette e la sua bocca si increspò in un sorriso aspro quando si ricordò dove il padre aveva nascosto la fionda, che gli aveva sequestrato qualche giorno prima. 

 
 
 
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