Creato da alex.canu il 28/01/2012

alessandro canu

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FRAGILE: Mi ami?

Post n°95 pubblicato il 17 Agosto 2012 da alex.canu

 

    “Mi a-mi?” disse, con un tono secco e deciso, bloccando il mio corpo sopra il suo aggrappato come un ragno. Come!?, feci io, sorpreso, facendo finta di non aver capito bene la sua semplice domanda. Tu mi a-mi? ripetè, staccando innaturalmente la a dalla sillaba seguente e allontanando il mio petto da lei con le palme delle mani. Percepivo i suoi occhi cercarmi interrogativamente nella penombra della stanza e da quel momento sentii i miei fuggire in ogni direzione.

     Cercavo di colmare la mia ignoranza riguardo alla musica classica frequentando quanti più concerti possibile, in quel periodo ne davano tanti, di ottimo livello e soprattutto gratuiti. La incontrai ad uno di questi, nell’aula magna dell’ospedale dell’isola tiberina a Roma. In programma la fantasia in re min. K 397 di Wolfgang Amadeus Mozart. Sull’autobus che percorreva il lungotevere notai una ragazza con i capelli biondi e un grosso zaino messo a terra che sorvegliava tenendoselo accostato al piede. Era gennaio e nonostante la temperatura fosse molto bassa portava delle scarpe da ginnastica che erano di una misura inusuale per essere di una femmina. Scendemmo insieme alla stessa fermata e la lasciai andare un poco avanti per osservarla meglio. Si caricò il suo pesante fardello e proseguì a passo svelto sul marciapiede nella mia stessa direzione. Attraversammo il ponte Cestio ed entrammo nella sala barocca del Fatabenefratelli, dove si sarebbe tenuto il concerto. Lei si guardò attorno e prese posto due file avanti a me, dispose lo zaino sotto il sedile e, per tutta l’ora del concerto, battè discretamente il tempo tamburellando sul suo forte ginocchio, dando l’impressione che conoscesse la fantasia di Mozart molto bene. Io invece estrassi dalla mia piccola tracolla matita e blocco di carta e, lasciandomi trasportare dal pianoforte, ritrassi il maestro con i capelli che si infiammavano, le sue mani sulla tastiera come radici nodose e le statue barocche degli angeli, di marmo e stucco, che si sporgevano pericolosamente nel vuoto, sopra l’altare maggiore. Alla fine del concerto applaudimmo e chiedemmo insistentemente un bis che venne prontamente concesso. 

    Usciti dalla sala del concerto ripercorremmo la breve salita che porta al ponte Cestio per raggiungere la fermata dell’autobus, ma stavolta fu lei a tenersi qualche passo dietro di me. Sentivo il rumore delle sue grosse scarpe battere il tempo sui sampietrini del ponte, poi mi raggiunse, ma anzichè sorpassarmi rallentò la marcia camminandomi al fianco per una decina di metri. Io la tenevo d’occhio discretamente senza però rivolgerle la parola, la sua insistente vicinanza mi metteva in imbarazzo. Visto che io non prendevo l’iniziativa fu lei a dirmi improvvisamente, ti è piaciuto il concerto? Come? dissi, stupito per la sua domanda così diretta e anche per guadagnare tempo. Non eri tu che stafi al concerto di Mozart? mi ripetè, precisando meglio la domanda. Si certo, Mozart, molto bello vero? e il pianista era davvero bravo con quelle sue lunghe dita. Lunghe dita? disse lei sorpresa, non ho notato, ma si, era molto bravo e veramente buono il suo esecuzione. Buona, la corressi, si dice buona la sua esecuzione. Ah, crazie! disse lei. Io osservavo le sue scarpe da ginnastica e intanto mi domandavo cosa dovesse contenere lo zaino perchè fosse così gonfio, doveva pesare davvero tanto.

     Mi chiamo Eva disse allungandomi la mano, io le dissi il mio nome e sorridemmo e finchè non raggiungemmo la fermata dell’autobus fu tutto. Doveva raggiungere la stazione della metropolitana Piramide, mi informò, abitava fuori Roma dove aveva preso una stanza in un appartamento in affitto. Io le proposi di accompagnarla e mi parve contenta di questa mia iniziativa. Entrati dentro la stazione ci mettemmo seduti ad aspettare il suo treno e incominciammo a parlare del concerto, poi mi chiese che genere di disegni stessi facendo durante l’esecuzione della fantasia di Mozart. Stafi disegnando vero? mi disse, e io le domandai come aveva fatto ad accorgersene, visto che aveva passato tutto il tempo a tamburellare sul suo ginocchio. Non ti ho mai visto girarti, osservai, come fai a sapere che disegnavo? Mistero, disse lei rivolgendomi un sorriso malizioso. Da bambina ho studiato flauto, mi disse, ricordo quei momenti con molta felicità, Bach mi emozionafa tanto e ho molto rispetto per lui. 

     Si trovava a Roma da pochi mesi, mi disse e ci rimarrò per un anno intero, tenne ad informarmi, per specializzarmi in archeologia. Mi sono laureata a Freiburg e ho ottenuto una borsa di studio per l’Italia della durata di un anno. Intanto molti treni passavano, ma non sembravamo accorgercene e lei non accennava ad alzarsi. Mi piaceva stare seduto in quella panchina ad ascoltarla, l’ora tarda della notte aveva diradato i passeggeri e eravamo le uniche persone li dentro. E tu, cosa fai? mi chiese col suo forte accento tedesco. Studio arte, le dissi con scarsa convinzione, come se fosse un punto a mio sfavore. A lei invece parve piacerle molto, mi chiese se poteva vedere i disegni che avevo fatto durante il concerto e quando, sfogliando il quaderno, vide un suo ritratto di spalle, lo osservò perplessa e in silenzio voltò pagina. Si alzò e disse che quello sarebbe stato il suo ultimo treno, mi scrisse il suo numero di telefono su un bigliettino di carta, raccolse il suo zaino e sono convinto che se l’avessi baciata in quel momento non avrebbe detto di no, ma non lo feci, fu lei a darmi un rapido bacio sulla guancia. La guardavo e mi piaceva, piedi enormi e tutto, non volevo correre rischi inutili, sapevo che ci saremmo visti tante altre volte ancora. Da quella volta iniziammo a frequentarci con una certa assiduità. Andavamo ai musei, la accompagnavo a vedere ponti e acquedotti romani, visitavamo mostre di arte contemporanea, dove rimanevamo stupiti per la libertà raggiunta dagli artisti e di cui non comprendevamo quasi niente. Ascoltammo tanta musica, gratuitamente, a volte si portava il suo flauto traverso a casa mia e, mentre io disegnavo, lei suonava Bach, con i piedi scalzi perchè, diceva, sentiva meglio il passaggio della musica lungo il suo corpo. Un giorno, tranquillamente, la baciai e lei mi sorrise.

    Qualche tempo prima di conoscere Eva avevo frequentato con alterne fortune una ragazza che mi teneva continuamente sulle spine, lei era innamorata di un uomo sposato che viveva a Milano e che vedeva un paio di volte all’anno. Mi ero convinto, chissà perchè, di essere innamorato di lei, ma da quando conobbi Eva non la frequentavo ormai quasi più e lei pareva non soffrirne affatto. Mi distaccai dalla ragazza problematica e divenni più aperto e sereno. Eva mi presentava i suoi amici tedeschi e imparai da loro che esiste una linea netta che separa l’impegno nel lavoro dai momenti di relax e di divertimento. Sapevano organizzare delle feste a cui si imbucavano tutti e che non finivano mai. Ci divertivamo molto e mi piaceva tanto stare con loro, imparai un po’ di parolacce in tedesco e loro impararono le parole impronunciabili della mia lingua d’origine, come sempre si fa.

     Una sera che organizzavamo una cena a casa mia disse che si sarebbe trattenuta a dormire. Avremmo finito molto tardi, mi fece notare, e a quell’ora era meglio non avventurarsi con i mezzi notturni fuori Roma. Mi parve opportuno, per salvare le apparenze, offrirle un passaggio, ma come mi aspettavo rifiutò, ho teciso ke stanotte rimarrò a tormire qvà, disse con un sorriso dolcissimo. Jawohl, risposi scattando militarmente sull’attenti e portandomi una mano alla visiera. Quando tutti gli amici se ne andarono rimanemmo soli, in silenzio, sparecchiammo e mettemmo tutto in ordine, con cura. Misi i piatti e i bicchieri dentro il lavello della cucina e iniziai a far scorrere l’acqua calda, quando lei si avvicinò e mi disse, tutto qvesto domani, insieme. Entrai in bagno per lavarmi i denti e spensi le luci mentre lei entrava a sua volta portandosi dentro il suo pesante e misteriosissimo zaino. Vi rimase per un tempo che mi parve infinito, sentivo l’acqua della doccia scorrere e lei cantare discretamente qualcosa. Io mi ero già infilato sotto le coperte e l’aspettavo con impazienza quando finalmente spense la luce del bagno facendo piombare la casa nel buio più completo. Il profilo del suo corpo si disegnò fugacemente sui fori delle tapparelle alla finestra che davano sulla strada, poi sollevò la coperta e mi stordì col suo profumo di fresco. Si distese accanto e l’abbracciai forte, ansimava per la leggera corsa a piedi scalzi dal bagno fin li e aveva ancora dei ciuffi di capelli bagnati. La sua pelle era liscia, ma notai con sorpresa che le sue gambe non erano depilate, glielo dissi e lei rise dicendo con facile ironia che, "le donne italiane sono troppo belle". Provai un certo imbarazzo sulle prime, al buio mi sembrava di stare a letto con un amico se non fosse stato per il suo seno che premeva contro di me, poi mi ci abituai e la cosa non mi diede più fastidio. Mi baciò a lungo sugli occhi e sulle labbra e mi sussurrava parole nella sua lingua di ferro che non potevo capire. Mi stuzzicava a proposito della mia statura, così inferiore alla sua, chiamandomi dolcemente, uomo-piccolo, oppure, uomo-strano. Scivolò lentamente sotto di me e io a quel punto afferrai l’orlo delle sue mutandine e cominciai a sfilargliele. Lei si fermò per un attimo, come sorpresa da quel gesto, come se non si aspettasse tanta intraprendenza da parte mia, poi inarcò la schiena permettendomi di levargliele del tutto. A quel punto però, come se quel semplice atto avesse innescato automaticamente una reazione inaspettata mi chiese, tu mi a-mi? e lo disse con un tono di voce preoccupato per la possibile risposta negativa. Cosa dici? le chiesi, emergendo dal tepore rassicurante del suo corpo, non ancora sicuro di ciò che avevo appena sentito. Mai mi aveva posto questa domanda, così precisa e diretta, tagliente nella sua semplicità. Pose la domanda in modo da avere altrettanta schiettezza nella mia risposta che si aspettava immediata e istintiva. Non chiedeva spiegazioni, non voleva discorsi inopportuni, esigeva solamente un si o un no, una sola sillaba, asciutta e lapidaria, nient’altro. Ammetto che non ero pronto a rispondere ad una domanda di quel genere, non in quel modo e con l’immediatezza che lei richiedeva. Ci conoscevamo ancora da così troppo poco tempo, sapevo che fra non molto lei sarebbe andata via e avevo un pezzo dei miei pensieri ancora legati all’altra, quella con l’amante sposato e milanese, non credevo che lei desiderasse già una relazione stabile e definitiva. Tu mi-a-mi? insistette lei allontanando da se il mio corpo con le mani, mentre questo le premeva contro, testardamente, con ogni centimetro quadrato di pelle disponibile. Ero irritato da questa richiesta inopportuna, posta in maniera così definitiva e perentoria. Ero pronto con ogni cellula del mio corpo, con ogni energia di cui disponevo a fare l’amore con lei. Mi ero preparato da settimane a questo momento, ad essere dolce, attento ai suoi ritmi, a capire i suoi  tempi, a lasciarmi andare all’istinto, a esercitare quella tenera violenza che caratterizza ogni primo rapporto sessuale di ogni coppia del mondo, ma non ero preparato a rispondere a quella semplice domanda, mi a-mi? Scelsi allora di essere sincero, altrettanto naturale e spontaneo come era lei e le risposi, non lo so ancora, fermando il mio ventre che spingeva testardo contro il suo. Eva allora si sporse verso la piccola luce accanto al letto e l’accese, privandoci del buio complice e ambiguo, mi guardò intensamente e mi disse, lo sai o non lo sai? Avrei potuto dirle, si ti amo tantissimo e spegnere finalmente quel cazzo di lampadina che mi bruciava gli occhi e scopare tutta la notte felice e beato. In quel momento sentivo di amarla davvero tanto, ma capivo che la sua domanda andava oltre quel momento, che pure lei aveva aspettato tanto. La sua breve domanda però si proiettava ben oltre la nostra piacevole serata, riguardava i giorni e i mesi a seguire, forse lei pensava addirittura ad un futuro da condividere insieme. Troppo per un piccolo uomo come me, abituato a rubare l’amore, ad essere lupo, a non concepire il domani che come prolungamento dell’oggi. Troppo poco per una come lei abituata alla chiarezza e alle linee parallele degli scavi archeologici che tagliano il tempo in grosse fette di ventimila anni.  Invece io spinsi fino in fondo il pedale della mia sincerità miope, contingente, e con un tono di voce sfilacciato, appena venato di colpevolezza esalai un, non lo so, ancora non lo so, perdonami. Eva si spinse fuori dal letto, andò in bagno dove rimase per qualche minuto, poi rientrò vestita con le mutandine e una canottiera leggera  di lana che le avevo visto indosso altre volte. Scostò di nuovo la coperta e con un sorriso mi si sdraiò accanto sporgendosi ancora a spegnere la luce. Aspettai qualche secondo e poi la abbracciai ancora mettendoci quanta più tenerezza potevo per farle sentire il mio calore, convinto che tutto fosse risolto. Lei si voltò verso di me e mi diede un bacio, piccolo e definitivo. Possiamo essere dei buoni amici, disse, voltandosi immediatamente dopo verso il muro. Il suo corpo accanto al mio odorava di buono e io mi struggevo dal desiderio di toccarla e stavo male. Avrei voluto urlare, tutto il mio corpo stava già urlando, peli, unghie, ginocchia, dita, gomiti, naso e orecchie, tutto era in rivolta, sentivo il suo respiro e annusavo il suo profumo. Mi avvicinai al suo orecchio e piano, dolcemente le sussurrai, Eva, ich liebe dich auch, con un tono da tedesco di cartolina illustrata, calcando sulle ultime sillabe aspirate perchè dessero alla dichiarazione  quel tono di verità che la potesse stupire e farle cambiare atteggiamento. Ma forse esagerai il registro patetico perchè lei, con un tono da lettera commerciale, mi rispose in perfetto italiano, tormi ora. E per quella notte fu tutto. Un auto mise in moto, fece manovra e le luci dei fari disegnarono sul soffitto e sulle pareti un film fatto di forellini illuminati, poi si allontanò perdendo il rumore del suo motore un po‘ più lontano.    

 

 
 
 
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