Creato da alex.canu il 28/01/2012

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FRAGILE: Storia di Antonia

Post n°96 pubblicato il 27 Agosto 2012 da alex.canu

 

 

    Questa è la storia della mia amica Antonia. Quando l'ho conosciuta viveva in un ospizio, aveva ottantasette anni, ma era straordinariamente lucida e dolce. La sua acuta intelligenza la rendeva curiosa dei miei studi e quando le chiesi di raccontarmi la sua storia non oppose alcuna resistenza. Doveva essere certamente una donna molto bella e questa è la sua storia, così come me l'ha raccontata lei stessa. Diceva, scusandosi, che non avrebbe trovato le parole per dire quello che aveva passato, diceva che avrebbe pianto e che si sarebbe vergognata. La invitai ad iniziare e le dissi che non doveva preoccuparsi della luce rossa del piccolo registratore che avevo messo sul tavolo. Mise due bicchieri di acqua fresca, ne bevve un sorso, trasse un respiro profondo e iniziò.

   “La prima volta è stato dopo appena un mese che eravamo sposati, mi disse che lui era contento di me, che era molto innamorato, ma doveva partire e questo lo avrebbe tenuto lontano per qualche tempo. Fece tutto un giro lungo di parole, mi disse che mi amava, di stare tranquilla, che non mi dovevo preoccupare. Poi senza che me lo aspettassi, improvvisamente, mi afferrò dietro il collo e mi fece scivolare in ginocchio premendomi con le mani sulle spalle e costringendomi a scendere lungo il suo corpo. Ci misi un po' a capire le sue intenzioni, ma non ero preparata a una richiesta così pressante. Non che non mi andasse, tante volte avevo fantasticato, vergognandomi di me stessa, su quel che si provasse a prendere il “coso” di lui in bocca, (ride imbarazzata). Tante donne lo fanno e quando siamo sole ne parliamo tra di noi e ridiamo. La curiosità è tanta e anche quel ribrezzo iniziale è più una resistenza psicologica, come un'ultima barriera di pudore che non si vorrebbe abbattere, perché è un arrendersi completamente all'uomo, consegnarsi definitivamente a lui, allargare le gambe è molto più facile che aprire la bocca. Le donne più grandi ci dicevano che agli uomini questa cosa qua li fa impazzire, escono fuori dalla ragione e dalla grazia di dio. Vanno via di testa, ci dicevano, la loro curiosità verso le donne è tutta concentrata li. Ci avevo fantasticato non so quante volte, avevo anche fatto delle prove, da sola con un..., (abbassa la testa vergognandosi e con le mani imita, con imbarazzo, la forma di un frutto). In certi momenti ero quasi decisa a prendere io l'iniziativa, ma non quella sera, non ero pronta. No gli dissi, lasciami, può venire qualcuno, la porta è solo accostata, ma lui si era eccitato, spingeva e mi chiamava troia, non l'aveva mai fatto. La sua voce era un rantolo, mi premeva forte sulle spalle, ma io non mi abbassavo, non volevo dargliela vinta, non volevo che accadesse così. Era una delle cose ancora proibite che mi eccitavano, ma non doveva essere così, non in questo modo. Lui mi assestò un ceffone in piena faccia e mi disse, scendi giù, cazzo di un dio! (Si ferma un attimo, si fa il segno della croce e volta il capo dall'altra parte. Mi fa cenno di spegnere il registratore, ma poi ci ripensa e mi dice, no proseguiamo). Lo schiaffo mi stordì, feci per reagire, ma lui mi afferrò per i capelli costringendomi ad abbassarmi. Se ne venne d'improvviso, senza che me ne potessi rendere conto, sentii il suo membro irrigidirsi come in un ultimo spasimo, poi un fiotto caldo, dolciastro, inondarmi la gola. Feci per sfuggire e sputare, ma lui mi pressava la testa sui suoi pantaloni strofinandomi ancora il suo sesso sulla bocca. Quando ebbe finito si mise a ridere, pareva che non si dovesse fermare più. Si tirò su i calzoni e mi chiese scusa per lo schiaffo. Io mi sciacquai la bocca nel lavandino e osservai la guancia arrossata nello specchio, strano non ce l'avevo con lui, non mi sentivo arrabbiata. Lui continuava a ridere e mi disse, vieni qui e io gli andai accanto, lasciandomi ancora abbracciare. Se mi tradisci ti ammazzo, gli dissi, prima di cacciargli la lingua in bocca”.

   “Con la nascita dei gemelli le cose sembravano andare piuttosto bene, lavorava dove capitava, cantieri ne stavano aprendo tanti, ma doveva spostarsi sempre più spesso e per tempi sempre più lunghi. A volte stava via tutta la settimana e tornava il sabato con la sacca grande che si portava dietro, piena di roba da lavare. Portava sempre qualcosa, per i bambini, che avevano ormai quasi cinque anni. Portava qualcosa anche per me, niente di particolare, un pensiero, lo chiamava lui e infatti quasi sempre era solo quello. Un giorno però mi portò due pendenti di oro e corallo, aspettò che i bambini fossero andati a letto e poi, mentre in bagno mi preparavo per andare a dormire, mi venne dietro. Lo vidi riflesso sullo specchio e notai come un'increspatura a margine della sua bocca, come un sorriso che mi gelò il sangue. Mi bloccai e attesi, lui mise le mani in tasca e tirò fuori i due orecchini che brillarono indecisi alla luce della lampadina. Non capii subito che cos’erano, ma la luce dei suoi occhi era accesa e illuminava il suo volto, felice come quello di un ragazzino. Che cosa sono? gli chiesi inquieta. Lui se ne stava con le mani alzate all’altezza della testa, tenendo sollevati i due gioielli, guardandomi negli occhi attraverso lo specchio, poi si chinò piano e mi cercò i due buchi negli orecchi, passò la punta della lingua prima su un lobo poi sull’altro e, delicatamente, infilò dentro i due gancetti d’oro. Mi guardò e rise impacciato, soddisfatto di quel che vedeva. Ti stanno bene, disse, hai i capelli neri e la pelle bianca, il tuo profilo è da regina, l’oro e il corallo sono degni di te, disse. Infilò le mani sotto le mie ascelle e mi sollevò di peso, protestai dicendo che i bambini erano appena andati a dormire e potevano essere ancora svegli. Mi sollevò e mi slacciò il reggiseno lasciandolo cadere a terra, no, no, supplicai, andiamo di la, chiudiamo la porta, ma lui aveva preso a massaggiare i miei seni e i capezzoli mio malgrado si inturgidirono, lui lo interpretò probabilmente come un segnale di assenso, ma io non volevo, giuro, non volevo. Mi tirò su i capelli dal collo e afferratolo me lo premette contro lo specchio, mi ritrovai così con un lato del viso schiacciato contro il vetro e con l’altra metà rivolto verso la porta. Mise le mani sui miei fianchi e tirò forte verso di se, la mia cavalla, diceva, la mia vacca da latte, fai muh, mi disse ridendo eccitato. Si fece largo con un ginocchio e mi frugò con la mano, mi divincolai e lui mi morse la schiena, affondò i suoi denti e ve li tenne conficcati fino a che io non mi fermai, arresa. Mi entrò da dietro e spinse facendomi male. Afferrò i due orecchini come se fossero due briglie e mi ripeté, nitrisci puttana, fai muh, vacca... (piange e si torce le dita). No, dicevo a bassa voce, non svegliare i bambini, fai muh, troia, gridò lui. Quando il maschio comparve improvvisamente sulla porta del bagno e chiamò, mamma, mi vide che facevo muuh, muuh, con la guancia schiacciata sullo specchio e suo padre che gli urlava, vai a letto, vai a letto cazzo! Il bambino se la fece addosso, vidi la pipì che dalle gambe colava sul pavimento, fuggì via e lui mi strappò un orecchino facendomi sanguinare. Mi girò con uno strattone verso di se e mi alzò un pugno in faccia, trattenendolo in aria tremante e indeciso e quella sera fu l’ultima cosa che vidi. Il giorno dopo giurò che il dente mi si era rotto battendo la bocca sul bordo del lavandino mentre cadevo, disse che anche il livido sullo zigomo me l’ero fatto così, me ne convinsi anche io”. 

   (Nella registrazione si sente una lunga pausa, il rumore del bicchiere sollevato dal tavolo e poi vuotato, ancora il bicchiere posato con delicatezza. Se vuoi smettiamo qua mi sento dire. Quanto tempo abbiamo ancora? dice lei soffiandosi il naso, tutto il tempo che vuoi, le dico io).

   “Mi chiamava stupida, diceva che ero tonta, prima ero una regina, poi sono diventata semplicemente, la scema. Lo diceva anche con i ragazzi, dov’è quella stupida di vostra madre? avete visto quella scema della mamma? Io non sapevo leggere, ne scrivere bene, avevo frequentato la scuola fino alla terza elementare, alle femmine non era richiesto che sapessero leggere o scrivere bene. Passavo tutto il mio tempo a preparare la lana, cardarla, filarla e tingerla. Poi la mettevo nei grossi rocchi, tiravo i fili per ore con la femmina, quindi iniziavo a tessere con grandi colpi di pettine. Il mio lavoro, per mesi, per anni è stato quello. La mia vita è trascorsa seduta su una sedia in quell’unico punto del mondo. Aveva ragione lui, ero stupida e ne ero cosciente, lui me l'aveva dimostrato, me ne aveva pienamente convinto, senza faticare troppo, con qualche pugno e molti schiaffi. Diceva che gli stupidi comprendono meglio le cose con qualche buon ceffone. Quando entrava a casa un po‘ ubriaco con degli amici mi gridava, ehi scema vai a prendere il formaggio e il vino e, mentre li sentivo ridere, mi arrampicavo in alto sulla credenza dove, avvolto nella carta oleata, teneva il formaggio coi vermi. Lo portavo in tavola e me ne andavo subito via. Non rimane tua moglie con noi? dicevano gli amici ridendo. No è tonta e non capisce le cose di cui parliamo, diceva lui”.

   (le tengo la mano rugosa mentre parla e le chiedo se non vuole fermarsi qui. Mi fa cenno di si e mi chiede se sono disponibile a proseguire un altro giorno. Ci diamo appuntamento per la settimana successiva e quando torno la trovo straordinariamente tranquilla e disponibile. L'infermiera mi fa cenno di non affaticarla troppo, rispondo con un cenno di assenso e riaccendo il registratore, la lucina rossa la attrae e la spinge a riprendere il suo racconto).

   “Quando quel giorno, al lavoro, cadde dall’impalcatura, non morì subito, (riprese a raccontare), rimase a letto all’ospedale senza poter muovere neppure un dito. Gli davo da mangiare, lo lavavo con delicatezza, gli accendevo e gli spegnevo la luce, gli leggevo perfino alcune notizie dal giornale. Quando lo portammo a casa gli feci trovare il televisore nuovo. I dottori dissero che non sarebbe riuscito più a camminare, che lo dovevamo tenere seduto in una carrozzina con le ruote. Quelli del sindacato riuscirono a fargli avere un risarcimento per l’incidente e la pensione per tutta la vita. Dissero che eravamo fortunati, che dopo che lui fosse morto, con la reversibilità io non avrei avuto problemi e, con i figli che crescono, la scuola, le tasse da pagare, non mi sarei più dovuta preoccupare di niente. Lo devi solo spingere, mi dissero, ogni tanto portarlo fuori a prendere una boccata d'aria e un po‘ di luce, tutto qui. Come una pianta? dissi io, si proprio come una piantina mi dissero loro. Lo lavai, lo imboccai, spinsi la sua carrozzina, gli cambiavo gli unici tre canali della nostra televisione, un’altra, nuova, a colori. Quando morì, lo piansi, come una scema. Prima che chiudessero la bara gli sussurrai, muuh, all’orecchio, e dentro vi lasciai cadere i due orecchini di oro e di corallo che, da quella volta, non avevo mai più indossato. Poche ore dopo che i muratori suoi amici hanno messo l'ultimo mattone, chiudendo definitivamente la sua tomba, è iniziata la mia morte, la mia vera prigione, senza di lui”.

   La luce rossa continuava a lampeggiare, ma lei si interruppe, riprendendo un pianto sommesso che era iniziato chissà quanti anni prima. Il suo racconto si concluse li e non lo volle più riprendere. Che ci farai con questa cosa? Mi chiese. Niente è per la mia tesi all'università, le risposi, sto facendo una ricerca sul campo sulle società in transizione tra due epoche economiche e culturali, ma non credo che utilizzerò mai questo materiale. Per anni ho conservato questa registrazione, solo adesso che Antonia è morta e i figli sono cresciuti e lontani, impegnati in chissà quali carriere, mi decido a trascriverla.

 

 

 

 
 
 
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