Creato da alex.canu il 28/01/2012

alessandro canu

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FRAGILE: Storia di Monica S.

Post n°98 pubblicato il 29 Agosto 2012 da alex.canu

 

 

 

   Ho conosciuto una  bella signora una volta, si chiama Monica S. è tedesca suo malgrado. Ha un figlio che si chiama Atahualpa, come l’ultimo grande re Inca, morto drammaticamente, convertito al cristianesimo suo malgrado per non farsi bruciare vivo dalla pietà cristiana di don Vicente de Valverde, un monaco barbuto che gli ordinò di riconoscere l’autorità del re spagnolo. Atahualpa, troppo orgoglioso, rifiutò e allora don Vicente disse a Pizarro che non c’era niente da fare e lo strangolarono con alcuni giri di garrota. Per gli abitanti nativi dell’Ecuador il nome Atahualpa è sacro come i fiumi e come l’aria che respirano. Monica, stanca della sua tranquilla vita tedesca, inquieta come tutte le donne che scoprono troppo presto la loro imbarazzante bellezza, partì per l’Ecuador, per un viaggio alla scoperta di se stessa e li trovò quello che cercava, povertà, miseria, amore, contraddizioni che lasciavano inconcluse e vuote le mille discussioni sulla loro risoluzione. Trovò un uomo con i capelli neri, lunghi e lucenti, con lo sguardo e le spalle di un guerriero Inca e perse la sua bella testa bionda europea. Il suo guerriero la convinse che la modernità, le luci, l’acqua corrente, la televisione, erano il dono velenoso di quell’antico e crudele frate che aveva sconfitto Atahualpa in modo così vile. Le disse che il suo popolo sarebbe tornato a camminare sulla via della luce che gli europei avevano drammaticamente oscurato, ma non spento del tutto. Il giovane guerriero accompagnava le sue parole con sguardi e carezze e Monica aveva bisogno degli uni e delle altre. Se lo immaginò con un copricapo di piume colorate, nudo di bronzo, lo sentì parlare la sua lingua quechua, misteriosa e seducente e accettò di seguirlo in una misera baracca lontana dalla città, si accontentò di un letto basso con un materasso di foglie. Si adattò a portare l’acqua dalla fonte con un recipiente di alluminio, sopportò i mosquitos e gli escarabajos numerosi, diventò paziente col suo uomo, che allontanava con futili motivazioni il giorno della liberazione del suo popolo e un giorno, suo malgrado, gli diede un erede, un giovane principe, scuro di pelle, con i capelli nerissimi, lontano anni luce dalla sua carnagione pallida, che chiamarono Atahualpa. Proprio così, come il famoso ultimo re Inca. Monica dovette partorire nella sua povera baracca, così era delle fiere donne di quell’antico paese, si dovette portare l’acqua dalla fonte e scaldarsela da sola. Il giovane guerriero Inca, privo delle preoccupazioni di ogni suo coetaneo che doveva mettersi in fila per pagare le bollette dell’acqua, della corrente elettrica, fare rifornimento di carburante, andare al supermercato a fare la spesa, passava le sue giornate a sfruttare il senso di colpa generazionale della sua bionda conquistadora.

   Bionda conquistadora, che un giorno prese il piccolo niño e lo portò in gran fretta al più vicino aeroporto dove un grosso uccello d’acciaio, gomma e vetro aveva già il suo muso puntato verso l’altra parte del mondo, dove acqua corrente ed elettricità erano una cosa considerata normale. Monica Seiffart prese il minuscolo re e lo allontanò dal suo inetto guerriero di carta stagnola. Non atterrò a Monaco il suo uccello di fuoco, non ebbe coraggio la mia bella amica di ritornare subito in famiglia. Aveva paura, mi disse, che non sarebbe riuscita a ricordare la sua lingua madre e avrebbe potuto commettere l’errore di spiegarsi in lingua quechua. I suoi genitori non avrebbero capito, molte cose non avevano capito in precedenza, non poteva correre il rischio di sbagliare anche stavolta. Stavolta c’era un piccolo principe da trasformare in un bambino come tutti gli altri. Il suo aereo atterrò a Roma e in quella città neutrale cercò una stanza, ne trovò una a casa mia e da quel momento ascoltai gli incredibili racconti che questa donna mi faceva. Talvolta portavo Atahualpa con me a lavoro, per lasciare che la sua nobile regina trovasse un impiego per pagarsi l’affitto della stanza. Io lavoravo, mio malgrado, con una compagnia di giovani attori, guidati da un regista con pretese di genialità, una cosa triste, ora me ne rendo conto. Atahualpa mi aiutava a martellare le cantinelle ai grandi fogli di compensato da mezzo centimetro. Preparava le colle e sapeva passare il fondo bianco su cui avremmo disteso un soffice manto di grosse nuvole bianche. Si tagliò un dito con un coltello affilato e ne uscì sangue scuro del colore dell’amarena. Lo portammo all’ospedale e non emise neanche un gemito, i dottori se ne meravigliarono e quando gli chiesero il nome lui disse inorgogliendosi, Atahualpa! 
   Una domenica pomeriggio Monica mi chiese se volevo accompagnarli a fare una passeggiata, io le dissi che ne sarei stato molto onorato, ma li avvertii che anch’io discendevo da un antico principe coraggioso e sfortunato che si chiamava Josto e che visse ben mille anni prima del loro prode Atahualpa. Camminavamo tenendo entrambi il bambino per mano e la mia bella regina tedesca mi disse in lingua castigliana, mira, parecemos una normal familia feliz. Non ho più rivisto Monica, Atahualpa adesso deve essere un uomo grande, perduto in chissà quale angolo del mondo. Spero che abbia la corrente elettrica e un rubinetto per l’acqua calda.

 
 
 
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