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alessandro canu

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FRAGILE: LE MANI DI MIO PADRE -

Post n°99 pubblicato il 20 Settembre 2012 da alex.canu

 


     Lo dico senza vergogna, senza nessun pudore: ho odiato mio padre. L'ho odiato come si può odiare un tumore che ti annienta e non ti lascia vivere, come un morbo maligno che ti succhia la vita, come una cancrena ad una gamba che ti devono tagliare perchè non ti uccida, e dopo che te la sei amputata, ti lascia zoppo a barcollare senza equilibrio. L'ho odiato come si odia una galera che ti leva il respiro e ti soffoca con la sua aria chiusa e malata. L'avrei voluto veder morire, aggredito da un male terribile e incurabile, avrei voluto spingerlo giù in fondo ad un baratro, l'avrei strozzato con le mie mani di bambino. Sognavo di schiacciarlo, tagliarlo a pezzi, squarciargli il petto e mangiargli il cuore, rompergli le ossa con una mazza di ferro, chiudergli la bocca e il naso con le mie mani, vederlo soffocare senza più aria nei polmoni. Desideravo osservarlo mentre lentamente se ne moriva, crocifiggerlo con chiodi e spine e appenderlo a sinistra di cristo. Ma quando è morto per davvero, dopo il primo momento di euforico disorientamento, ho sentito subito un gran vuoto che mi assaliva e un odore di aria fetida che non mi avrebbe abbandonato mai più. La sua morte improvvisa mi ammutolì, quella presenza ingombrante, ossessiva, quell'ostacolo che avevo ritenuto eterno e insormontabile non esisteva più e adesso, cosa avrei fatto? Mi resi conto fin da subito che la sua improvvisa assenza era peggio di qualsiasi altra cosa. Da vivo potevo tenere sotto controllo il mostro che mi portavo dentro, si rifletteva in lui e aveva un volto riconoscibile e domestico, persino rassicurante e familiare. Adesso me lo ritrovo negli angoli letali del ricordo, negli anfratti bui della sua assenza dalla mia quotidianità. Mi salta addosso improvvisamente nei momenti di solitudine e di abbandono. Piango e lo chiamo per nome, implorandolo di ritornare, di concedermi ancora un bis della sua onnivora cattiveria. Sarei perfino disponibile a lasciarmi prendere ancora a calci e pugni come faceva nei suoi momenti di rabbia cieca e improvvisa, supplicandolo di non lasciarmi da solo a fare i conti col mio odio saturo e inutile.

   Due giorni dopo natale le sue giá gravi condizioni, causate da una emiparesi che gli aveva paralizzato tutta la parte sinistra del corpo, peggiorarono improvvisamente e fummo costretti a  portarlo all'ospedale dove gli prestarono il primo soccorso, ma si capì fin da subito che stavolta era più grave del previsto. Decidemmo chi di noi sarebbe dovuto rimanere con lui la prima notte e, senza pensarci su, mi offersi io convinto che liberandomi del primo turno mi sarei anche liberato del fastidio di dovergli stare accanto. Non avevo fatto i conti con gli effetti della sofferenza, ma ero giovane e le cose mi apparivano allora sempre chiare, nette nel loro essere di due soli colori, il nero che era il fondo perenne della mia rabbia e del risentimento che covavo e il bianco, metafora lucida del vuoto e dello smarrimento totale nel quale costantemente conducevo la mia esistenza. Appena arrivato in ospedale mi assegnarono una sedia, un infermiere mi sorrise per comunicarmi il senso di impotenza della medicina e mi disse che lo avrei potuto chiamare a qualsiasi ora della notte, starò sempre qui vicino nei paraggi, non mi disturberá affatto, mi disse e se ne andò. Non appena mi misi seduto sulla sedia di metallo verniciata a smalto mi accorsi che mio padre soffriva realmente, era agitato da chissà quali visioni e fantasmi e nella bocca contratta dalla paresi vi leggevo il terrore della morte ormai prossima. Quando sarò morto gettatemi nell'immondezzaio, amava ripetere con un particolare tono della voce e con un sorriso coraggioso e sprezzante, che tradiva lo sconcerto per l'inutilità di ogni esistenza umana. Era arrivato alla conclusione filosofica che la vita degli uomini non vale più di quella degli animali e forse per questo si confermò nella teoria che bastonare i propri figli era cosa che non avrebbe lasciato traccia nella vita futura dell'aldilà; se un aldilà non esiste, non esiste punizione. Era laicamente convinto di ciò. I bambini andavano educati come le bestie innocenti con le quali aveva perennemente a che fare. Quelle piccole bestiole non oppongono resistenza, non si sanno difendere, non comprendono la brutalitá e sopratutto stanno zitti.

Durante la notte le sue condizioni peggiorarono, chiedeva balbettando qualcosa che io non ero in grado di comprendere, la sua mezza bocca chiusa impediva alle parole di zampillare fuori chiare e intelligibili e si affaticava a cercare di farsi capire. Non era di acqua che aveva bisogno, ne di aria, che di quella ne aveva consumata abbastanza, cercava la mia mano, la cercava a tastoni nelle pieghe che la coperta invernale dell'ospedale formava nel suo letto devastato dal dolore. La vedevo nella penombra della luce della notte, quel moncone incerto cercava me, ma io non soccorsi la sua angoscia e lasciai che la sua mano vagasse sulla coperta come giuda nel deserto. Mi ricordavo, osservandola, di tutte le volte che si era levata per punirci di colpe che non comprendevamo, per chiudere la porta e lasciare fuori mia madre, per lanciarci un oggetto, per minacciarci, per ferirci. Quella era stata la mano che si alzò su di me, piccolo, perchè non sapevo reggergli il sacco quando lui ci buttava dentro le olive che avevamo raccolto inginocchiati per terra. Si alzò brutale quando bisbigliai qualcosa all'orecchio di mia madre perchè lui non potesse sentire l'innocente richiesta che le rivolgevo, si alzò contro me e mio fratello quando ci sorprese a giocare con le carte pur avendocelo proibito. Quella stessa mano che adesso grattava disperata la coperta dell'ospedale si levò dura e spietata quando mi punì per essermi arrampicato su una vetrina per nascondermi, mentre con altri bambini giocavo a guardie e ladri, si levò per lasciarmi steso sul pavimento quando mi chiuse dentro casa e non gli ubbidii, si levò per frustarci quando lo disturbammo durante il riposo del pomeriggio. La mano arida che ora brancolava tremante, nel buio appena rischiarato dalla luce oscena dell'ospedale delle tre di notte si volse contro di me, quando il mio tono di voce nel rispondergli non corrispondeva alle sue aspettative, si volse ancora quando sceglievo a tavola la frutta migliore, si volse ancora di più quando non ubbidivo prontamente ai suoi ordini, quando mi scaglió addosso un tegame con l'olio bollente, si volse per queste e per mille altre ragioni. Quella mano si alzò nuda, armata di bastone, di nerbo di bue, di verga d'ulivo, di cinghia dei pantaloni usata dalla parte della fibbia di metallo; si levò chiusa a pugno contro di me, contro i miei fratelli e sorelle, contro mia madre, perfino contro le sue stesse bestie che lo servivano al lavoro, armata di coltello contro gli agnelli con i quali giocavamo, per sgozzarli a pasqua. Mani che sollevarono una grossa pietra per scagliarla in testa alla sua asina, rea di avergli disubbidito. Eppure quella era la stessa mano che tagliava il pane e il formaggio a tavola, la medesima mano che potava con amorevole tenerezza la vite e gli alberi di ulivo, che versava il vino rosso agli amici. Quella stessa che scriveva delle poesie su un vecchio quaderno con la copertina verde, che scherzava sui capelli dei primi nipotini o dei bambini altrui che incontrava per la strada. La mano medesima che mi toccava la fronte quando scottavo di febbre e la sentivo fresca e rassicurante. La febbre stessa si allontanava allora vinta dal tocco taumaturgico delle sue dita di cuoio e acqua santa. 

Quando, ormai morto, lo vidi immobile, inoffensivo ed impotente, dentro la bara dove l'avevano composto, fu praticamente l'unica parte del suo corpo che catturò ancora la mia attenzione, non il viso duro di cera fredda, non la benda che gli avevano legato per impedire alla mascella di cadere, non il completo grigio antiquato, due taglie piú grandi, col quale lo avevano sommariamente rivestito e la camicia bianca, senza cravatta, abbottonata fino all'ultima asola. Rividi le sue mani, incrociate appena sopra la cinta dei pantaloni, stringere un innocuo rosario di plastica fosforescente che avrebbe continuato a brillare ancora per chissà quanto tempo dopo la chiusura della bara, come l'estremo lume per accompagnarlo nelle terre desolate di caronte, l'ultimo tocco di glamour cristiano. Le vidi quelle mani, ancora abbronzate da settant'anni di campagna e non riuscivo più a staccarne lo sguardo, mi aspettavo che si muovessero rapide da un momento all'altro, sorprendendo la morte stessa che se lo stava trascinando via con grande fatica. Possibile che era tutto finito così, senza alcuna possibilità di vendetta, da un momento all'altro, lasciandomi orfano della rabbia e del risentimento? Se la sarebbe cavata ancora a buon mercato, con una uscita di scena in tono minore, con una morte dimessa, quasi in sordina, da ultimo della classe? Sparì in un lampo dalla nostra casa, dalla nostra vita deflagrata. Se ne andò ad abitare al cimitero con gli altri morti come lui, perdonato dal corteo funebre del prete suo amico di bevute. Salvato in extremis dal corteo funebre delle donne che piangono a comando, prefiche a buon mercato, a un tanto a lacrima, con una messinscena di dolore standard, uguale e allo stesso modo, per tutti i morti paganti. Fintamente ignare di quello che tutti sapevano.

Adesso che è passato così tanto tempo e nessuno mi picchia più, oggi che nessuno osa alzare la mano su di me, talvolta mi osservo tagliare il pane a tavola. Compiere quelle azioni quotidiane piccole ed innocenti, come sbucciare una mela o preparare i libri e gli appunti per la lezione del giorno dopo. Succede che mi vedo puntare il dito contro il mio unico figlio, quando lo sgrido e ritrovo nel suo sguardo terrorizzato per i miei improvvisi scatti di rabbia, lo stesso terrore cieco che provavo io allora. Mi fermo in tempo con la mano sollevata in aria, stretta in un pugno, ancora incredulo per quello che stavo per fare. Sento il suo sangue scorrermi velenoso dentro le vene e pervadermi il corpo e intossicarmi l'anima. Ascolto stupito le parole dure che escono dalla mia bocca, quando rovescio bile impotente addosso a mia moglie. Adesso osservo le mie dita magre correre rapide sulla tastiera del computer, così simili alle sue. La stessa identica forma, la stessa durezza, lo stesso colore scuro della pelle, le stesse vene rialzate sul dorso, così identiche nella forma e nel disegno alle sue. Osservo tutto questo e ne ho paura. Paura. Perfino il suono della mia voce sta prendendo i toni cupi che erano suoi. Padre, penso in questi momenti, quando è stata l'ultima volta che ti ho seppellito? Non eri vissuto abbastanza, non eri definitivamente uscito di scena? Non era tuo quel cadavere ridicolo? o sono morto quel giorno anch'io insieme a te ?

 

 
 
 
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