Creato da alex.canu il 28/01/2012

alessandro canu

arte, racconti, idee

 

 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 8

Post n°49 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

Thank you

 

 

"If the sun refuse to shine, 

I would still be loving you. 

When mountains crumble to the sea, 

there will still be you 'n' me"

 

“Se il sole si rifiutasse di splendere, io continuerei ad amarti.

Quando le montagne crolleranno nel mare, io e te ci saremo ancora.”

   Conosco con precisione assoluta questa prima parte della canzone, ma la seconda strofa non mi viene, d'altra parte ricordare le parole di tutte le canzoni non è facile. Riuscii a trovare i testi di Led Zeppelin Due, non facevo altro che mettere il disco e seguire la voce di Robert Plant. Li leggevo e li imparavo a memoria, assorbendo anche una discreta pronuncia inglese. Davo una mano a Robert mentre cantava e, quando in certi momenti la sua voce andava un po’ troppo su con gli acuti, lo sostenevo con la mia. Aiutavo John Bonham alla batteria, quando lo vedevo un po’ spompato e giù d’allenamento. Battevo sulla sedia di legno o sul tavolo in cucina, oppure mi percuotevo il petto, per avere suoni più cupi e profondi. Per Jimmy Page non c’era problema, la sua chitarra era sempre perfetta. Il basso di John Paul Johnes lo rinforzavo con dei du-dum, du-dum... molto efficaci che gli davano spessore e grinta. Insomma ero io il quinto dei Led Zeppelin, il misterioso personaggio di cui tutte le cronache musicali parlavano, ma che era avvolto da un fitto mistero. “Rolling Stones”, la prestigiosa rivista di musica rock, spese un capitale, ma nessuno ebbe mai la fortuna di trovare le mie tracce. Non rilasciavo interviste, comparivo nei concerti vestito totalmente di nero, celandomi nell’ombra. Invisibile a tutti, tranne ai quattro componenti della band che mi cercavano sempre con la coda dell’occhio nei momenti di maggiore tensione emotiva. Ebbene si, il quinto elemento, la colonna dorica, la stella polare del gruppo ero io. Nella foto di copertina dell’album, (e ora rivelerò il terzo segreto di Fatima), sono io quello che Robert Plant cinge con il suo braccio sinistro. Sono sempre io che in Stairway to heaven bisbiglio la parola lived, (devil), all’incontrario. Non mi rivelavo, niente ragazzine adoranti, niente flash di fotografi, ma l’anima di tutto ero io. Suonavano solo quando volevo io, a tutte le ore del giorno e appena mi stancavo o altri impegni mi distraevano, zac, li facevo smettere all’istante, bastava semplicemente premere il pulsante rosso del giradischi. Conoscere a memoria tutti i testi delle canzoni mi dava un potere enorme. Trovare i testi però non era facile.

Le possibilità si riducevano fondamentalmente a due, avere un amico che già ne era in possesso, oppure rubarli. La tecnica era semplice ed efficace. La chiamavamo “delle tre carte”. Cioè, due distraevano il proprietario del negozio, il terzo rubava, il più velocemente possibile, quanti più spartiti poteva infilare nel fondo dei calzoni. Facile. Entravamo nel negozio, quindi cominciavamo a sfogliare i dischi nel reparto novità. Ne estraevamo alcuni e fingevamo di chiedere dei chiarimenti al commesso. 

- Possiamo sentire, per cortesia, la seconda traccia di Kind of Blue, di Miles Davis?- Il terzo uomo individuava rapidamente quello che volevamo e cercava di prendere, quanto più velocemente possibile, il maggior numero di spartiti, i cappotti larghi erano perfetti. Compiuta l’operazione il terzo uomo usciva senza dare nell’occhio. In questa maniera mi ero procurato i testi del Secondo dei Led Zeppelin, ma anche quelli di tanti altri dischi. Quando Vallanzasca, mi propose questo sistema ci rimasi di sasso.

- Ma sei sconvolto? - gli dissi.

- Qual’è il problema, entriamo nei negozi e ci prendiamo quello che ci serve.

Fu lui a spiegarmi il sistema, fu con lui che ci andai la prima volta, e anche la seconda, e la terza. Quando mi accorsi di quanto era facile mi misi in proprio. Vigliani mi aprì un mondo e mi spiegò che si può rubare qualsiasi cosa dappertutto, basta volerlo.

- I negozianti sono tutti stupidi, - disse - non si accorgono di niente, se sei gentile e ben educato si fidano. Fino a ieri erano contadini, non conoscono neppure l’italiano. Minchia, aveva ragione lui, rubare non era per niente difficile! Entravi da qualche parte e ti portavi via esattamente quello che ti serviva e non c’era neanche bisogno di scomodarsi a dire grazie. Rubavo dove potevo, nei negozi di dischi, ai grandi magazzini, nelle piccole botteghe di generi alimentari, al bar, dal fruttivendolo, nelle boutique. Era una mania, anzi no, era diventata una moda, un gioco pericoloso per dimostrare innanzitutto a se stessi di essere capaci di farlo. Era la reazione violenta dell’anticorpo che si opponeva ad anni di buoni consigli dati dai genitori, era la risposta ai Salve Regina e ai ceffoni dei preti nelle sacrestie. Rubai persino nella cartoleria Fodianu, la più cara e la più sorvegliata di tutta la città. Il vecchio si vantava di avere delle persone che la tenevano costantemente sott’occhio, ingenuo! Gli sfilai sotto al naso una confezione intera di compassi Kern. Gli rubai un kit completo per rapidografi. Mi portai via squadrette, goniometri, curvilinei, righe da 50, 60 e 80 cm. gli avrei portato via anche i calzini. Una volta che il freddo era intenso e si faceva sentire entrai alla UPIM con l’intento innocente di ingannare il tempo, nell’attesa che si facesse l’ora in cui Grazia sarebbe uscita dalla lezione di canto che frequentava. Mi immersi nel reparto abbigliamento, toccavo calzini, apprezzavo maglioncini in lana, controllavo il collo delle camicie, bighellonavo. Quando vidi un paio di jeans rossi a tubo me ne innamorai subito. Non amo particolarmente il colore rosso nell’abbigliamento maschile, quel pantalone però aveva qualcosa che mi affascinava, mi colpì particolarmente per la carica eversiva che emanava, per quel rosso particolare, brillante e sfacciato. Lo staccai dalla stampella ed entrai nel camerino per provarlo. L’immagine che mi propose lo specchio mi piaque. Sbirciai il cartellino del prezzo, un furto! Veramente qualsiasi prezzo sarebbe stato troppo alto in quel momento, perchè nelle tasche avevo solo i soldi del biglietto dell’autobus per tornare a casa. 

   Mi riguardai allo specchio, non male proprio, mi facevano sembrare un gran figo. “Perchè no”, dissi a me stesso. Decisi in un attimo, tenni i pantaloni rossi sotto e mi infilai quelli vecchi sopra, feci un po’ di fatica, ma alla fine riuscii a tirare su la zip della lampo, scostai la tendina e uscii fuori. Mi guardai ancora allo specchio, assunsi un’espressione imbronciata, finsi di avere una sigaretta fra le dita, quel rosso mi dava un’aria nuova. Mi diressi verso le casse e uscii dal lato dei clienti senza spesa. Passai davanti alla guardia giurata che era impegnata a discutere con una signora con troppe buste. Tutto filò liscio e uscii fuori camminando con le gambe larghe come il pupazzetto Michelin. Quando Grazia arrivò e mi vide camminare in quella maniera mi chiese cosa mi fosse successo. La pregai di seguirmi e ci dirigemmo verso un vicoletto buio la vicino. Trovammo un portone aperto e ci infilammo dentro.

- Ehi, ehi, che intenzioni hai?- mi disse. Sbottonai il giubbotto, tirai su il maglione e misi mano alla chiusura lampo.

- Ma che fai?- disse, - sei scemo?

- Zitta e guarda, - le dissi io.

Mi tirai giù i pantaloni e lei cacciò un mezzo strillo. Vide i jeans rossi sotto e mi disse: - E questi?

- Li ho rubati poco fa ai grandi magazzini mentre ti aspettavo. Non sono belli?

Lei mi guardò ancora, aprì un pochino il portone ed esplose in una risata fragorosa. - Raccontami, - disse. Le raccontai tutto, mentre rideva e mi aiutava a sfilarmi i calzoni vecchi. Ridevamo, beati, orgogliosi di noi e dei nostri anni folli. Per quel gusto aspro che ha la vita, quando i denti con cui la mordi sono quelli che ti appartengono per nascita.

   Talvolta ci inventavamo una festa da qualche parte, qualsiasi posto andava bene. La voce si spargeva in un lampo e arrivava sempre il doppio delle persone che avevamo invitato. Allora bisognava dar da bere e da mangiare a tutta quella brava gente, e siccome il giochino dei pani e dei pesci aveva già il copyright e l’idea non si poteva più riciclare, optavamo più prosaicamente per una “spesa-a-modo-nostro” nei grandi magazzini più abbordabili. Ci organizzavamo per gruppi di due o tre, dividendoci gli incarichi. Un gruppo comprava le bibite, un’altro gli affettati, il pane, eccetera. Pagavamo regolarmente alle casse e, una volta usciti, svuotavamo tutto dentro il portabagagli dell’auto con cui eravamo arrivati e, con le stesse buste e gli stessi scontrini, rientravamo dentro il supermercato per una nuova spesa, esattamente identica alla prima, stavolta però, senza ripassare dalle casse. Riuscivamo fuori, scaricavamo in macchina e ritornavamo alla carica, questo per più e più volte. Nel reparto dischi della Standa rubai “Are you experienced ?”, di Jimy Hendrix e dentro quel long playing vi trovai  “Hey Joe”. Ascoltavo questo blues in modo ossessivo, da malato. Finiva e lo rimettevo, mi ipnotizzava, l’avrei potuto ascoltare all’infinito. Ma non rubavo solo dischi, in un negozietto di articoli da regalo vidi un carillon che girava portandosi dietro tutto un gruppo di uccellini gialli. Aveva una musichetta  che piaceva tanto ad una ragazza e lei piaceva a me. Si era fermata davanti a quella vetrina e guardava incantata quel cazzo di carillon che continuava a girare. - Ti prego entriamo.- Mi disse. Entrammo e lei caricò non so quante volte la molla. Quello cantava sempre, pilin, pilin, pilon, pilin.

- Che amore, che bello!- Sospirava lei. Glielo regalai per natale. Rubai anche calzini, mutande, guanti di lana di poco prezzo. Mi appropriai indebitamente di un coltellino a serramanico, di una infinità di lamette da barba, profumi al patchouli, penne e matite di varia durezza. Rubai oggetti utili e mille altre cose che sapevo che non mi sarebbero mai servite. Mia madre mi odiava!

    "Little drops of rain whisper of the pain. 

The tears of loves' lost in the days gone by" 

         Canticchiavo questa canzone, una mattina fredda di tramontana gelida che staccava la pelle dalle ossa quando, arrivato in prossimità della scuola, Tonuccio Dettori mi prende da parte e mi dice:

- Senti un po’ Grigio, alcuni di noi stamattina non entrano. - Mi indicò un gruppetto di ragazzi poco più in la, intirizziti dal freddo pure loro,

- Ti va di venire con noi? Ce ne andiamo nella saletta di Baldo, giù alle Conce, ci portiamo qualcosa da bere e un po’ di dischi.

- Quanti siamo? - Gli chiesi con aria complice.

- Con te otto, quattro e quattro, ci stai?

Ci stavo eccome! Angela Marongiu, la prof. di matematica aveva un debole per i numeri bassi nel registro, recentemente me ne aveva regalato uno e non avevo proprio intenzione di dargli un fratellino. La signora Marongiu vestiva come un domatore di circo e mi ripeteva sempre: - qui la matematica non entrerà mai! - mentre mi picchiava con l’indice sui capelli arruffati. Lo scantinato di Baldo stava giù alle Conce, nel quartiere più popolare della città, fatto di viuzze strette, vicoli ciechi, gente che strilla. All’ultimo momento però, una delle ragazze cambiò idea e decise di entrare a scuola. Ci ritrovammo così in sette, tre ragazze e quattro ragazzi. Tra loro c’era Rossana, una ragazza arrivata da poco. Ogni volta che mi capitava di parlarci mi si drizzavano i capelli in testa. Non che fosse particolarmente carina, ma aveva un modo di ridere e di passarsi la lingua tra i denti che mi metteva in agitazione. La chiamavamo “la Quarta T.” per via del suo seno generoso che metteva allegria anche solo a guardarlo da lontano. Una volta mentre parlavamo  muoveva meccanicamente la cerniera della chiusura lampo del maglioncino che indossava. Un gesto semplice, come un tic nervoso e inconsapevole. Riuscivo ad intravvedere a intervalli rapidi e regolari il bianco della spallina del suo reggiseno, nient’altro. L’immagine di lei che muoveva la cerniera della lampo però mi rimase impressa nella mente e non la dimenticai più. Ogni volta che la vedevo sorridere in quel suo modo particolare mi ricordavo di quel gesto e mi veniva uno struggimento che non saprei proprio come definire. Allora dicevo, eravamo rimasti in sette, tre ragazze e quattro ragazzi e ce ne stavamo andando dentro questo scantinato. Ci portammo un po’ di dischi e, dopo qualche minuto che eravamo li a cazzeggiare, iniziò il gioco della bottiglia, poi qualcuno si alzò e mise su un disco, si spensero alcune luci e cominciammo a darci da fare. Hey tonight dei Credence, Nutbush di Ike e Tina Turner, pezzi svelti e ben ritmati riscaldarono l’atmosfera. Poi iniziò il giro dei lenti, ancora una serie di brani svelti e così via. L’atmosfera era muy caliente e Rossana rideva mostrando i suoi denti bianchissimi. A quel punto le luci si spensero quasi del tutto e attaccarono Samba pa ti di Carlos Santana, il brano più crudele che abbia mai sentito, i mariachi andavano sulle stelle a portare fino lassù quelle note strazianti da delitto passionale. Le ragazze continuavano ad essere solo tre, cercai  nella penombra il sorriso promettente di Roxane e, quando la individuai, mi avvicinai e la presi per un braccio. L’attirai dolcemente a me e le cinsi i fianchi. Lei posò le mani sulle mie spalle e lentamente, abbandonandoci al veleno della musica, cominciammo a dondolare. Samba pa ti inizia con una chitarra rauca, ma morbidissima, picchia sette note che ti fanno entrare in trance e poi entrano, rotonde e piene, le congas che aggiungono mistero e malìa. Avevo già anestetizzato Rossana con una marea di chiacchiere che la facevano ridere e mi sentivo particolarmente brillante e in forma. Percepivo, nel dolce dondolare della musica, i suoi seni schiacciati su di me e, mentre le parlavo di viaggi immaginari e di artisti maledetti, pensavo a quella chiusura lampo e a quelle spalline bianche intravviste qualche tempo prima. Le congas tenevano il ritmo e le spazzole graffiavano dolcemente la pelle del tamburo; la chitarra di Carlos vibrava note altissime e struggenti, un organo Hammond versava veleno su tutto il brano. Lo faceva penetrare lentamente, in profondità, annullando tutti i sensi di colpa residui che si potevano avere in occasioni come questa.

Il mio lavoro con i fianchi di Roxane era già a buon punto, lei continuava a sorridere a tutte le stupidaggini che le dicevo e io mi sentivo particolarmente sciolto. Poco prima che Samba pa ti giungesse al suo delirio finale le mie mani stavano più giù rispetto alle posizioni di partenza. Lei si teneva stretta a me, abbandonandosi con maggiore fiducia e la sentivo più rilassata. Potevo permettermi anche dei piccoli silenzi carichi di tensione. Finito quel pezzo e dopo un attimo di pausa qualcuno andò a cambiare disco e mise Thank you, la quarta traccia di led Zeppelin Due, forse il mio preferito. Inizia con una chitarra che preannuncia un suono di campane molto lontane che si inseguono e spazi infiniti che si aprono allo sguardo. E’ un brano lento, molto profondo, una canzone d’amore vero, perfetta per quel momento. Abbracciai Rossana, sicuro di quello che facevo e, dopo che le luci si furono spente del tutto, posai la mia fronte sulla sua, avvicinai la bocca al suo orecchio e le bisbigliai: “ Se il sole si rifiutasse di splendere, io continuerei ad amarti.

Quando le montagne crolleranno nel mare, io e te ci saremo ancora. Ti darò tutto me stesso. Niente di più “.

- Cos’è? - Sussurrò lei con curiosità.

- E’ quello che sta dicendo ora la canzone che stiamo ascoltando. -  Le dissi piano.

- La conosci a memoria? Cioè, conosci tutto il testo a memoria e lo sai anche tradurre? - Disse lei sorpresa.

- Certo, - le dissi, fingendo stupore - conosco tutto il disco a memoria.

- Ma com’è che hai cinque in inglese? Se ti sentisse il prof. non crederebbe alle sue orecchie

- Quello! Bell’inglese che ci insegna. Grammatica, grammatica e solo grammatica e quando ci fa fare un po’ di conversazione si chiamano tutti Mr. e Mrs. Brown e stanno a tavola come manichini:

- Possou have’e, pe’ co’tesia, si non distu’bou, una feta di paene imburatou?

-  Ce’tamentei si, puoi. Coume la pref’rishi, col burou vegetalei e con un pou di ma’melata di lampounii? 

- Pref’rirei have’re un to-ust se non ti distu’ba.

- Ma nientei afatou.

- Graziei.

- Pregou.

Roxane rideva, i suoi denti brillavano.

- Ma tu fai colazione così tutte le mattine? Qui in queste canzoni c’è l’inglese vero. Questi non sono Mr. e Mrs. Brown, questi sono i led Zeppelin e non si perdono in salamelecchi. I Led Zeppelin, li conosci no?

- Così, - rispose lei - li ho sentiti nominare, ma non ho mai ascoltato niente. Dove stavo prima non potevamo ascoltare tanta musica, le suore non ce lo permettevano.

- Ah, le suorei, - dissi.

 

   "And so today my world it smiles. 

Your hand in mine we walk the miles. 

But thanks to you it will be done. 

For you to me are the only one. 

Happiness, no more be sad. Happiness, I'm glad"

 

- Bello, ma che significa, lo sai?

 

   Oggi il mio mondo sorride. 

La tua mano nella mia, camminiamo per miglia. 

Ma grazie a te ciò sarà fatto. 

Per me sei l'unica.

Felicità, non più tristezza. Felicità, sono gioioso

 

- Questa è Thank you la quarta traccia del loro disco più bello, il Secondo. Io ce l’ho, cioè ce l’avevo, però mio fratello me l’ha rotto e adesso me lo devo ricomprare. Se vuoi però possiamo farci prestare questo, usciamo di qui che si muore dalla puzza di muffa e ce ne andiamo a sentircelo da qualche altra parte. Non lontano da qui... ehm, abita mia sorella, potremmo andare da lei. A quest’ora... non dev’essere in casa, sarà sicuramente al lavoro e... io ho le chiavi, se vuoi... Lei si staccò leggermente e stringendomi le mani sulle spalle disse: - Ma tu, non ti sei fidanzato con Grazia?

- Con Grazia? Beh, si, ma ci stiamo lasciando. Lei è troppo... tirata, troppi problemi per la testa. I genitori, non la lasciano uscire, la madre capisci, troppo oppressivi. Studia sempre, non pensa ad altro. Io, insomma...

- Ah, troppi problemi, studia sempre, è così?

- Sempre, non vede altro che i libri, libri la mattina, libri a pranzo e cena, matematica e italiano a merenda, latino per dolce, cose così.

- E tu a cos’altro stai pensando in questo momento?

- In questo momento, beh se per caso io e te... 

 

"Se il sole si rifiutasse di splendere, 

io continuerei ad amarti.

Quando le montagne crolleranno nel mare, 

io e te ci saremo ancora" 

 

   Le stavo soffiando all’orecchio le ultime strofe della canzone dei Led, quando mi sentii picchiare leggermente alle spalle, Tonuccio mi voleva dire qualcosa in privato.

- Scusami, - le dissi - torno subito.

Mi staccai da Rossana e raggiunsi Tonuccio poco più in là e gli dissi: 

- Ma che vuoi, proprio adesso che stavo per...

- Senti un po’, - mi disse - servirebbe da bere e da mangiare, perchè non vai a rimediare qualcosa come sai fare tu?

- Proprio adesso, stavo ballando con Rossana, non l’hai vista?

- Proprio adesso, vai, vai piccola Katy.

Non si poteva dire di no ad uno come Tonuccio, una montagna d’uomo, tutto muscoli e fronte bassa, un metro e ottanta di carne macinata, metteva paura solo a guardarlo. Che fare? Tornai da Rossana, la abbracciai un attimo e le dissi che dovevo andare a prendere qualcosa da bere, ma  sarei tornato prima della fine del prossimo brano. Mi staccai con riluttanza dal tepore che emanava la sua camicetta e dopo aver cercato a tastoni il mio cappotto, mi attrezzai per risalire le scale e affrontare il mondo dei vivi. Pensai che Rossana non si sarebbe raffreddata nel breve tempo che sarei stato via. Tornai dopo quasi un’ora, la faccenda era stata più complicata del solito. Ai grandi magazzini a quell’ora del mattino c’era ancora poca gente e quindi bisognava essere più cauti per non farsi beccare. Tornai indietro quasi di corsa e scesi le scale dello scantinato col cuore in gola. Le bottiglie tintinnavano dentro le buste. Arrivato giù, un odore di fumo greve misto alla muffa mi arrivò alle narici, come cazzo facevamo a stare rinchiusi li dentro senza morire soffocati? Nessuno spiraglio di luce filtrava dalle fessure della porta. Bussai e attesi col cuore che mi batteva forte. Bussai ancora, ma nessuno venne ad aprire, uno strano presentimento mi assalì. Bussai ancora e ancora, senza alcun risultato. Mi decisi a chiamare Tonuccio. Chiamai anche Rossana: - Tonuccioo, Rossanaa...- niente, nessuno veniva ad aprire. Sentii il giradischi attaccare Child in time, dei Deep Purple, la canzone più bella di tutta la storia del rock. Mi aggrappai alla porta e chiamai ancora ad alta voce:- Tonucciooo, Rossanaaa, - bussai forte, ma  inutilmente. Alzarono ancora di più il volume della musica, Ian Gillan strillava forte la sua canzone contro tutte le guerre del mondo. Sarei voluto essere la dentro, stringere Rossana fra le braccia. Avrei voluto sentire i suoi due proiettili puntati dritti sul mio petto.

- Tonucciooo, gran figlio di quella bagassa di tua madre, apri questa porta di merda, fammi entrare. Ho qui le bottiglie, il vino, l’aranciata, c’è pure il chinotto. Ho da mangiare, Roxane, pane e qualche dolce, ho preso un tiramisù niente male. Aprimi Rossanaaa, puttana che non sei altra. A chi ti stai appiccicando adesso? 

   Le bottiglie continuavano a sbattere le une con le altre, pensavo ai seni di lei e mi veniva da piangere. Risalii le scale e a metà mi trattenni ancora, mi voltai indietro se, alle volte. Poi raggiunsi l’uscita, mi tirai su il bavero del cappotto, faceva un freddo becco quel giorno, com’è che non me n’ero accorto prima?  Pensai ai miei compagni al calduccio in classe, pensai alla scusa che avrei inventato per la giustificazione da scrivere sul libretto. Guardai il sacchetto pieno di roba da mangiare: 

- Un signor tiramisù, minchia! E adesso che ci faccio con tutta questa roba, chi se lo beve lo spumante? Mica me lo posso portare a casa. Uscii per strada con la busta penzoloni e mi diressi verso i giardini pubblici. Mi sedetti su una panchina, poggiai a terra la busta e infilai le mani dentro le tasche. Mi strinsi nel cappotto e incominciai a canticchiare:

“If the sun refuse to shine, I would still be lovin' you. 

Mountains crumble to the sea, 

there will still be you an' me...” 

- E poi, qual’è la canzone che viene dopo? Ah! Heartbreaker, bella! 

   Rimasi un po’ così, seduto sulla panchina a gelarmi i piedi. Osservavo la gente che passava, andavano tutti di fretta. Pensavo al caldo della saletta dove ballavano, ora tre e tre finalmente. Stronzi, vatti a fidare degli amici. Pensavo alle luci basse, alla musica, alle tette di Rossana... 

Frugai in una busta e vi trovai una lattina di chinotto, la stappai e ne bevvi una sorsata, - mica male - pensai. Somigliava alla Coca-cola, più amara, però.

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 9

Post n°48 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

Me la pagherai

 

 

   Devo andare all’ufficio postale stamattina. Ho ricevuto una cartolina di  avviso, pare che ci sia qualcosa per me. Spero solo che non sia un’altra multa per eccesso di velocità. Dante avrebbe dovuto prevedere una sezione dell’inferno apposta per l’autovelox. L’impiegata mi consegna una busta gialla con le bollicine dentro. C’è il mio indirizzo, manca però il mittente. Salgo in macchina e strappo la carta, dentro trovo un dvd e un biglietto. Mi si apre una voragine nello stomaco. Metto in moto e riparto. Arrivato a casa infilo il dischetto nel lettore e devo attendere solo pochi secondi prima che le immagini sgranate arrivino sullo schermo. Le riprese sono mosse, si vede una spiaggia, il mare e, più lontano, delle dune con una macchia mediterranea molto fitta. Non capisco subito dove queste immagini siano state girate, ma poi, nel campo della super otto, entrano all’orizzonte delle ciminiere ad anelli bianchi e rossi e successivamente, sulla stessa spiaggia, si vedono dei casotti in legno. A questo punto inizio ad agitarmi e penso: - Non è possibile! Non può essere.

 La macchina inquadra un ragazzo molto giovane che taglia obliquamente lo schermo del televisore. Ha bretelle blu tirate sul dorso nudo e asciutto e un paio di jeans scoloriti dentro le cui tasche affonda le mani fino ai polsi.  Il ragazzo sorride e parla rivolto all’operatore, ma non si riesce a capire cosa dice perchè manca il sonoro. Il ragazzo con un movimento rapido lotta e conquista la videocamera. La situazione si ribalta e ora è lui che riprende la ragazza. Alcune sequenze mostrano il cielo e il mare con le dune rovesciate, movimenti bruschi impediscono una inquadratura stabile. Successivamente si vede una ragazza che si protegge il volto con una mano, mentre con l’altra tenta di allontanare la videocamera. Grazia ride e fugge lungo la spiaggia deserta, io la inseguo, le immagini sono molto mosse. Lei si lascia cadere a terra e mi lancia una manciata di sabbia sulle gambe. Protende le braccia in un gesto che vorrebbe essere di protezione, ma anche di invito. Sorride maliziosamente mentre le avvicino la macchina e le riprendo la bocca, i seni e il sesso nascosto dal costume da bagno. Per un attimo ancora i suoi piedi scalciano e le sue mani danno degli schiaffi all’operatore, ride. Qui le riprese si interrompono, ma dopo qualche secondo riprendono mostrando Grazia accovacciata sulla sabbia. Mi avvicino per farle un primo piano, ma il suo volto non è più allegro come prima, anzi mostra segni di fastidio e allontana la macchina con un gesto brusco della mano. Osserva il mare con un sorriso amaro e prende dei sassolini da lanciare. I capelli mossi dal vento le nascondono il viso e lei li scosta dalla bocca con dei gesti rapidi della mano. Copre ripetutamente la macchina e prima di voltarsi definitivamente fissa l’obiettivo e pronuncia una breve frase. Come ho già detto manca il sonoro, per cui rimando indietro il video e lo riguardo diverse volte cercando di decifrare il movimento delle labbra, mi pare che dica qualcosa come:- Me la pagherai. Dopo alcuni secondi di riprese indecifrabili compare un ragazzino. Indossa il grembiule nero della scuola elementare e porta uno zaino enorme, appeso alle spalle troppo piccole. Sorride e fa ciao con la mano.  Subito dopo un ragazzino con la testa piena di riccioli tenta di spegnere  sette candeline, ma non ci riesce. Un soffio più forte piega le fiammelle spegnendole, il bambino guarda fuori campo e sembra contrariato. Provo tenerezza per quella innocente frustrazione. Altra dissolvenza ed ecco un ragazzo, dall’apparente età di 12 o 13 anni, chino sui libri, la penna infilata dentro la bocca, ride e  la lancia contro chi lo disturba. Il breve filmato si interrompe qui. Il sorriso di quel ragazzo ha qualcosa di familiare e, per la prima volta, avverto la sensazione del terreno che mi frana sotto i piedi. Dentro la busta raccolgo il biglietto che Grazia ha scritto e leggo:

“La gente parla di come mi hai lasciato.

Non mi importa di quello che dicono.

So dove vanno a parare certe stronzate.

Una cosa mi dà da pensare.

Se puoi spiegarmela, per favore fallo:

perchè mi chiami con il nome di un altra

quando provo a fare l'amore con te?”

 

                                   (Heartbreaker)

- Non avere paura, non voglio niente da te.  

Grazia

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 10 (I. parte)

Post n°47 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

Heartbreaker  (I. parte)

 

 

   Il Lato A si spegne lentamente con un misterioso girovagare di tastiere che si dirigono verso lontananze estreme. Quando si crede che tutto sia finito e ci si accinge ad alzarsi per andare a girare il disco, ecco che Thank you riemerge da chissà quale abisso e porta con se ancora un ultimo sussulto di dolci malìe. Rimbalza dentro le casse per poi riallontanarsi e scomparire definitivamente con una nota alta, come una sentenza inappellabile. Lascia senza parole, con un leggero senso di disorientamento e si tarda ad accorgersi che il lato A è veramente finito. La puntina del giradischi fa crac sugli ultimi solchi, saluta, ringrazia, (Thank you!), e se ne torna, dopo un movimento all’indietro, elegante e sicuro, alla sua posizione di stallo, in attesa di nuovi eventi. Gratta anche nel nostro racconto, godiamoci il suo crac che diventa sempre più morbido e ovattato, man mano che si avvicina all’inizio del primo brano, della facciata B, del Secondo dei Led Zeppelin, Heartbreaker, Spezzacuori. 

Io e Grazia, pomeriggio tardi a casa di mia sorella.

   “ Hey fellas, have you heard the news?

You know that Annie's back in town? ”

   “ Ehi, ragazzi, avete sentito l'ultima? 

Sapete che Annie è tornata in città?”

   E’ come una liturgia che si ripete ogni volta con le stesse identiche modalità e con la stessa scansione temporale dei gesti. E’ come una religione che tutti i ragazzi che mettono su un disco, conoscono. Anche quelli che oggi si conficcano gli auricolari degli IPod nelle orecchie, scegliendosi da soli una musica per tenere sveglio il cervello. L'assolo di chitarra di Heartbreaker è uno dei più belli mai realizzati da Page ed è stato votato come uno dei più riusciti di tutti i tempi. Heartbreaker ha un riff che viene ripetuto per tutta la durata del brano e si interrompe bruscamente per lasciare spazio all’assolo di Page. Altrettanto bruscamente deve interrompersi per dare modo alla voce di Robert Plant di rientrare. Heartbreaker inizia con un potente giro di chitarra elettrica che ricorda qualcuno che voglia far ripartire un motore da 200 cavalli che non ne voglia sapere di riattivarsi. Questo sforzo immane si traduce in un riff che ti strappa dal divano, dalla sedia, dal muro dove ti sei momentaneamente appoggiato o dal bancone di un bar. Ti impedisce di concentrarti nello studio, nel lavoro o in qualsiasi altra cosa nella quale tu sia impegnato. - In qualsiasi posto ti trovi, Heartbreaker ti prende e ti sbatte dritto al centro della stanza, al centro di una piazza, di un bar e ti fa battere i piedi, muovere le braccia, agitare la testa, tirare fuori la lingua, chiudere e aprire rapidamente gli occhi. Ti fa ruotare il bacino a ritmo, lo senti? Batti i piedi, muovi le braccia, agita i tuoi capelli biondi. Lo senti? Il cuore ti si spezza, non riesci più a stare ferma, così, così... heartbreaker!- La tocco delicatamente sul petto dove c’è il cuore e le faccio sentire una leggera pressione della mano.

- Qui, così? - Dice lei.

- Si e poi ti muovi, prima piano, poi sempre più velocemente. 

Scuoti la testa su e giù, su e giù e quando il cantante grida, - Hey fellas, have you heard the news,-  lascia andare le braccia e le gambe dove vogliono loro, lascia il tuo corpo libero di esprimersi. Ti porti una mano alla bocca, come se stringessi un microfono e fai finta di cantare insieme a lui. Dai, prova!

- Ci sto provando.

- Che senti?

- Mi sento scema!

- Ma no, ancora. Qui, cosa senti veramente?

- Cosa dovrei sentire? Sento poco, non capisco niente del testo e il volume del giradischi è troppo alto, abbassalo un po’, tua sorella potrebbe tornare da un momento all’altro.

- Lascia stare il volume del giradischi, non mettertici anche tu con la storia del volume troppo alto. Concentrati, ci stavi quasi riuscendo. Quando fingi di afferrare il microfono e cantare dovresti sentire qualcosa qui, dove c’è il diaframma.

- Il diaframma? che cazzo dici? Ti stai esaltando, stai diventando come Vigliani a furia di ascoltare questa merda!

- Ascolta, non capisci, lei torna in città dopo un paio d’anni; ha fatto la puttana in giro per tutto questo tempo. Heartbreaker, spezzacuori vuol dire. Lui è innamorato pazzo, ma lei lo pianta e se ne va in città per trovare un lavoro migliore e invece finisce nei bordelli a fare la mignotta.

- Ma come parli? E’ veramente così volgare?

- Ma no, è simbolico, è il blues. Tutti i testi blues e rock hanno per sfondo temi di questo genere, il sesso, l’emarginazione, la rabbia, i doppi sensi allusivi, roba così. Lei lo ha lasciato e se n’è andata in città, ha fatto la bella vita tutto il tempo e adesso torna e la prima cosa che fa indovina qual’è?

- Che ne so!

- Va a cercare lui.

- Bella scema, la credevo più intelligente.

- Ha cambiato stile, capisci, ma la faccia è sempre quella, soltanto il suo sorriso è cambiato. Adesso ne ha uno più malizioso e ruffiano.

- Come il tuo? - Dice lei, con una punta velenosa.

- Che c’entro io? - Dico insospettito.

- Altrochè se c’entri. 

Deve sapere qualcosa per parlare in questo modo. Fingo di non cogliere il suo tono allusivo e proseguo.

- Dunque ti dicevo, la ragazza si rifà viva con lui, ma stavolta le cose non sembrano andare come lei aveva sperato, il suo fascino non funziona più e lui non si lascia incantare come le prime volte. Purtroppo però cede e, quando lei ottiene quello che voleva...

- Cos’è che voleva? Non l’ho ancora capito. Ha tutti gli uomini che vuole, lui è un po’ imbranato, come te, non capisco cos’altro voglia, denaro non ne ha, e allora?

- Forse era uno sfizio che voleva togliersi o forse aveva nostalgia dell’amore vero, quello disinteressato e puro di lui, che era rimasto ad aspettarla per tutti quegli anni.

- Ah ecco, uno sfizio, un gusto, così per gioco. Guarda un po’, questa canzone pare scritta apposta per te.

- Dai, prova vieni qua. Senti la chitarra, alzati, tirati su.

- No, non mi va e poi mi devi spiegare una cosa.

- Che c’è... spengo?

- Ma no, lascia che il diavolo dentro la chitarra di Jimmy vada avanti ancora un po’. Non mi avevi detto che dentro quella chitarra c’è il diavolo? Ha suonato anche l’altra mattina alle Conce? 

Il suo tono di voce si faceva sempre più sarcastico, bisognava stare attenti quando si comportava così. Mi avvicinai al giradischi e armeggiai un po’ con la manopola del volume mentre guadagnavo tempo prima di voltarmi ed affrontarla. 

- L’altra mattina, alle Conce?- Ha detto proprio così?

- Abbassalo ancora, - disse lei.

- Allora spengo.

- No, no, ma abbassalo ancora un pochino.

Heartbreaker andava avanti per inerzia. Il silenzio che si era creato anticipava quelle tempeste che stanno per esplodere, violente eppure necessarie. Lei mi fissava con le labbra serrate, io mi avvicinai e cercai di fare il disinvolto, l’abbracciai in modo goffo, come sempre tutte le volte che la vedevo arrabbiata  e cercai di dirottare il suo malumore. Qualche volta questa strategia riusciva, ma stavolta la situazione sembrava più seria. Lei si scostò con una strattonata seguita da uno sbuffo e si sedette su una sedia, guardò il pavimento e caricò la molla della sua rabbia. 

- Allora Grà, si può sapere che ti rode? E’ successo qualcosa?

- Che mi rode, Grì? Me lo chiedi? C’è che sei uno stronzo, un bugiardo, ecco quello che mi rode...

- Posso sapere che ho fatto stavolta?

Mi allontanai un poco per osservarla meglio e cercai di ricordare quale episodio poteva averla fatta arrabbiare ultimamente, ma, per quanto cercassi di spremere dal mio cervello ogni stilla di parola o di azione sospetta, non venne a galla niente che poteva averla offesa. Brancolavo  nel buio e continuai a non capire perchè ce l’avesse con me. Doveva esserci qualcos’altro sotto, a casa sua magari, problemi in famiglia, cose di questo genere, chissà! Mi riavvicinai e lei si diede un’aggiustata alla gonna. 

- Brutto segnale - pensai, - quando si alliscia la gonna o si mette nervosamente a posto le pieghe della camicetta significa che sta tramando qualcosa. 

- Allora non parli più Grà? Ce l’hai con me? Ho fatto qualcosa che ti ha fatto arrabbiare?

- Non hai fatto niente? - disse lei con aria di sfida. - Non fa mai niente lui. E’ innocente come un bambino, puro come un angioletto! Ipocrita bastardo!

- Ci siamo - pensai. Dopo una prima raffica di insulti arriverà al sodo e saprò realmente cosa le gira per il cervello. Smise di lisciarsi la gonna, la carica era partita. A questo punto qualsiasi cosa dica, regola numero uno, negare tutto, anche l’evidenza. Fatti concreti non può averne, qualsiasi cosa sia, può solo supporre. Già, ma supporre cosa? Di cosa mi accusava? Negare, comunque, sempre, mimica facciale improntata a stupore e incredulità.

- Non hai fatto niente, eh? Poverino, prova a pensarci un po’ su, non ti viene in mente niente?

- Che cosa mi dovrebbe venire in mente, che inizi a dare i numeri pure tu adesso. - Sapeva qualcosa, era troppo sicura di sè e me lo fece capire subito.

- E Rossana... Roxane? come la chiami, non ti dice nulla questo nome?

- Chi Rossana?... Ah, quella, la nuova arrivata, beh?

- Proprio quella, come la chiamate? “La Quarta T.”?

- E’ successo qualcosa? - finsi io con aria innocente.

- Sicuro che non hai niente da dirmi? - insistette lei minacciosa.

- Che devo dire, di chi? Non so di cosa parli, non so nulla io.

Lei si alzò e si diresse con decisione verso il giradischi, un brivido mi corse lungo la schiena. Per un attimo pensai che avrebbe preso il disco  fra le mani e lo avrebbe rotto in due pezzi, come fece mio fratello. Dev’essere il suo destino, pensai. Grazia invece prese la custodia e se la rigirò fra le mani fingendo di osservare la foto della copertina. Faceva sempre così, prima aggrediva, poneva la questione, accusava e poi taceva di colpo. Misurava l’effetto delle accuse, valutava la contro-reazione prima di decidere se affondare il coltello oppure no. 

- Negare, negare sempre. Questo suo modo di agire mi disarmava, la vedevo forte e fragile allo stesso tempo. Quel leggero margine di tempo che intercorse tra l’accusa e la mia reazione impacciata, quel silenzio che io non seppi spezzare in nessun modo, la convinsero di aver colto nel segno, e allora si fece coltello, tagliò e lacerò senza pietà. Pronunciò ogni parola con un sibilo, rivestendola di una crudele ironia che faceva male a lei per prima. Pronunciò ogni parola come se fosse una sentenza già emessa altrove, già formulata in precedenza. Bisognava proteggersi, alzare le braccia sulla testa e parare i colpi, sperando che facessero meno male possibile. Le parole di cui si serviva in questi momenti erano pesate con attenzione. Venivano pronunciate per fare quanto più male possibile ed arrivare dritte al bersaglio. 

- L’altra mattina non sei entrato a scuola. Mi avevi detto che era per via del compito di matematica, che te ne volevi stare da solo a casa a studiare.

- Infatti non sono entrato, ho saltato il compito e adesso quella se la legherà al dito sicuramente e mi farà un mazzo così la prossima volta.   Dissi questo voltandomi, per non guardarla in faccia.

- Certo, per saltare il compito l’hai saltato, ma non a casa tua come mi avevi fatto credere. Ho saputo invece che saltavi da un’altra parte e con un’altra persona.

- Che ho fatto? Sono stato tutta la mattinata in giro con Tonuccio, a prendere freddo. Era meglio se entravo sai. Pensa, ce n’eravamo andati in un baretto giù alla Conce per starcene un pochino al caldo e invece, a un certo punto, entra il prof. di storia, ci ha visti seduti  a un tavolino e invece di fare finta di niente si è avvicinato e ci ha fatto una piazzata, li davanti a tutti. Gridava come un pazzo, - Boia d’un Giuda - sai, come fa sempre anche a scuola, no? – Boia d’un Giuda, che fate qua, a scuola dovreste stare in questo momento! 

- Abbiamo fatto un fugone a precipizio senza pagare neppure i cappuccini che ci eravamo presi.

Quando devi mentire, fallo bene e inventati più particolari che puoi. Fai sembrare verità la menzogna, disorienta chi ti ascolta, non dargli tempo di replicare. Una menzogna detta bene è più vera di una verità detta male. Regola d’oro, ma non valeva minimamente con una persona come Grazia, soprattutto quando era arrabbiata. 

- Bugiardo, non è vero niente, ve ne siete andati giù in quello scantinato puzzolente di Baldo con altre ragazze e c’era pure quella che è venuta da poco “la quarta T.”. Ho capito perché la chiamate così, siete tutti uguali, tutti!

- Ma quale? – dissi con aria tonta.

- Quale? Rossana, giusto? Fingi di non conoscerla? T’ho visto come la guardavi.

- Ma che dici, come la guardavo, ci saremo parlati, si e no,  un paio di volte e basta.

- Beh, devono essere state più che sufficienti visto come ci provavi nello scantinato con le luci basse. Avete fatto amicizia in fretta e pare che di argomenti da discutere ne avevate tanti. Se non era per Tonuccio, che è un vero amico, adesso, chissà…

- Che c’entra Tonuccio, - replicai allarmato che lui avesse spifferato tutto, quello stronzo che mi aveva pure chiuso fuori.

- C’entra eccome, lui si che conosce il valore di una vera amicizia.

- Ah, ma allora eravate d’accordo, adesso mi spiego tante cose - dissi fremendo di rabbia. Ecco perché mi aveva spedito a prendere delle cose da bere e da mangiare. Era tutta una scusa per provarci lui con Rossana. Infatti non mi ha riaperto. Altro che “valore della vera amicizia”. Il tuo amico, ci voleva provare lui con la pollastra nuova! 

Mi ripassai mentalmente tutta la scena di quel giorno. Grazia e Tonuccio dovevano essersi messi d’accordo. Dovevano averne parlato, lei si era confidata con lui, si era fidata di quella specie di gigantesca scatoletta di carne simmenthal. Gli aveva detto di darmi una controllata. Devono essere in grande confidenza fra loro. Cadde un silenzio pesante che nessuno dei due aveva voglia di spezzare. Lei continuava ad armeggiare con la copertina del disco e intanto la sentivo che borbottava qualcosa. Mi voltai dall’altra parte e mi finsi offeso. Quando il lato B del disco finì, lo stacco netto del braccetto che ritornava indietro produsse un rumore secco che parve risvegliare Grazia da un lungo sonno. Rimise a posto la copertina del disco e si concentrò sulla luce rossa della spia. Sembrava in attesa di qualcosa, stava ferma e non si voltava. Cosa dovevo fare? Avvicinarmi e abbracciarla, tossire discreto, girare ed andarmene, parlarle, fare la voce grossa?  Qualcuno me lo poteva spiegare? Come ci si comporta in queste situazioni? Quando era allegra e facevamo le cazzate insieme era felice, ma quando ero solo io a fare le coglionate lei soffriva e io non sapevo proprio cosa fare. Lei coinvolgeva me per primo, le piaceva lasciarsi andare. Diceva che ero l’unico ragazzo col quale si sentiva veramente libera di giocare. Diceva che i ragazzi non giocano più, che sono prepotenti, bevono, litigano e non sanno aspettare.

- Tu sai aspettare? - Mi chiese un giorno. 

- Aspettare cosa? - Le chiesi.

- Aspettare me, che altro dovresti aspettare?

Grazia tirò un respiro forte e disse:- mi riaccompagni a casa per favore o me ne devo tornare da sola?

Sembrava avere assunto un tono conciliante e pensai che comportarsi da duro, qualche volta può dare dei buoni risultati. Negare tutto, sempre, attaccare per difendersi, pareva avere funzionato, almeno per questa volta.

- Ti accompagno, - le dissi - ho la cinquecento-senape. 

- Com’è che tuo fratello si è degnato di prestarti la macchina?

- Mi ha chiesto di mettergli benzina e ne ho approfittato per chiedergli se me la lasciava. Mi ha dato 15000 lire; io gliene metto 10, tanto non se ne accorge e le altre cinque me le tengo io.

- Che fai, rubi anche a tuo fratello adesso?

Feci finta di non aver sentito, ci infilammo i cappotti, misi il disco sotto il braccio e uscimmo. Il freddo fuori era pungente e al primo impatto con l’aria gelida rimpiansi il calduccio della casa. Ci affrettammo a raggiungere l’auto, trafficai un po’ con le chiavi, poi addirittura le aprii la portiera con un movimento premuroso che la sorprese. Lei pensò che essere acide qualche volta serva a ridimensionare l’arroganza dei maschi. “Così impara la prossima volta ” dovette pensare, mentre entrava in macchina ostentando un silenzio grave. Sedendomi al volante la osservai di sfuggita e la vidi che si rassettava la gonna sul sedile, si appoggiò al finestrino e aspettò che io partissi. Avviai il motore dopo qualche colpo di tosse accademico del carburatore. Frugai nella tasca della giacca e tirai fuori un pacchetto di Diana, gli diedi un leggero colpetto e ne feci saltare fuori una, gliela offrii, ma lei rifiutò dicendo:

- Com’è che ti sei messo a fumare? Quand’è che hai iniziato, che mi sono persa il debutto?

- Boh! - Dissi io, - da qualche giorno credo.

-Ah, ho capito, - fece lei con sarcasmo - sesso, droga e rock ‘n roll, si?

- Vabbè, - dissi io.

Rimisi la sigaretta dentro il pacchetto e mi concentrai sulla guida. Durante il breve percorso nessuno dei due pareva avere molta voglia di parlare. Veramente qualcosa da dire l’avrei anche avuta, qualcosa che mi girava qua, nella testa e mi dava fastidio. Avrei voluto trovare il modo di dirle che giù alla saletta delle Conce non avevo combinato niente, che ero rimasto seduto su una panchina da solo, al freddo, ai giardini, con una busta di plastica piena di bottiglie di spumante e biscotti e la gente che passava mi prendeva per un tossico. Avrei voluto dirle che, mentre io me ne stavo in questa situazione di merda, il suo “amico del cuore”, il suo “eroe”, il suo “mastrolindo” invece se ne stava al calduccio dentro lo scantinato a cuccarsi le bocce di Rossana, alla faccia della sua cara, adorata ragazza e non per fare un favore a lei... col caiser! Ma naturalmente non potevo dirle questo. Guidavo in silenzio, aspettando che il volante ghiacciato si decidesse a riscaldarsi un pochino, mi si stavano staccando le dita e non tenevo bene la presa. Iniziò a cadere una leggera pioggerellina, fitta fitta, che veniva giù silenziosa, costringendomi ad azionare i tergicristalli, tav-tav, tav-tav, tav-tav. Il movimento regolare delle spazzole mi stava ipnotizzando, tav-tav, tav-tav, tav-tav. Anche Grazia doveva provare la stessa sensazione perchè, ad un certo punto, scivolò giù nel sedile e si lasciò andare. Appoggiò la testa al finestrino e vidi un ciuffo dei suoi capelli staccarsi e rimanere incollato al vetro umido.

- A che pensi? - Le chiesi con voce stonata, per rompere il silenzio.

- A niente, a tutto, a mio padre, non so perchè.

Scacciò il pensiero e si concentrò sulla strada.

- Non dovevi fare benzina? Disse.

- Si, sto andando proprio verso il self-service.

Attraversammo la città in silenzio, era buio e i distributori di benzina avevano già chiuso. Ce n’era uno solo aperto a quell’ora, ma era fuori città, in direzione del mare, le chiesi se le sarebbe andato di accompagnarmi. - Si,- disse lei, -basta che ci muoviamo.- Rimase voltata verso il finestrino e continuava a non guardarmi nè a rivolgermi la parola. Io accesi una sigaretta e aspirai inutili boccate di fumo. Tagliammo verso la periferia attraversando due quartieri male illuminati. Al semaforo rosso ci fermammo e, nonostante la strada fosse deserta, aspettammo che scattasse il verde. Voltammo a sinistra e, costeggiando il muro della ferrovia, proseguimmo piano fino a che non imboccammo la provinciale che collega la città al mare. Pochissime persone rientravano a casa e le auto che incrociavamo non erano tante. Il vento gelido e la pioggia spazzavano la strada e sulla capotte plastificata della cinquecento sentivamo l’acqua cadere. Le spazzole andavano su e giù con ritmo di jazz, tav-tav, tav-tav, tav-tav. Dopo qualche chilometro, senza dirle, niente feci una manovra brusca e mi immisi in un viottolo di campagna. Percorsi la strada per un centinaio di metri e mi fermai davanti a un albero. Spensi il motore, ma lasciai i fari accesi. Mi frugai in tasca e, pur non avendone voglia, mi accesi un’altra sigaretta. Aspirai il fumo e lo lasciai uscire aprendo leggermente il finestrino. Attesi. Lei rimase voltata verso il vetro e subito dopo ne tirò giù un pezzetto anche dalla sua parte. Entrò un’aria gelida che ci fece rabbrividire.

- Perchè ti sei fermato? Chiese lei all’improvviso.

- Volevo fumare una sigaretta e poi volevo parlarti in santa pace.

- Qui, in mezzo alla campagna, al buio, col freddo che fa e mentre mi intossichi col fumo di una fottutissima Diana?

- Beh, pensavo che... Mi feci più dolce e le presi una mano, le accarezzai i capelli e intonai una voce da attore di cinecittà, citai a memoria un pezzo da Heartbreaker dei Led, funzionava sempre:

  "Well it's been ten years and maybe more, 

since I first set eyes on you. 

The best years of my life gone by. 

Here I am, alone 'n' blue".

   “Sono dieci anni, e forse più, da quando ho messo gli occhi su di te per la prima volta. I migliori anni se ne sono andati. Io sono qui solo e triste.”

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 10 (II. parte)

Post n°46 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

Heartbreaker (II. parte)

 

 

Azzardai una carezza audace, sulla lana speciale del suo maglioncino, fingendo di farle un complimento. Le carezzai il seno e provai a baciarla.

- Noo, lasciami stare! - disse - Lasciami.

Tentai di abbracciarla, mentre cercavo di scansare il volante dell’auto.

Lei si divincolò allontanandosi, mentre la gonna le salì, lasciandole le gambe scoperte. Feci una torsione per riabbracciarla, ma battei un fianco  sulla leva del cambio. Non ci vidi più dalla rabbia e gridai: - Cazzo, cazzo, cazzo! Perchè non mettono i sedili reclinabili nella cinquecento, come in tutte le altre macchine del mondo! Grazia rise soddisfatta della mia frustrazione: - Fatti una macchina come si deve,  altrimenti lascia perdere. Avanti fai marcia indietro e portami a casa.- Quel tono perentorio aveva l’inflessione velenosa dell’insulto e allora, senza che lo avessi voluto o pensato, vidi la mia mano partire verso il suo bel profilo. Avrei voluto fermarla, ma era troppo tardi. Sentii forte lo schiocco della mano aperta che si stampava sul suo viso. Vidi la testa volare all’indietro, verso il finestrino.

- Noo, no! Gridai. - Noo, scusami, scusami, ti prego, non volevo. Oh dio, ti prego, scusami.

Lei tacque, respirò profondamente e si toccò il labbro con la mano. Si voltò piano e mi puntò contro un sorriso stretto, accompagnato dai suoi meravigliosi occhi di metallo. Li vidi e mi sembrarono due giganti di ghiaccio su cui non avrei mai dovuto scontrarmi.

- Ti senti più uomo adesso? Mi disse con voce lenta, carica di veleno.

Calò un silenzio lungo. La testa mi si spaccava, volevo batterla sul volante e urlare, urlare forte, aaaaahhhhh!!! Sarei stato ridicolo e di casini ne avevo già combinati troppi quel giorno. Mantenni faticosamente la calma e feci appello a tutto il mio sangue freddo, quello che è stato non può essere cambiato.  Grugnendo rimisi in moto la cinquecento-senape, ingranai la retromarcia e ripartii. Grazia si riaggiustò la gonna, estrasse un pettine dalla borsa, spostò lo specchietto retrovisore e si ravviò i capelli. Aprì e richiuse la bocca diverse volte, si guardò i denti, fece aaaah e poi seccamente mi ordinò di rimettere a posto lo specchietto. Ubbidii con aria pentita. Grazia si voltò dall’altra parte e si accucciò nei suoi pensieri. Io guidavo, spostavo levette, clic-clac; mettevo frecce, destra-sinistra,  tic-tac, tic-tac; attaccavo le spazzole, tav-tav, tav-tav, tav-tav; mettevo gli abbaglianti; auto nel senso opposto, anabbaglianti; cambiavo marce, terza-quarta; giravo a destra, svoltavo a sinistra, tossivo uh, uh, uh, e alla fine di tutto, arrivato in prossimità dell’unico distributore automatico di carburante, misi freccia a sinistra, tagliai la strada e sgommando e frenando di botto parcheggiai davanti alla colonnina numero uno, screek!  Tirai fuori diecimila lire stropicciate e gli diedi una bella allisciata. Come mi aspettavo me la risputò fuori. Ripresi la banconota,  la distesi bene e la rimisi dentro, adesso il distributore-scemo inghiottì il denaro accendendo una lampadinetta verde. Premetti il pulsante, afferrai l’erogatore e lo infilai dentro il serbatoio, mi aspettavo un flusso copioso, mi preparai all’odore pungente della benzina. Attesi, ma non uscì niente. Schiacciai fortemente la levetta dell’erogatore, ma non scese niente neanche stavolta. Mi guardai intorno disorientato. La colonnina era illuminata, la pompa era quella corrispondente al pulsante che avevo premuto, ma di benzina neanche l’ombra, qual’era il problema? che altro dovevo fare? Grazia al calduccio dentro la macchina tamburellava le dita sul ginocchio: - Che succedeee? - Gridò forte.

- Non capisco, ho messo i soldi, ho premuto il pulsante, ma la benzina non scende. Ci dev’essere un problema, forse un guasto all’impianto, che ne so.

- Ma quelli che hanno fatto benzina prima di noi non hanno avuto problemi, com’è? - Disse lei. - Prova a mettere le cinquemila e vedi se almeno con quelle ti funziona.

- No, le cinquemila me le volevo tenere. - Dissi, non mi va di perdere i soldi, ho già messo dieci e dieci mi deve dare. 

- Metti le altre cinque, sbrighiamoci che mi sto congelando, devo rientrare a casa.

Tirai fuori le cinquemila, ripetei tutta l’operazione, ma anche stavolta non successe niente. Rimisi la pistola al suo posto con un colpo secco e indirizzai un paio di bestemmie al mondo del petrolio e ai suoi derivati. 

- Ecco, quindicimila lire, tutto quello che possedevo e il serbatoio è ancora vuoto. E ora come faccio a tornare a casa?

- Ma sei sicuro di avere messo i soldi per il verso giusto?

- Ma che c’entra il verso? Una volta che te le accetta e si accende la luce verde è tutto a posto. Mi ha fregato i soldi, ecco quello che è successo.

- Ma a quegli altri è andata bene. - disse Grazia, la odiavo quando diceva così. Stavo per arrendermi, non ci capivo più niente. Provai e riprovai ancora, ma non potevo fare altro che ripetere le stesse operazioni che non davano nessun risultato. Lei sbuffò e fece la faccia scocciata. Lo sapevo cosa stava pensando: - questo non riesce nemmeno a mettere diecimila lire di benzina e si fa fregare pure  i soldi.

- Gigioo, ce ne vogliamo andare da qui, sbrighiamoci che è tardi! - gridò ancora. Dio come la odiavo. 

- Comodo starsene dentro la macchina e aspettare di essere servita. Scendi e collabora invece di strillare. E non chiamarmi Gigio, porca puttana, non sono un topo! Sto cercando di mettere quindicimila lire schifose di benzina puzzolente per riaccompagnarti in quella tua casa di... mi fermai in tempo, prima che fosse troppo tardi. Proprio un paio di minuti prima arrivarono due ragazzi col motorino, parcheggiarono di fronte a noi dall’altra parte della colonnina e si godevano con evidente piacere la nostra litigata. Ad un certo punto mi chiesero con voce fessa:

- Tutto a posto capo, tutto bene?

- No, - risposi io, - bene per niente, ho messo quindicimila e non mi ha dato neanche una goccia di benzina.

- Ma no? - fece uno di quelli- non mi dire. Quindicimila lire e neppure una goccia di benzina?

- Niente. - Dissi io, accorgendomi però del tono da sfottò che aveva assunto. Mi feci diffidente mentre li vedevo ridacchiare  e darsi delle gomitate. Grazia si resse la fronte con la mano e la vidi che faceva - no-no- con la testa.

- Non capisco, dev’essere rotto, se volete provare, ma vi consiglio di usare l’altra pompa.

Uno dei due ragazzi smontò dal motorino e con aria strafottente si avvicinò al finestrino dalla parte di Grazia. Lei lo guardò e sembrava gli volesse chiedere scusa per il tipo di ragazzo che si era scelto. Lui con aria da stronzo le disse: - Senti un po’, di al tuo ragazzo che ha parcheggiato sopra la pompa della benzina!- Guardai e ci mancò poco che svenissi: la pompa della benzina stava sotto la ruota, schiacciata dal peso dell’auto. I ragazzi ridevano dandosi  grandi manate sulle spalle e indicandoci col dito. Grazia dentro la macchina disse - dio mio, dio mio. Io risalii in macchina, levai il freno, misi in folle e la spostai in avanti, liberando così il tubo di gomma. Ripresi l’erogatore e, stavolta, tutta la benzina che avevo pagato scese giù, gagliarda e a fiotti. Rimisi la pompa a posto, riavvitai il tappo, chiusi il cofano, entrai in auto e, quando ripartimmo, sentii ancora: - Svegliati, la guerra è finita, ahahahah!

Dissi qualcosa come - torno indietro e li uccido,-  ma Grazia mi guardò con commiserazione e, con lo stesso tono con cui si sarebbe rivolta ad un  ragazzino mi disse: -vai che è meglio!

   Percorremmo tutta la strada in silenzio, mentre riprendeva una pioggerellina fitta. La tensione era palpabile, nessuno dei due aveva voglia di parlare, sarebbe stato un disastro ora, come spegnere un incendio con la benzina. Ero arrabbiato per la serata storta, per i rimproveri, per la figura di merda fatta al distributore. Lei non ne poteva più di stare con uno imbranato così, era stanca e non vedeva l’ora di arrivare a casa sua. Il battere ritmico dei tergicristalli sul parabrezza, il motore che adesso girava a pieno regime, erano gli unici rumori ammessi. La pioggia adesso si era infittita e scendeva giù ostinata, intenzionata a bagnare tutto, case alberi e cristiani. Imboccai la strada che porta al vialetto di casa sua, feci una piccola manovra e mi fermai. Volevo spegnere il motore, ma la sua voce mi fermò e mi disse che non era il caso di trattenerci. Rimanemmo 

per un attimo in silenzio, poi Grazia aprì la portiera e mise un piede fuori. Io rimasi con gli occhi bassi, puntati sul pedale del freno. Lei teneva ancora lo sportello aperto e mi guardava in silenzio. Aveva la faccia di una che avrebbe avuto tante altre cose da dire, ma che, con uno sforzo enorme, si trattenga dal farlo. Mi vedeva in quello stato e ora, credo che le dispiacesse veramente per quello che era accaduto. Avrebbe voluto parlare, ma le parole si impigliavano in tutta la confusione e gli imprevisti di quella serata. L’unica cosa che riuscì a dire sembrò non avere nessuna attinenza con ciò che era successo, ma proprio per questo riportava le cose all’interno della loro giusta dimensione.

- Sai, c’è una canzone che amo tanto e che ogni volta che l’ascolto mi fa venire le lacrime agli occhi. Te ne volevo parlare un giorno, ma poi mi sono fermata perchè ero sicura che non avresti capito. Adesso però te lo voglio dire, perchè credo che tu sia pronto e che sia disposto ad ascoltare anche le canzoni degli altri. Si chiama Bridge over troubled water.

- Come un ponte su acque agitate - tradussi io prontamente.

- Si, proprio così, su acque agitate. Forse non è il genere di musica che piace a te, questa inizia col pianoforte ed è melodica. Non dici sempre che bisogna combattere la melodia, che non se ne può più con le belle voci? Beh, questa è una bellissima voce, intonata e melodica e non dovrebbe piacerti.  La canto quando sono sola, quando sono certa che nessuno possa sentirmi.

- Perchè mi vuoi parlare di questa canzone proprio ora? Ti prego chiudi lo sportello e rimettiti seduta.

- No, devo proprio andare. Non so perchè te ne parlo ora, anzi lo so e lo sai pure tu. Sono convinta che in questo momento, come me, avresti una grande voglia di gridare, di urlare forte e poi sono sicura che piangeresti e che piangeremmo insieme. Ecco, questa è la canzone per piangere. Se tu un giorno me la cantassi qui all’orecchio, dolcemente, io potrei sciogliermi in lacrime e amarti per tutta la vita. Se tu conoscessi le parole come le conosco io, ora mi canteresti questa canzone e io ti perdonerei subito e Rossana sarebbe soltanto una ragazza carina qualsiasi .

- Ti prego risali in macchina.

- Non posso. Vedi, in questa canzone non ci sono puttane che se ne vanno in giro per il mondo. Non ci sono amori contrastati e infelici, nessun cuore spezzato, nessun Heartbreaker, qui le parole si mescolano con il pianto.

- Ehi, non ti sapevo così romantica!

- Non sono romantica, e adesso sai, mi è passata la voglia di dirtela.

- Ti prego, - le dissi - perdonami, dimmi le parole di questa canzone.

- No.

- Ti prego.

Passò solo un  un attimo e Grazia parve fare una grande fatica per trattenere il pianto. Poi trasse un respiro forte e cantò dolcemente, con un filo di voce e le parole furono come un balsamo che sciolgono la rabbia.

   “ When you're weary, feeling small. When tears are in your eyes, 

I will dry them all; I'm on your side. When times get rough and friends

just can't be found, like a bridge over troubled water I will lay me down.”

La vedevo in controluce e la sua voce era rotta dall’emozione.

- Belle, - dissi - me le puoi tradurre?

   “ Quando sei stanca e ti senti di non valere niente. Quando lacrime sono nei tuoi occhi, io le asciugherò tutte; io sono dalla tua parte. Quando passi un brutto momento e amici non hai accanto, Io mi distenderò per te, come un ponte sopra acque agitate.”

   Rimasi senza fiato, Grazia evitava di guardarmi in faccia, teneva gli occhi bassi e guardava le gocce d’acqua che le cadevano dai capelli o forse erano lacrime o tutt’e due le cose insieme.

- E’ bellissima! le sussurrai. 

- Si, la prossima volta dovrai essere tu a cantarmela.

Mi sporsi dal volante dov’ero quasi incastrato e l’attirai a me. L’abbracciai forte e sentii che avevo un bene prezioso e fragile che non volevo perdere.

- A che si riferiscono le parole di questa canzone? 

- Ad un momento difficile che sto attraversando con i miei.

- Con tuo padre?

- No.

- Con tua madre? - le dissi allora.

- Forse, ma non mi va di parlarne ora, dopo tutto quello che è successo oggi. Tu pensa a queste parole mentre torni a casa. 

   Io la guardavo e con una mano tenevo il volante mentre con l’altra armeggiavo meccanicamente sotto il sedile. Toccai un pezzo di tubolare di metallo freddo, questo scattò con un rumore secco e mi ritrovai con lo schienale del sedile ribaltato all’indietro. Grazia cacciò un grido e ci guardammo stupiti. Non so quante volte avevamo fatto l’amore con i sedili dritti e maledetto la cinquecento, ed ora ecco che, quella leva che io avevo toccato infinite volte e che non avevo mai spinto giù fino in fondo, serviva, sarebbe servita, a darci gioie ancora più intense di quelle che avevamo sperimentato. 

- Noo! - disse Grazia con la bocca spalancata.

- Non ci credo - dissi io, mentre sdraiato osservavo  il tettuccio della macchina. Ci guardammo a lungo e poi scoppiammo a ridere. Tutto si sciolse. 

   “Quando passi un brutto momento e amici non hai accanto, Io mi distenderò per te come un ponte sopra acque agitate.”  

   Stava per andar via, ma si fermò in tempo e mi disse:

- Fatti prestare ancora questa macchina da tuo fratello, la prossima volta che vorrai fare l’amore con me. A noi donne ci piace stare comode in quel momento. E sorrise, finalmente più serena, poi chiuse la portiera e se ne andò. La vidi allontanarsi, salì i tre gradini e si avvicinò al portone. Frugò dentro la borsa, trovò le chiavi e aprì. Non si voltò prima di chiuderlo. Vidi la luce delle scale che si accendeva. Io non ripartii. Grazia entrò in camera sua, scostò le tendine e guardò di sotto attraverso la pioggia sui vetri. Vide l’auto ancora ferma e sentì che il motore era ancora acceso, come se la stessi aspettando.  Poi sentì un leggero colpo di gas e seguì la cinquecento-senape allontanarsi nel buio. Riuscì a distinguere le luci rosse che svoltarono giù in fondo al viale e allora anche il tossire del motore scomparve. Rimase il buio e il silenzio. Grazia si sedette sul bordo del letto e senza accendere la luce si tenne la testa tra le mani. Si toccò la guancia ancora arrossata per lo schiaffo che le avevo dato e se la massaggiò piano. Le bruciava ancora un po’ e desiderò addormentarsi con quel lieve dolore. Sorrise quando sentì le lacrime iniziare a caderle sopra la gonna nuova.

 

"Some people cry and some people die 

by the wicked ways of love, 

but I just keep on rollin' along, 

with the grace from the Lord above"

   “Alcune persone piangono e altre muoiono 

lungo le crudeli vie dell'amore, 

ma io tirerò avanti con l’aiuto del Signore”.

   Queste sono le uniche parole che lei ricordava di Heartbreaker dei Led Zeppelin e le sembrarono particolarmente adatte a quel momento. Si sdraiò sul letto, senza spogliarsi e indirizzò un saluto a Martino con un bacio, mentre lo immaginava al buio dentro la macchina, con le tasche vuote, senza neppure quelle cinquemila lire che sperava di guadagnare. “Che ladro!” pensò. Era contenta che lui fosse rimasto fermo dentro la macchina ancora in moto, che non fosse ripartito subito, battendosela.

“Mi aspettava”, pensò - casomai io fossi voluta scendere ancora. 

Il tossire del suo motore acceso sotto casa, insieme al silenzio della sera e alle gocce di pioggia che picchiettava sui vetri le era sembrata la più bella poesia che lui potesse dedicarle. 

- Buonanotte - sussurrò prima di addormentarsi, ancora vestita.

Dentro la macchinetta color senape intanto io giravo la levetta del riscaldamento e dopo un po’ sentii un piacevole tepore salire su dai piedi gelati. Armeggiai ancora un po’ col tubolare di ferro sotto il sedile, incredulo. Cosa avrà voluto dire Grazia con quelle sue parole riguardo ai genitori? Forse che stanno per separarsi? Forse una brutta malattia? Forse è la loro vecchiaia che li sorprende impreparati? Non riuscivo ad immaginarlo, ma quella canzone si concludeva con un piccolo gioiello di tenerezza:

  “ Molla le ancore ragazza d'argento, 

naviga al largo. Il tuo tempo sta iniziando a brillare. 

Tutti i tuoi sogni sono in viaggio. Non vedi come brillano? 

Se hai bisogno di un amico, io per te sto navigando lento. 

Come un ponte sopra acque agitate cullerò la tua mente.”

- Buonanotte - le dissi mentalmente. - Con quelle quindicimila lire di benzina arriverò come un fulmine dritto fino a casa, ma senza un soldo in tasca! Come un cuore spezzato sopra un ponte di acque agitate. Sentivo la mano con la quale avevo colpito Grazia che mi bruciava ancora un po’, ma desiderai che quel lieve dolore non sparisse subito. 

   “ Vattene, spezzacuori, spezzacuori, come un ponte sulle acque agitate"

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 11

Post n°45 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

Predictor, per favore

 

 

   L’ho già detto credo, ogni sera prima di andare a dormire controllo la mia posta elettronica. Dopo qualche tempo che Grazia non si fa viva trovo un messaggio con scritto Grigio. Lo apro, lo spazio del testo è vuoto, non c’è scritto niente, ma appena sopra ci sono le icone di due allegati: 

Allegato uno - Predictor; 

Allegato due - Referto analisi del sangue.

   Clicco su Predictor e si apre una foto che riproduce una scatola del popolare test di autodiagnosi della gravidanza. La confezione che conteneva la provetta è stata strappata e lasciata aperta per renderla scansionabile. I bordi del cartoncino mostrano i segni dell’usura, sono smangiati e il colore è leggermente sbiadito. Il Predictor assomigliava ad un kit del piccolo chimico. Era una parola che pronunciavamo con terrore. Predictor era uguale guai. Si doveva entrare in farmacia e chiedere a bassa voce: - Predictor, per favore.

Nei primi anni che questo sistema fai-da-te venne messo in commercio, la chiesa tuonò forte e lo ostacolò con tutti i mezzi che aveva a disposizione, leciti e illeciti. Per aggirare questo veto rigoroso, la casa produttrice lo pubblicizzava sui giornali, allegando un coupon prestampato che riportava scritta proprio quella semplice, ma imbarazzante, richiesta,  “Predictor, per favore”. Si consegnava con vergogna il coupon al farmacista e lui, discretamente, te lo incartava. Il test veniva eseguito nove giorni dopo che le mestruazioni tardavano il loro ciclo normale. Si doveva prendere, al primo mattino, un piccolo campione delle urine, lo si metteva dentro una provetta con acqua distillata e poi si aggiungeva un reagente. Si agitava bene e si doveva lasciare in posizione verticale, perfettamente immobile, per almeno due ore. Poi, col cuore stretto dall’angoscia, si osservava lo specchiettino in fondo alla provetta, li era scritta la tua condanna o la tua assoluzione. La procedura durava un paio di minuti e, a seconda delle motivazioni che ti spingevano a compiere quell’autodiagnosi, lo specchietto era la porta del tuo inferno o del tuo paradiso: anello, non anello: mamma, non mamma.

Allegato due - Referto analisi del sangue.

   Nome:Grazia, cognome...(omesso),

   Nata a:Torino .../.../.....(omesso),

   Residente in via:...(omesso), 

   In data...(omesso)

   Beta-HGC (gonadotropine corioniche),

         Valori rilevati:72640(mU/ml)

   Le Beta-HGC, (gonadotropine corioniche), sono in pratica gli ormoni secreti dall’utero. La data dell'effettuazione dell’analisi del sangue, corrispondeva a circa un mese dopo quel giorno al mare. Grazia non mi disse niente di questo esame. Ho letto e riletto i due allegati con grande emozione.  Il silenzio di quella pagina bianca è angosciante e posso solo intuire il vuoto nel quale si era trovata allora. Quando mi parlò del Predictor era come se mi avesse gettato addosso un pesante cappotto di piombo fuso. Dopo quella giornata al mare, il suo umore era peggiorato di giorno in giorno. Una mattina mi disse: - Che mi hai fatto?

Ed io rimasi muto come uno scemo a guardarla, poi commisi l’errore di chiederle: - Sei sicura di non averlo fatto anche... con qualcun altro?

Lei mi guardò a lungo, con le labbra che le tremavano, offesa per quello che aveva sentito e abbassò gli occhi, in una espressione di incredulità e di dolore e non replicò. Mi chiese soltanto di entrare in farmacia e comprare il Predictor, ma io non ci volevo entrare, volevo solo fuggire via e risvegliarmi da quell’incubo. Non volevo entrare a comprare quella cosa li. Ascoltavo come un ebete le sue angosce e quando, dopo il nono giorno di ritardo delle mestruazioni, mi chiese, per favore, di entrare in farmacia con quel coupon e di comprarlo, non ci volli andare e glielo dissi chiaramente di cavarsela da se stessa. La lasciai sola, in poche parole, ma anch’io ero solo. Non c’era nessuno che ci dicesse cosa dovevamo fare e come ci saremmo dovuti comportare. Ora so che avremmo dovuto affrontare questa cosa insieme, non eravamo soli. Quando il risultato positivo del test levò ogni dubbio, ammutolimmo e lei scoppiò a piangere, stando seduta sul bordo di una panchina, ai giardini, dove ci eravamo dati appuntamento. Teneva le mani giunte, incassate tra le gambe strette, come a opporre una barriera tardiva, per impedire che io le attaccassi ancora quella terribile malattia che le avevo contagiato. Piangeva e io mi preoccupai per il mio nuovo maglioncino Benetton, con le striscie  di mille colori. Pensai che non l’avrei dovuto indossare in quella circostanza. Forse sarebbe stato più adatto quello tutto blu, col collo alto. La gente che passava in quel momento, vedeva una ragazza coi capelli biondi che piangeva e un ragazzo accanto a lei, col maglione troppo colorato, che non sapeva palesemente cosa fare. Avrebbero pensato ad un litigio tra fidanzati e non al funerale che stavamo preparando.

“Vive, ama, è una donna davvero.

Quando la coscienza ti rimorde, 

falla tacere con le pillole”

   Quel pomeriggio, prima di andare all’appuntamento con Grazia, misi quella canzone dei Led sul piatto del giradischi, Living Loving Maid, fra tutte le canzoni dell’album è quella che, ancora adesso, mi ricorda uno dei momenti più felici che vivemmo insieme. Registro l’allegato del Predictor e lo uso come sfondo del mio desk-top. Li sulla panchina Grazia mi chiese: - Che facciamo? e io le risposi che non lo sapevo, ma che potevamo pensare ad abortire. Lei continuò a piangere mentre io guardavo l’orologio. Si era  fatto tardi e a casa stavano già cenando, mio padre non sopportava che si tardasse a tavola. Allora con poca convinzione le dissi: - Ne parliamo domani. Non la accompagnai neppure a casa e, appena giunti sul marciapiede, la salutai frettolosamente con un bacio privo di calore e scappai, senza voltarmi. 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 12 (I.parte)

Post n°44 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

Living loving maid  (She’s just a woman)

 

 

  Volavo con la cinquecento-senape dopo aver lasciato Grazia sotto casa sua. Dovevo restituire la macchina a mio fratello ed ero in forte ritardo, si sarebbe sicuramente arrabbiato, non me l’avrebbe ridata per chissà quanto tempo e, proprio adesso che avevo scoperto la leva sotto il sedile, mi sarebbe dispiaciuto molto. Sentivo ancora un leggero dolore alla mano destra, avevo colpito Grazia proprio con quella mano e, nel momento stesso che compivo quell’azione, percepivo quanto realmente tenessi a lei. Osservate le donne quando parlano, lo fanno tutte insieme e si capiscono perfettamente. Gli uomini parliamo uno per volta e non ci intendiamo mai. Procediamo nella vita secondo regole geometriche perdenti, ci inoltriamo in complicati sentieri zig-zaganti, quando sarebbe più semplice procedere in linea  retta. Basterebbe amare, semplicemente amare, come faceva Grazia. Lei osservava e cercava di capire dove stava il giusto. Correvo con la macchinetta di mio fratello, senza più un soldo in tasca, riflettevo su tutte queste cose e stavo bene. Avevo dato uno schiaffo a Grazia, è vero, ma questo mi metteva di buonumore. Ero sicuro di aver fatto una cosa che andava fatta.

“Vive, ama, è veramente una donna. 

La signora impassibile  

passa con la sua vecchia Cadillac”

   Pensavo ai primi tempi che stavamo insieme, forse mancavano pochi giorni al nostro primo mese da fidanzati  e allora incollai su di un pezzo di cartone un foglio di stagnola, ci misi dietro un gancetto per poterlo appendere e vi attaccai un biglietto con su scritto artisticamente a penna stilografica, “Martino e Grazia, Auguri per il nostro Primo Mese di Stagnola!” poi lo avvolsi in una carta da regalo rimediata, lo infiocchettai per bene e, il giorno preciso del nostro primo mese, glielo regalai. Lei si stupì che mi fossi ricordato e decise che avremmo dovuto festeggiarlo degnamente. La nostra scuola dava su una piazza e, a poche decine di metri, c’era una chiesetta sempre deserta. A quell’ora il parroco era impegnato nelle visite ai parrocchiani. Per questo la mattina la chiesa veniva lasciata in custodia alle vecchiette del quartiere che pregavano in silenzio, snocciolando i loro rosari in lunghe e modulate litanie incomprensibili. Quella mattina, mentre percorrevamo insieme la strada per andare a scuola, le ricordai che era il giorno del nostro primo mese di stagnola.

- Ah si? - disse lei - Bene, mi hai portato un regalo?

- Certo - le risposi e tirai fuori il quadretto incartato e due laccetti intrecciati con fili colorati. Glielo diedi tutto orgoglioso.

- E con questi che ci faccio? - disse indicando i due laccetti.

- Che ci facciamo - replicai. 

Stavamo nei pressi della chiesa e così, senza rifletterci su, le dissi:

- Con questi ci sposiamo.

- Ci sposiamo? Io e te?

- Perchè no? - dissi divertito del suo stupore.

- Con due laccetti?

- Proprio così. Mi vuoi sposare? - le dissi assumendo un’aria romantica.

- Fammici pensare un po’. Ce l’hai un conto in banca?

- No - le risposi meravigliato.

- Hai terreni, case in affitto o roba del genere?

- No - le dissi divertito.

- Un posto di lavoro sicuro?

- No, neppure.

- Hai un idea, seppure vaga, di cosa farai da grande, che so, l’ingegnere, l’avvocato, il costruttore?

- No - risposi. - assolutamente no.

- E allora come pensi di mantenermi?

- Ma che ne so. Che razza di cose ti saltano in mente?

- Mi ami almeno? - disse lei, fermandosi di colpo.

- Credo di si, cioè non lo so ancora con precisione.

- Bene, - disse Grazia - allora sei proprio l’uomo che fa per me. Pronto per essere modellato a mia immagine e somiglianza. Mi prese il viso tra le mani, come aveva fatto la prima volta a casa di mia sorella e mi baciò, li davanti alla chiesetta del Sacro Cuore. Ma ancora non avevo capito cosa le stesse passando realmente per la testa. Continuammo a camminare e ci dirigemmo verso il piazzale d’entrata della scuola, dove incontrammo altri amici e compagni di classe, a tutti Grazia diceva che quello era il nostro primo mese di stagnola e che io le avevo appena chiesto di sposarla.

- Sapete una cosa? Martino mi ha appena chiesto di sposarlo, ma io non gli ho ancora dato una risposta precisa. Che gli devo dire?

- Digli di si, - gridavano gli amici ridendo, - così veniamo al vostro matrimonio e ci ubriachiamo gratis, ahahahahah.

- Non farti scappare il pollo! - rispondevano le amiche, sghignazzando.

- Allora lo sposo per davvero, gli dico di si - fece Grazia.

- Bene - gridarono tutti, - dove, come, quando?

- Oggi, stamattina alle undici, nella chiesa del sacro cuore, davanti all’altare dove c’è Gesù col cuore in mano. Siete tutti invitatiiiii!!!!!

Io impallidii, Grazia era imprevedibile, ma questo superava ogni mia immaginazione.

- Ehi, ehi, aspetta, che stai dicendo? Cos’è questa storia della chiesa del sacro cuore, dell’altare, di gesù col cuore in mano?

- Non avevi detto che mi volevi sposare? Beh, ho appena fissato la data del matrimonio, proprio per oggi alle undici, alla ricreazione. Andiamo in chiesa e ci sposiamo.

- Ma, ti rendi conto?

- Che c’è... ah, ho capito, ti vuoi già tirare indietro?

Rimasi di stucco, incredulo, anche perchè tutti gridavano: - Si, dai, che bella idea sposarsi. Erano ammattiti tutti quanti.

 

“Vieni, sulla giostra baby.

Monta sulla giostra.

Tutti noi sappiamo come ti chiami.

Sarebbe meglio che tu lasciassi qui i tuoi soldi”

 

- Ma come pensi di fare? - le chiesi.

- Ne parliamo con Baldo e gli proponiamo di fare da prete e di sposarci lui. Mi pare adatto perchè va bene in latino e potrebbe usarlo nella cerimonia, magari un latino-maccheronico, per ridere.

- E poi? prego, continua pure, - dissi, facendo l’offeso - fai come se io non esistessi.

- Tu esisti, devi esistere, sennò chi mi sposo oggi. E`un gioco? Allora giochiamo. Oggi è il nostro primo e unico giorno di stagnola, sarà il giorno più bello della mia vita e anche della tua, te lo prometto.

- E i testimoni? - Feci io.

- Io prendo Anna di Tonuccio e Maria Pia di Baldo e tu ti scegli Tonuccio di Anna e Vigliani, (sperando che non rubi le ostie in chiesa). Ci portiamo i panini, compriamo un paio di bottiglie di aranciata e qualche pacchetto di patatine e con quello facciamo il ricevimento. Vallanzasca ha un mangiacassette a pile sempre con sè, sicuramente avrà anche il nastro dei Led Zeppelin. Scegli una canzone e quella sarà la nostra marcia nuziale.

- Livin’ lovin’ maid, ti va bene? dissi.

- Scegli tu, sei l’esperto musicale - disse lei con ironia.

- E`un rock’n roll sfrenato che mette allegria, parla di una...

- D’accordo, me lo dirai un altra volta. Non mi devi fare la storia di questa canzone adesso. Livin’ lovin’ maid andrà benissimo. 

- Sei folle Grà, stai sulle tegole come i passeri del cielo.

- Lo so Grì, è per questo che non mi amerai a lungo ed è per questo che ti voglio sposare subito. Mi ricorderai così, folle, in questo giorno magico. Quando entrammo in classe la notizia del nostro matrimonio era sulla bocca di tutti e i nostri compagni erano già eccitati. Grazia diramò gli inviti attraverso una fitta rete di bigliettini che passavano tra i banchi, mentre i nostri professori, trascinavano la loro stanca lezione. Scrisse un lungo messaggio a Baldo nel quale gli spiegava per filo e per segno cosa avrebbe dovuto fare e dire. Gli suggerì persino le frasi in latino e gli accostamenti maccheronici più efficaci perchè non cadesse nella volgarità. Scrisse ai testimoni della sposa e dello sposo, pregando le prime di essere carine ed eleganti e i maschi di non fare troppo casino, che quello doveva essere il suo matrimonio e non glielo dovevano rovinare. Mandò un biglietto a Matteo Vigliani, con un elenco di due o tre cose che doveva assolutamente trovare entro le undici. Il mangianastri con la cassetta dei Led, gli specificò, doveva metterla sulla traccia numero sei, Livin’ lovin’ maid. Gli disse che sarebbe stata la nostra marcia nuziale e che era Grigio, lo sposo, che l’aveva scelta. Vigliani le rispose con un altro biglietto enciclopedico, fatto passare sotto i banchi che “approvava pienamente la scelta del brano e che lui avrebbe fatto altrettanto perchè, proprio quella canzone, era una delle preferite di Jimmy Page, che però non la eseguiva mai dal vivo nei concerti, perchè la sua fidanzata di allora non approvava, in quanto parlava di una groupie che la dava praticamente a...” Qui Grazia sfumò la lezione sulla canzoncina e ringraziò il professor Vallanzasca con un cenno d’intesa. Anna di Tonuccio le mandò un bigliettino con su scritto, “ ti invidio!!! sei la mia migliore amica. xxx!!”. Tonuccio di Anna le spedì un breve comunicato nel quale minacciava che, “Se dovesse cambiare idea, lo lego e lo porto in chiesa io. T. “

La lezione andava avanti regolarmente, tutti prendevamo appunti e alzavamo la mano.  Avevano l’aria di divertirsi un mondo in attesa della solenne funzione e io ricevevo messaggi meno tecnici di quelli di Grazia, ma carichi di simpatia e di stima, del tipo, “auguri e figli maschi”, oppure, “condoglianze, a quando la partita scapoli e ammogliati?” 

Me ne arrivò anche un altro, inaspettato, “allora ti sposi? auguri dalla “quarta T.” A cui replicai con una battuta di spirito, “possiamo organizzare insieme un addio al celibato?” 

   Le undici si avvicinavano e Matteo Vigliani chiese di uscire, tornò dopo circa quindici minuti e strizzò l’occhio a Grazia che ricambiò con un sorriso. La osservavo quasi affascinato per come prendeva seriamente questa cosa che sarebbe dovuta essere solo un gioco fra me e lei. Le diede il tono dell’ufficialità e vi coinvolse tutti. Ogni tanto mi lanciava un’occhiata e mi sorrideva. Alle dieci e mezza mi scrisse su un pezzetto di carta, “hai cambiato idea?”. “No”, - le risposi - “ma se per caso dovessi farlo cosa succederebbe?”. “niente”,  mi rispose, e mi indicò il gigante-simmenthal, che mi fece segno col pollice passato sulla gola.

   “Nobody hears a single word you say

Livin', lovin', she's just a woman.

But ya keep-on talkin' 'til your dyin' day.

Livin', lovin', she's just a woman”

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 12 (II.parte)

Post n°43 pubblicato il 03 Febbraio 2012 da alex.canu

 

 

Living loving maid

 

 

  Alle undici meno cinque eravamo tesi come elastici. Baldo e Tonuccio erano usciti già da alcuni minuti per prendere i panini, ce li avrebbero fatti trovare giù nell’atrio. Appena la campana suonò schizzammo fuori dai banchi e ci precipitammo per le scale guadagnando subito l’uscita. Avevamo a disposizione appena quindici minuti che avremmo potuto tirare fino a venti. I panini, le bibite e le patatine stavano dentro delle buste. Matteo Vigliani aveva il suo mangiacassette a pile con dentro Livin’ lovin’ maid già pronta a cantare il suo rock’n roll. Scendemmo le scale come pazzi e raggiungemmo la chiesa del sacro cuore appena due minuti dopo. Baldo e Maria Pia, raggiunsero rapidamente l’altare maggiore e vi si collocarono dietro, assumendo la posa ieratica dei sacerdoti che stanno per celebrare un rito solenne. Io e Grazia percorremmo la navata centrale con tutto un corteo di amici e compagni di classe che avanzavano sghignazzanti.  Raggiunto l’altare ci mettemmo in ginocchio sui gradini in attesa dell’inizio della cerimonia. Mi guardavo attorno e ridevo, Grazia era invece molto concentrata. Anna e Tonuccio presero posto accanto a lei, dopo aver tranquillizzato due vecchiette spaventate, che pregavano in uno dei banchi delle prime file con i loro rosari, nel silenzio tombale della chiesa fino ad allora deserta. Tonuccio Dettori e Matteo Vigliani si misero appena dietro di me facendomi sentire la pressione delle loro robuste mani poggiate sulle mie spalle. Gli altri compagni di classe si strinsero attorno a noi e la cerimonia ebbe inizio fra la confusione più totale.

Quando Baldo alzò le mani al cielo e vi diresse i suoi occhi tutti zittirono, persino le due vecchiette si avvicinarono incuriosite per vedere quello che stava accadendo.

- Silentium fratres, hic et nunc in magnam ecclesia- proferì.

- Amen – risposero tutti in coro ridendo.

- Fratelli, sono oggi presenti davanti a noi tutti, omnia secula seculorum, Grazia e  Grigio per promettersi eterno amore. Sono venuti liberamente e senza costrizione alcuna, quibus, se qualcuno dei presenti a questa cerimonia ha un fondato motivo per sostenere che “Questo matrimonio non s’ha da fare”, lo dica ora, oppure taccia per semper eternum-èternit.

A questo punto si sollevò un brusio generale e partì qualche battuta pesante e allusiva ai trascorsi amorosi della sposa che però non venne presa in considerazione. Baldo e Maria Pia si spostarono da dietro l’altare e vennero al nostro cospetto. Le nostre mani erano giunte in segno di preghiera, Baldo ci sorrise grave e diede inizio al sacramento del matrimonio vero e proprio. Interrogò Grazia per prima:

- Ego pregunto vobisi cum gaudium magnum, Grazia vuoi veramente sposare questo scemo alla tua destra che sicuramente ti farà soffrire, ma che promette di amarti per tutta la vita? Non essere precipitosa, pensaci un po’, sei ancora in tempo. Ti ricordo che Grigio è ripetente e che nell’ultimo, drammatico compito di Matematica, ha preso uno più per incoraggiamento. Guardati intorno, vedi quanti ragazzi carini con la media dell’otto che potresti trovare. Pensaci Grazia, ma se per caso la tua idea fosse ancora la stessa rispondi.

- Si – disse Grazia con voce ferma – lo voglio e, per quanto riguarda matematica, migliorerà, lo giura.

- Che ha detto? disse la prima vecchietta.

- Che è bravo in grammatica, ma ha testa dura- rispose la seconda.

Baldo sollevò gli occhi al cielo come per dire: con questa non c’è più niente da fare, l’amore è proprio cieco. Poi rivolse la sua attenzione nei miei confronti e mi interrogò dicendo:

- Martino, uomo fortunato che hai trovato questo gioiellino di puella-puellam, vuoi prendere questa rosa-rosis di Grazia come tua legittima sposa? Sappi che la dovrai difendere, amare e proteggere per tutta la vita, anche quando diventerà vecchia e brutta e le cadranno i denti. Sappi che allora le dovrai sostituire anche le pile dell’apparecchio per l’udito.

A questo punto le due vecchiette si guardarono stupite:

- Che ha detto? - disse una all’altra, - Che le mette l’anello al dito. - replicò la vicina. Baldo così proseguì:

- Martino se sei disposto a reggere questo fardello di responsabilità in cambio di pochi attimi di gioia rispondi “Si”, ma rispondi subito perché abbiamo solo dieci minuti per mangiare e fare casino.

- Si, - dissi, cercando di metterci un po’ di ironia in quell’unica sillaba senza riuscirci affatto. - Lo giuro! gridai convinto.

- Martino, - disse il Baldo-sacerdote – hai portato gli anelli a suggello delle nozze per il sacro vincùlo-vinculorum?

- Come no, - dissi, ed estrassi dalla tasca i due piccoli laccetti colorati. Li posai sull’altare, uno accanto all’altro. Baldo li benedisse con la formula: - Ego benedicat ad laccetum, pater et filii et spirictus sanctus.

- Amen – risposero tutti gli invitati in coro.

   Allora presi il primo laccetto e lo feci passare delicatamente attorno all’anulare di Grazia, quindi avvicinai i due lembi e li strinsi in un nodo indissolubile. Grazia sorrise e io le dissi:

- Con questo nodo mi lego a te, Grazia, per sempre e finchè morte non ci separi.

Allora anche lei prese il suo pezzetto di spago se lo passò sulle labbra, quindi me lo legò all’anulare destro. Ci fu un coro di di approvazione da parte degli invitati e si rivolse a me dicendo:

- Con questo nodo, Martino, mi lego a te per sempre finchè morte non ci separi. 

I lembi dei due laccetti formarono due graziosi riccioli e noi li guardammo emozionati. Baldo stava per spararne un’altra delle sue in latino-maccheronico, ma Grazia lo fermò e disse:

- Un momento.

Si infilò una mano nella tasca dei jeans e ne estrasse una bustina trasparente, con dentro una polverina bianca di magnesia effervescente e si versò il contenuto nell’incavo della mano sinistra. Io la guardavo, ma non capivo quello che aveva intenzione di fare. Lei mi disse che l’aveva letto da qualche parte e proseguì. Tenendo aperto il palmo della mano vi versò sopra un po’ di saliva e lasciò che la polverina al gusto di limone friggesse per un attimo. Allora me la porse delicatamente chiedendomi di fare altrettanto. Baldo osservava incuriosito e i testimoni approvarono con un uaaah!! di schifo invidioso. Grazia attendeva e mi guardava negli occhi mentre la polverina continuava a sfrigolare nella sua mano procurandole un piacevole pizzicorino. Avvicinai la bocca e vi versai con attenzione un po’ della mia saliva, la polverina riprese a frizzare e a formare delle minuscole bollicine e mi sembrò che tutti sentissero il suo rumore. Grazia accostò le labbra a quella piccola pozza spumeggiante e ne prese un po’ con la punta della lingua, quindi avvicinò la mano alla mia bocca invitandomi a fare altrettanto. Sentii il lieve eruttare dell’essenza di limone e vi avvicinai le labbra, ne aspirai avidamente il contenuto e Grazia leccò il resto. Ci guardammo negli occhi, complici per dio e ci mettemmo a ridere, felici per tutto ciò che ci attendevamo l’uno dall’altra. Tutti applaudirono, Baldo chiese l’attenzione di tutti e disse:

- Grazia e Martino, in virtù dei poteri conferitimi dallo spirictus paraclitum, qui nel sancta-sanctorum di mater ecclesia, al cospetto di questi testimoni, degli invitati e delle due nonnine che ci hanno lasciato fare tutto questo senza dire bah, dichiaro che siete venuti qui liberamente e col solo motivo di promettervi amore. Questa è ragione valida e sufficiente perchè io, mutatis-mutandis et calzinibus,

vi dichiari marito e moglie all’istante. Coito-ergo-sum, lo sposo può baciare la sposa con moderazione e che dio ci perdoni tutti quanti. Musica! 

- Che ha detto? - disse la prima vecchietta.

- Che può baciare la sposa, ma che devono comprare le mutande.- Rispose l’altra. Matteo Vigliani attaccò il suo mangianastri a pile e Living, loving maid degli Zeppelin esplose in tutta la sua trascinante gioia.

 

“Livin', lovin', she's just a woman.

When your conscience hits ya, knock it back with pills.

Livin', lovin', she's just a woman”

 

   Living loving maid non da tregua è un vero rock’n roll e la voce altissima di Robert Plant si dispiega tintinnante e ironica. Gioca, con l’eterno giro del rock’n roll. Nella navata della chiesetta le note rapide  scandite dalla chitarra e dalla voce risuonarono come le campane la mattina di pasqua. Ci misero brio, ci dettero energia e ci caricarono a mille. Mi sentivo felice, abbracciai Grazia e la baciai a lungo. Baciai i testimoni e abbracciai tutti quanti. Perfino le due vecchie di guardia alla chiesa, in mezzo a tanta allegria di giovani, si lasciarono contagiare e baciarono gli sposi come se credessero che tutto quello che vedevano e sentivano fosse reale. Ci dettero gli auguri, Grazia si commosse e pianse.

- Grazie - disse, mentre le stringeva forte.     

   Matteo Vigliani fece appena in tempo ad afferrare al volo il mangianastri che urlava a tutto volume, Livin', lovin', she's just a woman, poco prima che il parroco lo gettasse a terra mentre, urlando, irrompeva in chiesa rosso in faccia di rabbia. 

- Delinquenti, giovinastri, senza dio, drogati- gridò.

 Incominciò a dare ceffoni alla cieca  senza riuscire a colpire nessuno. Le due vecchiette si ritirarono in un angolo buio e si coprirono la bocca con la mano, si fecero un rapido segno della croce mentre spaventate osservavano il loro parroco menare schiaffi all’aria.

- Delinquenti, in galera dovreste stare! - strillava il prete mentre noi fuggivamo in ogni direzione. 

   Il parroco si chiamava don Muzzetto, ma tutti lo conoscevano col soprannome di don Fruscittu, per via di un lieve diffetto nella pronuncia della esse che gli usciva fuori come un fischio lievemente effeminato.  Le sue movenze e il tocco leggero della mano, che si posava mollemente sul capo dei fanciulli e dei chierichetti, venivano accompagnate da quel leggero sibilo che annunciava un sorriso molle, su cui compariva un dente d’oro, come un icona sacra, come un miracolo che si compiva li davanti agli occhi dei fedeli. Don Fruscittu dirigeva il coro dei fanciulli e quando questi si presentavano coi primi peli sul mento lui avvampava e, come traditori di un patto rinnegato, li cancellava dal sacro elenco delle voci bianche. Li accompagnava, simbolicamente, alla porta del suo paradiso, per non farveli rientrare mai più, non senza aver rivolto loro un ultima languida occhiata.

   Don Muzzetto sapeva anche menare le mani,  quando occorreva e questa gli doveva sembrare una di quelle rare occasioni da non lasciarsi sfuggire. Grazia mi prese per mano e mi tirò via verso l’uscita. Matteo riuscì a mettere in salvo il suo prezioso mangianastri, mentre Tonuccio  cercava di sfruttare il suo metro e ottanta per calmare il parroco, ottenendo però l’effetto contrario. Raccogliemmo tutto, aranciate, patatine, panini e scappammo fuori dalla chiesa, mentre il prete richiudeva le porte con grande fragore. Ci fermammo un attimo sul piazzale antistante la chiesa, ancora sconvolti per il trambusto e sbottammo a ridere. Anna  aprì una delle buste che, fino a quel momento, non erano state toccate e ne tirò fuori quattro piatti di ceramica sbeccata. Ne diede uno a Maria Pia  e due li passò agli amici, quindi ruppero i piatti beneaugurali ai nostri piedi. Grazia e io raccogliemmo alcuni cocci infilandoceli nella tasca dei jeans. Nella piazza c’era un giardinetto spelacchiato con alcuni alberi stenti e delle panchine mezze distrutte, li organizzammo il nostro ricevimento. Ridevamo a crepapelle mentre aprivamo le buste e scartavamo i panini. Ci tirammo addosso le patatine sbriciolate e ci schizzammo sui vestiti le aranciate agitate a dovere. La campana era già suonata da cinque minuti quando i nostri compagni decisero di rientrare in classe. Io e lei ci trattenemmo ancora, seduti sulla panchina. Tardammo altri venti minuti e quello fu il nostro viaggio di nozze. Ci lasciarono soli, stretti l’una all’altro, a baciarci e a guardarci negli occhi. Grazia mi teneva ancora per mano quando rientrammo in classe e, poco prima di aprire la porta, mi levò via dagli angoli della bocca una minuscola briciola di pane. Questo divenne, da quel momento in poi, un suo gesto quotidiano nei miei confronti. Mentre stavamo rientrando in classe non parlavamo nessuno dei due, ma sentivo i suoi occhi cercarmi per cogliere ogni più piccola espressione sul mio viso. Coglievo questa sua insistenza e capivo che per lei quello che era successo non era stato un gioco da ragazzi. Tutti ci eravamo divertiti tanto, anche l’arrivo improvviso del parroco era stato un colpo di teatro formidabile e insperato, ne avremmo riso per chissà quanto tempo ancora con gli amici, ma per noi la cosa finiva li. Avrei voluto che lei prendesse questo come un gioco con la leggerezza che meritava. C’eravamo divertiti tutti, si era divertita anche lei, no? Allora perchè mi osservava così? Mi girai e le chiesi bruscamente:

- Che c’è Grà, qualche problema?

- Mi vuoi bene? - rispose inaspettatamente, mentre mi puntava gli occhi dentro, ma con un tono di voce dolcissimo che non le avevo ancora conosciuto.

- Si. - Le risposi, preso in contropiede, stavolta con convinzione. Lei smise di guardarmi e l’espressione del volto si distese.

- Devi migliorare in matematica, - disse con un sorriso, - l’hai promesso.

 

“Vieni, baby, monta sulla giostra

Tutti noi sappiamo come ti chiami

Sarebbe meglio che tu lasciassi qui i tuoi soldi” 

 

   Naturalmente don Muzzetto non lasciò cadere la cosa. Il piacere che pregustava nel denunciare dei peccatori che avevano smarrito la fede era troppo grande. Occasioni come quella capitavano una sola volta nella vita e andava vissuta fino in fondo, assaporando ogni istante, ogni richiesta di scuse e di soprassedere che sarebbe arrivata. La mattina dopo si presentò in classe, accompagnato dal preside che gli trotterellava dietro, ben pettinato e sbarbato e col suo dente d’oro che brillava di luce propria. Tra don Fruscittu, con la sua esse sibilante e il nostro preside, che invece aveva la erre moscia, lo spettacolo fu avvincente. Quando entrarono la professoressa di matematica scattò sull’attenti e noi, tutti in piedi, ci prendemmo una bella lavata di capo stando con gli occhi bassi sul pavimento a contemplarci la punta delle scarpe. Il preside fece la sua parte, muoveva la testa in segno di -no, no, no-, quando il parroco alzava la voce e ci accusava col dito; la muoveva in segno di -si, si, si-, quando don Muzzetto parlava dei giovani che non avevano più ideali e non avevano rispetto per niente; allargò le braccia e battè una mano sull’altra quando il prete descrisse il caos che avevamo creato nella sua chiesa. Alla fine di tutto porgemmo le nostre scuse e tutto si risolse con una nota sul registro scritta di suo pugno. All’elaborazione del testo partecipò anche don Muzzetto e alla fine, visibilmente soddisfatto il preside desiderò leggercela con la sua stessa voce zoppiccante sulla erre, non senza una nota di compiaciuto narcisismo poetico. Il testo che il preside redasse, li su due piedi, mise in evidenza la giusta fama di letterato e paladino della lingua italiana che lo precedette ancor prima di arrivare a dirigere il nostro istituto e così recitava:

  “Considevati gli atti di vipvovevole villania e assoluta mancanza di vispetto per il decovo delle sacve istituzioni della scuola e della veligione, violate e vilippese con compovtamenti vandalici e scovvibande selvagge; considevata altvesì l’umiliazione dell’immagine del ministvo di Dio nelle vesti del pavvoco della santissima pavvocchia del sacvo cuove, la classe tutta è punita con una sospensione di giovni 7 (sette) dell’istituzione della vicveazione mattutina.” Firmato ... ecc. Quella nota fece epoca e la imparammo tutti a memoria, declamandola  e declinandola nelle maniere più volgari. Il più bravo di tutti fu però Vigliani che riusciva a recitarla imitando perfettamente la evve moscia del preside-poeta. 

 

“Nessuno ascolta una sola parola di quel che dice

Vive, ama, è una donna davvero

Ma continuerà a parlare fino alla morte

Vive, ama, è una donna davvero”

 

   Come abbia inizio una tradizione non è facile a capirsi, ma quando si forma e prende corpo, proprio davanti ai tuoi occhi, fa un certo effetto. Non passarono più di tre o quattro settimane dal nostro “matrimonio” che Tonuccio e Anna decisero di sposarsi. Il rituale venne ripetuto con le stesse modalità dell’originale, diventammo solo un po’ più scaltri e rapidi per non farci cogliere da don Muzzetto. Poi venne il turno di Baldo  che sposò Maria Pia. Ancora qualche tempo e persino Matteo Vigliani, alias Vallanzasca, si innamorò di una ragazza con gli occhiali, piccola la metà di lui, che trovò abbandonata dagli altri compagni in una classe, dove era entrato per rubare compassi e squadrette. Lei non capì immediatamente il motivo della sua presenza nella classe, ma dopo gli agevolò notevolmente il lavoro. Vallanzasca portò via tutto quello che riuscì a prendere e, per ultima, si portò via anche lei. Matteo Vigliani divenne da quel momento in poi Matteo di Assuntina e lei divenne semplicemente Assuntina di Vallanzasca, (il feroce bandito della comasina).

Vigliani e la sua metà convolarono a giuste nozze, profittando di un mattino freddo che don Fruscittu aveva un funerale in un altra parrocchia. Livin’ lovin’ maid venne sparata da un mangianastri nuovo, di cui tutti ignoravamo la provenienza. La cerimonia era sempre la stessa: lo sposo portava due laccetti colorati e se li annodavano reciprocamente al dito, quindi tiravano fuori una bustina di polvere bianca e ci versavano un po’ di saliva. Anche la marcia nuziale rimase sempre la stessa. Più tardi ci accorgemmo che altri ragazzi e ragazze che non conoscevamo, fuggivano a piccoli gruppi verso la chiesetta del sacro cuore. Capitò di vedere anche ragazzi di altre scuole con dei laccetti simili ai nostri camminare per strada. In questi casi Grazia mi dava di gomito e  sorrideva. Quando il laccetto che avevo al dito si spezzò, Grazia me ne annodò un altro, rinnovando con quel gesto la promessa fatta. Anch’io fui felice di confermare con un altro nodo l’amore che mi univa a lei. Durante il tempo che durò il nostro rapporto confesso che ci furono anche delle volte in cui quel nodo venne rinnovato con minor entusiasmo e, qualche volta, per semplice routine. Perchè può accadere anche questo, che l’amore diventi routine. Quando percepii che questo stava per accadere, le regalai un anello vero, ma non servì a granchè, perchè Grazia non lo infilò mai al dito. Quasi sempre però, quel semplice gesto di sostituire il laccetto logoro fu fatto con semplice sincerità. Vedere il suo volto, chino sulla mia mano mentre, pazientemente, legava il piccolo anello al dito, mi emozionava sempre. La osservavo quando si ravviava dietro le orecchie i capelli che le sfuggivano e la amavo per quel gesto semplice eppure così femminile. Ma talvolta mi ritrovavo a pensare chi sarebbe stato di noi due ad annodare l’ultimo laccetto, sarei stato io o sarebbe stata lei? 

“Racconta cose incredibili su come era una volta. 

Vive, ama, è una donna davvero. 

Con il maggiordomo, la cameriera e tre domestici

Vive, ama, è una donna davvero.

 

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 13

Post n°42 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu


Origami

  

   Nove telefonate su dieci le perdo. Il telefonino non è mai stato il mio forte. Ne ho due, uno è sempre acceso, l’altro è spento. Quello acceso lo uso per lavoro, quello spento riguarda tutto il resto e rimane giù, sepolto in fondo alla tasca, senza alcuna utilità. Chi vuole lascia un messaggio nella segreteria telefonica. Oggi però ho acceso il mio secondo cellulare  e subito due squilli mi avvisano dell’arrivo di due nuovi messaggi. Il primo è di uno dei pochi amici che mi siano rimasti, si chiama Francesco e suona la chitarra in un modo straordinario. Lui ha una vera famiglia, con i quadri appesi alle pareti, le presine in cucina e una collezione di bustine di tè con tutti gli aromi più strani. Ha un vero mobiletto per i liquori e una chitarra che tira fuori quando vengono gli amici. Il secondo messaggio è anonimo, lo apro e leggo:

- Ho letto con attenzione l’ultimo capitolo che hai pubblicato, quello che parla del nostro matrimonio. Ho riso e pianto contemporaneamente, non mi accadeva più da tanto tempo, da quando stavo con te. Hai esagerato alcune cose, qualche particolare te lo sei inventato, ma è così, che lo ricordo anch’io. Appena torni a casa guarda nella casella della tua posta elettronica, c’è qualcosa per te. 

     G.

   Appena arrivato a casa butto sul divano la borsa, mi allento il nodo della cravatta e mi levo finalmente la giacca. Accendo il pc e accedo al browser della mia posta elettronica. Cerco la mail di Grazia e, appena la trovo, ci clicco sopra due volte. 

- Ciao Gigio, non aggiungo nient’altro, perché sono sicura che avrai bisogno di riflettere parecchio dopo che guarderai e leggerai le cose che ti mando. 

P.s. Penso che sei stato troppo duro con don Muzzetto. Le accuse sulle sue presunte attenzioni nei confronti dei ragazzini del coro sono ingiuste e infondate. - Poi però scrive ancora: - Quello è stato davvero il più bel giorno della mia vita. Io ti ho sposato “veramente” in quella chiesa, per me non è stato un gioco.

Grazia

   Il primo allegato è una fotografia che ci ritrae insieme. Portavo con orgoglio una testa piena di ricci, lunghi e tentacolari. Era una capigliatura monumentale, impegnativa, che richiedeva cure e attenzioni costanti. Lasciavo che i riccioli invadessero la mia testa senza nessuna guida. I capelli si attorcigliavano su se stessi e cadevano giù ammorbidendosi e diventando più lucenti. Ero convinto che esercitassero un fascino irresistibile sulle ragazze. Quando ero costretto a tagliarli, stavo male per giorni e mi vergognavo come un cane. Nella foto il mio sguardo è chino verso il basso e osservo qualcosa che è fuori campo. Grazia è al mio fianco. La fotografia è straordinaria nel mettere a nudo le persone. Quando si avvicina troppo al soggetto lo isola dal paesaggio, dall’architettura, perfino dalle nuvole che entrano dentro l’inquadratura. L’architettura reagisce con sobria eleganza alle allusioni dello scatto fotografico. Certi palazzi si concedono con sussiego e con nobile ironia al click metallico di quella macchinetta. La natura si lascia fotografare con placido disincanto e si offre rigogliosa, eppure con gran pudore, alle insinuazioni della pellicola o alle schede di memoria. Il ritratto è un terreno infido e scivoloso dove il difetto fisico, messo in evidenza, non ha la stesso fascino delle imperfezioni architettoniche o della natura che, al contrario, se ne giovano e ci appaiono più seducenti. Nel ritratto la macchina fotografica si avvicina al volto delle persone in modo indiscreto e privo di emozioni. Analizza la pelle come una sonda spaziale su un pianeta sconosciuto, mettendone in evidenza le rughe, gli avvallamenti e le asperità. Sono due occhi di donna che si avvicinano a pochi millimetri dal tuo naso e, fissandoti dritto in faccia, ti chiedono soltanto la verità delle cose. Non si può mentire, si può solo abbassare lo sguardo o non rispondere affatto. 

   Grazia ostenta uno sguardo limpido, fermo, leggermente increspato da un sorriso appena accennato. Si regge il mento con la mano sinistra e osserva l’obbiettivo mentre attende lo scatto. Sapeva bene come comportarsi davanti ad una macchina fotografica, quali strategie adottare, non per celare, al contrario, proprio per fare in modo che la macchina penetrasse quanto più in profondità possibile. Una volta mi gironzolò intorno per qualche minuto prima di chiedermi di posare per lei.

- Siediti su questa sedia, - mi disse - non devi fare niente, solo osservare il mirino, senza ridere nè parlare. Io mi sedetti e fissai l’obbiettivo, come  mi aveva chiesto. Attesi in silenzio, immobile davanti alla macchina fotografica, ma  il click non arrivava. Continuavo a fissare la lente mielata  cercando di stare fermo, mi sentivo ridicolo e mi stavo convincendo che si stesse prendendo gioco di me. Ciononostante non mi muovevo, non protestavo, volevo vedere fino a che punto si sarebbe spinta. Lei non parlava, fingeva di essere impegnata in qualcosa e non accennava a premere il pulsante. L’attesa si stava facendo insopportabile e non riuscii a soffocare una risata nervosa. Alzai la mano per coprirmi la bocca e Grazia scattò proprio in quell’istante. Mi sorprese così, indifeso, stanco,  nudo davanti all’occhio impietoso della sua macchina fotografica. Lei fece uno schiocco di soddisfazione con la lingua e disse che era una foto magnifica. L’avrei uccisa in quello stesso istante. Ma torniamo alla foto che mi ha inviato ora e che ci ritrae insieme da ragazzi. E`una foto molto bella, “lei” è bella. I suoi capelli biondi le scendono lunghi sulle spalle, gonfi e morbidi, leggermente ondulati, mossi come una romanza d'opera, come Ramble On dei Led Zeppelin.

  " Leaves are falling all around, 

it's time I was on my way. 

Thanks to you, I'm much obliged

for such a pleasant stay. 

But now it's time for me to go, 

the autumn moon lights my way".

   Le lunghe sopracciglia le incorniciano gli occhi e un orecchino con un gancetto d’oro fa capolino sotto un onda di capelli. Non ricordo chi scattò quella foto miracolosa, ma riuscì a cogliere in pieno la nostra vita in quel preciso istante. Gli occhi luminosi di Grazia interrogano la mano che sta per premere il pulsante della macchina fotografica, la sollecitano anzi a non avere incertezze, nè tentennamenti. E`come se il suo sguardo vigile ordinasse all’apparecchio fotografico:

   - Ora, è il momento! 

   E`pronta, si è aperta, il suo sguardo è diventato puro, trasparente, l’anima, finalmente, si mostra. All’otturatore adesso, al diaframma, al tempo d’esposizione, alla sensibilità della pellicola, alla luce, ora, fare il proprio lavoro. Io osservo con attenzione l’oggetto che mi rigiro tra le mani, ricordo benissimo che cos’era. Avevo sempre dei pezzetti di carta nelle tasche dei pantaloni e con quelli costruivo delle piccole figure di animali. Questo tipo di arte, perchè di arte si tratta, si chiama Origami. E` una parola giapponese che significa letteralmente “piegare la carta”. Alla base dei princìpi che regolano l'origami, vi sono gli insegnamenti shintoisti del ciclo vitale e dell'accettazione della morte come parte di un tutto: l’oggetto che si ottiene dopo varie piegature della carta, nella sua complessità e fragilità, è simbolo del tempio shintoista che viene ricostruito, sempre uguale, ogni vent'anni. La forma viene ricreata e così rinasce, in un eterno ciclo vitale. I primi origami che si realizzano sono solitamente le barchette e gli aeroplanini che fanno disperare i maestri di scuola, poi si passa a forme più complesse e a tipi di piegatura con nomi ben precisi, partendo da delle basi su cui si costruiscono forme a volte assai complicate. Le basi principali che qualunque principiante impara sono fondamentalmente sette: ad aquilone; quadrata; della gru; del pesce: triangolare; della rana e del fiore. Quando si sono imparate queste prime fondamentali forme allora, e dopo un lungo e costante allenamento, si può passare a quelle più impegnative. Si può lavorare con ogni tipo di carta, ma è molto interessante lavorare con la carta delle gomme da masticare, fatta di stagnola e quindi molto facile da piegare. 

   Forse eseguivo l’origami del fiore a otto petali in quella foto. Richiede quattordici passaggi precisi e non sempre riuscivo a portarli a compimento. A volte mi perdevo e veniva fuori una figurina sgraziata che niente aveva a che vedere con la armoniosa simmetria del fiore giapponese. E`una passione antica, questa per gli origami, non saprei dire chi me l’abbia trasmessa. Occorre pazienza e concentrazione, ma ti lascia libero di ascoltare o di pensare ad altre cose. Ancora oggi, quando parlo con qualcuno, distolgo l’attenzione dal suo volto con questo innocente passatempo. Mi da modo di riflettere e di ponderare con attenzione quello che devo dire, mi da la possibilità di astrarmi e valutare le cose in modo diverso. Talvolta ho detto parole molto dure a persone che chiedevano un mio appoggio mentre piegavo con le dita questi graziosi pezzi di carta stagnola. Do forma alle zampine di minuscoli animali, costruisco steli e corolle di delicati fiori mentre a volte sto dicendo cose delle quali mi dovrei vergognare. Mi è capitato di intuire le lacrime di chi mi stava di fronte, dall’altra parte della scrivania, mentre mi scervellavo per una piega che non riuscivo a ricordare e poi di sentire il rumore della porta che si richiudeva, senza che io sollevassi neppure lo sguardo. Solo allora riponevo il delicato fiore dentro una scatola in un cassetto della scrivania. Alcuni di quegli origami non li ho gettati via,  li ho datati e ora li conservo dentro questi barattoli di vetro che, appena si riempiono, sigillo con la ceralacca e vi incido un monogramma. Sono a casa mia, allineati sopra delle mensole a muro, tutti ordinati cronologicamente. Lo dicevo che questa foto era speciale, ecco che mi sono lasciato andare a confessioni su cose che non avrei voluto menzionare. In questa foto, io e Grazia, siamo seduti sullo schienale di una panchina e poggiamo i piedi dove solitamente ci si dovrebbe sedere. Ci piaceva così allora. Registro le foto e le conservo dentro una cartella. 

   Apro il secondo allegato che mi mostra dei pezzetti di spago che mi sono familiari, sono contorti e logori. Non mi meraviglia affatto che li abbia conservati per tutti questi anni, però non saprei dire se sono quelli che tenevo io al dito oppure i suoi, li conservava tutti, con cura religiosa, mettendoli tra due sottili fogli di carta velina. 

   Il terzo allegato invece mi sorprende. Nella foto vedo dei cocci di porcellana, pezzi rotti dello stesso servizio di piatti suppongo, visto che mostrano gli stessi colori e la stessa decorazione che si ripete in ogni frammento. Una linea verde, spezzata da foglie verdi accartocciate,  si intreccia con altre linee che culminano in roselline colorate con delicate tonalità di rosso. Il bordo del piatto doveva avere anche una leggera cornicetta oro. I cocci sono disposti con studiata casualità sopra un panno di velluto scuro che ne fa risaltare le forme frastagliate e i colori, che appaiono così più vivaci. Il titolo della foto è poco originale: “Cocci di un matrimonio”. Lo smalto riflette il flash della macchina fotografica e si potrebbe pensare al ritrovamento di un prezioso reperto da parte di un sagace archeologo. Ricordo ancora molto bene il rumore dei piatti che si rompevano ai nostri piedi, facendo volare le schegge dappertutto. Vedevo i cocci saltellare vicino ai nostri piedi e gli amici che gridavano qualcosa e ridevano. Quando due persone si sposano bisogna rompere i piatti di casa ai loro piedi, è un gesto beneaugurale. Il piatto contiene chicchi di grano, petali di rose, grani di sale e monete che vengono gettati agli sposi. Quando il piatto è finalmente vuoto allora lo si deve rompere ai loro piedi. 

   Archivio anche il terzo allegato e clicco sulla foto numero quattro.

Appare un ragazzo, nell’apparente occupazione di studiare alcuni testi disposti in modo casuale. Alcuni sono aperti, qualche altro fa da leggìo o da appoggio a quello che sta davanti allo studente. La foto è presa di tre quarti, si vede una sigaretta sulla mano destra alzata come ad allontanarla dalla sacralità dei libri aperti. Il gomito sinistro è puntato sul tavolo e regge il peso del corpo che vi si appoggia. La mano sinistra è completamente infilata nelle profondità di una testa riccioluta, dalla bocca esce uno sbuffo di fumo che viene spinto verso l’alto intenzionalmente. Il ragazzo indossa una camicia sbottonata, ha le maniche piegate fino ai gomiti e lascia intravedere una t-shirt grigia a maniche lunghe. Ho l’impressione che questa foto sia stata pensata e preparata con cura, sembra una ricostruzione attenta di un piccolo set casalingo, dove i libri sono disposti con studiata casualità. Persino lo sbuffo di fumo che esce dalla bocca è voluto per mostrare un giovane che studia e si concede una breve pausa fumando una innocente sigaretta. Il fumo azzurro si staglia sullo sfondo luminoso di una finestra la cui luce è temperata da una tenda chiara che ne smorza l’intensità, ma allo stesso tempo ne diffonde il bagliore sulle pareti. Il ragazzo non pare sorpreso dalla presenza del fotografo e tutta la messinscena lascia intuire che egli sia concentrato nello studio o nella preparazione di un esame imminente e importante. Eppure l’espressione del volto ha qualcosa di artefatto, di non vero. Una rada barbetta gli scurisce il bel volto dandogli un aria da rivoluzionario idealista. Tutto mi appare pericolosamente familiare in quel ragazzo, dai capelli lunghi e ricci, al modo, fin troppo disinvolto, di stare seduto sulla sedia, mettendone a dura prova la stabilità e l’equilibrio. Persino nel suo evidente non-studiare colgo sfumature che conosco e ricordo bene. Una profonda inquietudine mi riprende, conosco molto bene questo stato di sospensione della coscienza, come un vuoto scavato dalle parole, dalle immagini che si solidificano a strati e distruggono la capacità di guardare alle cose col giusto distacco. La chat di Facebook che tenevo aperta si attiva e fin dalle prime parole riconosco lo stile diretto di Grazia.

- Martino, sei li?

- Si, guardavo gli allegati che mi hai mandato.

- Ho buttato via tutto. L’ho fatto appena te l’ho spedita, non ho tenuto niente. A te ora conservarle, se vuoi.

- Grazia, non ti pare che sia giunto il momento di parlare del ragazzo che vedo in tutte le foto che mi mandi? Non mi ha dato l’impressione di uno studente modello, anche se il set che hai allestito per lui lascerebbe intendere il contrario.

- Neppure tu lo eri. Non è necessario essere degli studenti modello per quello che la vita ci costringerà a fare successivamente. Che direbbero i tuoi colleghi di lavoro se sapessero che tu non eri esattamente il primo della classe? Hai mai parlato loro delle fughe al mare o nei bar dove andavi a passare il tempo, oppure dei negozi dove andavi a rubare? Che penserebbero quei clienti che si rivolgono a te con fiducia, per affidarti i risparmi di una vita, se conoscessero i tuoi voti in matematica? Che farebbero quei clienti che ti portano i loro soldi se tu dicessi loro che facevi la cresta sulla benzina? Martino, hai imparato a fidarti delle sole apparenze ora?

- No, però osservo come si veste la gente quando viene a parlare con me e si mette seduta dall’altra parte del tavolo. Capisco immediatamente cosa si aspetta e valuto subito ciò che fa al caso loro. So consigliarli bene e non faccio la cresta, ma il loro guadagno porta dei soldi anche a me.

- Bene Grigio, allora vuol dire che hai fatto un bel passo avanti.

- Grazia?

- Si Martino?

- Non avevi abortito vero?

- Non quella volta, l’ho dovuto fare in seguito. Questo bambino è nato perché voleva nascere, strillava forte già su quella spiaggia al mare dove venne concepito. Strillava forte ai giardini, mentre te ne andavi via col tuo nuovo maglioncino colorato, poco adatto al brutto momento che stavamo passando. Quel bambino ti chiamava per nome, col tuo vero nome, ti diceva di tornare indietro e di accompagnami a casa, di non lasciarmi sola in mezzo alla strada. Ma tu non udisti la sua voce, era troppo flebile ancora e niente di lui era già distinguibile.

- Lui, cioè il bambino…?

- Lui, si. Era molto bello, fino a che era un bambino, poi è cresciuto e di essere bello non gliene importava più niente.

- Dov’è ora? Dovrebbe avere 28 o 29 anni, che fa adesso?

- No Martino…

- Lavora di già, ha un impiego, ha un titolo di studio?

- Ti prego, no.

- Ha bisogno di aiuto? Avete bisogno di aiuto? Ho del denaro, potrei…

   A questo punto la finestrella della chat si chiude bruscamente e mi dice che Grazia si è disconnessa. Non so che fare, aspetto e provo a ricontattarla con la sua e-mail normale senza ottenere nessun risultato. Mi ricordo di avere il suo numero ancora conservato nella memoria del cellulare. Il telefono squilla a lungo prima che si decida a rispondere con una voce che nel frattempo le si è indurita.

- Sai che farò in questi giorni? – mi dice – scriverò io il prossimo capitolo del tuo racconto, perché no? Immagino che corrisponderà alla traccia numero sette, quella che ha per titolo Ramble on, girovagare, vuol dire così. Ed è quello che ho fatto, dopo che me ne sono andata via, dopo che ho cambiato città. Ho girovagato da un posto all’altro, da un ospedale ad una comunità e sempre con il bambino attaccato a me. Ho tentato anche di liberarmene, ma non ci si può disfare di un figlio. Puoi cambiare lavoro, abbandonarlo e ricominciarne uno nuovo e diverso, puoi abbandonare un uomo o una donna e dimenticarti di averli mai amati, puoi cancellare perfino i genitori dalla tua vita, ma un figlio no, quello è per sempre. Lui è li che ti ricorda ciò che devi fare, non te lo chiede per cortesia, ti obbliga a fare quello che va fatto. Sono rimasta a Torino e lui è cresciuto con me ed è qui che ci troviamo ancora, ma non viviamo più insieme. Ora abitiamo in case separate, la mia è grande e vuota, mentre la sua è piccola, molto piccola.

    Non ho la più pallida idea di quello che ti scriverò, sarà forse un racconto sconclusionato, senza capo nè coda. Lascerò che le parole escano fuori così come gli gira a loro, non rileggerò nè correggerò gli errori di battitura mi libererò di tutto, saranno cazzi tuoi ti avverto. Ciao martino, mi ha fatto piacere risentire la tua voce, è ancora e sempre la stessa voce da stronzo, ed è ancora tale e quale come la ricordavo.

- La tua invece è cambiata, hai un accento da signora piemontese ora.

- Lo so che ci vuoi fare? Ciao.

- A presto.

   “Ah certe volte mi stanco così tanto 

Ma so che c'è una cosa che devo fare 

Girovagare 

E ora è tempo di cantare la mia canzone

Giro il mondo perchè devo trovare un ragazzo sulla mia strada.”

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 14 (I.parte)

Post n°41 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

 

Ramble on  (1. Parte)

 

     Questa città così lugubre e bella così inutilmente diritta fatta di alberi e angoli che danno riparo e fresco al niente più assoluto nelle giornate d’estate che annientano ogni residua capacità di ragionare e porre ordine tra gli uomini e le cose con neppute una che sia una curva a forma di esse dolce che ammorbidisca l’ineffabile noia di questo cornicioni meravigliosi di marcapiani che affettano palazzi abitati da inquilini guardiani di queste stupende architetture severe e grigie composte da mattoni scabri neri di fuliggine 

   Qui abitava ancora una zia sorella di quel mio padre silenzioso e fumatore che hai ricordato all’inizio del tuo racconto  Le nostre origini sono qui in questa bella città romana del nord che una centuria di militari in marcia dimenticò alle sue spalle con i fuochi ancora accesi sotto la cenere e le loro prostitute che si attardavano a scaldarsi il mangiare e non lasciarono più spegnere quel fuoco Le tende dei soldati vennero subito sostituite da pareti di legno dolce e poi da mattoni e non si presero neanche la briga di cambiare l’assetto delle strade lasciando che le case sorgersero ordinate al posto esatto delle tende

   In questa città squadrata e rigida era nato mio padre in questa città lugubre e decadente avevo studiato i primi anni della vita mia poi lui venne trasferito e ce ne andammo via spegnendo anche noi il nostro piccolo fuoco come quei soldati di roma

   In questa città rimase una sorella di mio padre ed è da lei che tornai quando decisi di tenere il bambino lui e mia madre mi chiesero solamente se tu saresti stato in grado di accettare la paternità e quando io gli risposi di no mi chiesero cosa intendessi fare se tenerlo oppure abortire loro conoscevano qualcuno e io dissi che volevo il bambino per me allora il babbo telefonò alla zia e  senza tanti preamboli le spigò la situazione quindi preparammo i bagagli e lui stesso mi accompagnò qui a torino da sua sorella rimase con noi per alcuni giorni per assicurarsi che non mi mancasse niente dopo se ne ripartì e da allora non lo rividi più  e di proseguire gli studi non se ne parlò per molto tempo.

 Alla 36ma settimana si ruppero improvvisamente le acque all’una di notte circa  e così col pigiama e poche altre cose la zia mi portò di corsa al pronto soccorso Il giorno dopo nacque il bambino e subito lo trasferirono al piano di sotto e lo misero dentro un’incubatrice di vetro e plastica dove lo potevo toccare solo con dei guanti sterili di lattice e dovevo indossare un camice verde di tela rigida e una cuffietta con l’elastico in testa mentre lui se ne stava immobile dentro quella specie di acquario con la pelle scura e i piccoli pugni stretti una benda gli proteggeva gli occhi dall’insistenza dei raggi di una lampada 

   Ogni tanto aveva un sussulto e agitava i piedini in aria aveva dei piccoli sensori attaccati al petto per tenere d’occhio il battito veloce del suo cuoricino e aveva sempre i capelli bagnati di sudore sembrava così lontano e coraggioso dentro la sua casetta dove io potevo entrare solo con le mani guantate senza potergli toccare la pelle con la mia pelle Questo ci faceva soffrire tutt’e due le infermiere dicevano di no che il bambino stava bene ma io sapevo che non era così

    Quando uscì fuori dal mio grembo me lo fecero stringere solo per un attimo troppo breve perchè lui potesse avere il tempo di attaccarsi al mio petto che rimase sempre privo di latte e questo mi annientò avevo il desiderio doloroso di prendere la testa del mio bambino e di schiacciarmela con forza contro il seno volevo che bevesse il mio latte volevo sentire la sua bocca che si succhiava la mia vita che sarebbe diventata la sua ma questo non accadde mai e per quindici giorni se lo tennero dentro quella bara di vetro e mai prese il mio latte ne mai lo nutrii come ogni madre dovrebbe fare col proprio figlio Mi prese una rabbia che non potevo dominare e piangevo in continuazione 

   Nella stessa stanza dell’ospedale dove stavo c’era un’altra donna che stava sempre voltata verso il muro e non riceveva mai visite  di parenti o di uomo nessuno veniva mai a trovarla Qualche giorno prima partorì un bambino malato di reni e dovettero portarlo con l’elicottero in un’altro spedale ma quel bambino morì e la madre rimase sola con quell’unico muro ad ascoltare il suo pianto Le altre donne e i dottori mi dicevano di non guardarla che il mio bambino stava bene che aveva solo bisogno di rinforzare i suoi piccoli polmoni

   Dopo quindici giorni me lo restituirono come si restituisce un oggetto smarrito senza cerimonie ne complimenti e io me ne ritornai a casa dalla zia ti manderò una fotografia del bambino dentro l’incubatrice la sua prima mamma cos’ì lo potrai vedere con quelle sue manine strette e la pelle rugosa che i bambini hanno appena nascono e che somiglia tanto a quella dei vecchi

     I rapporti con la zia si deteriorarono rapidamente il bambino piangeva in continuazione ma io non mi alzavo più per dargli da mangiare e allora era lei che doveva preparare il latte e glidoveva riempire il biberon Se lo teneva in grembo e gli parlava piano all’orecchio con voce calma di donna lei entrava in camera e mi diceva Grazia il bambino piange ha fame oppure Grazia c’è da cambiargli il pannolino ma io me ne restavo girata dall’altra parte come quella donna all’ospedale alla quale era morto il bambino Non avevo niente da dargli non avevo latte e allora la zia prendeva il pannolino e metteva il bambino sopra il fasciatoio gli puliva il sederino e poi gli scaldava un po’ di latte e lo rimetteva a dormire

   Il pianto del bambino mi angosciava e non sapevo o non volevo rispondere a quegli strilli acuti non riuscivo a realizzare che ero io che dovevo prendermene cura lo immaginavo sempre dentro l’incubatrice di vetro e per me lui era rimasto li chiuso tra quelle quattro minuscole pareti il bambino che piangeva non era mio apparteneva alla donna voltata verso il muro quella che le infermiere dell’ospedale mi dicevano di non guardare

   La zia mi prendeva dolcemente per mano e mi diceva ecco vedi è il tuo bambino è bellissimo accarezzalo toccalo bacialo ma io non riuscivo a farlo rimanevo con la mano sollevata e le dita brancolavano nel vuoto articolavo qualche parola ma non riuscivo a fare niente di più e così la zia fu costretta a prendersi cura di tutt’e due e mentre il bambino cresceva io regredivo

   Presi ad uscire e a frequentare le zone del mercato e della stazione centrale di porta palazzo dapprima uscivo solo per qualche ora con la scusa di fare qualche piccola spesa ma poi iniziai ad asentarmi per tempi sempre più lunghi e finii col non tornare a casa per giorni interi La zona attorno alla stazione centrale era una zona malfamata di spaccio di ogni genere di droghe e di piccola malavita dedita al furto e allo scippo conobbi un tizio che aveva il bancghetto delle tre carte giù nel sottopassaggio della stazione spennava i polli col gioco più vecchio del mondo 

questa la vonce questa la perde  prego osservare le carte non c’è trucco non c’è inganno tu ci saresti cascato sicuramente lo so perchè un giorno che noi stavamo attorno al banchetto e fingevamo di puntare in attesa che qualche gonzo si avvicinasse si presentò uno uguale a te tanto che feci un salto e trattenni un grido il mio amico mescolò le carte e le dspose lentamente sul tavolino quello ci casca e indovina la carta il mio amico gli mette in mano centomila lire e quello non sa cosa fare capisce di essere caduto in trappola e gli prende il panico e così invece di puntare si allontana spaventato col biglietto da cento in mano allora uno del banco con una cicatrice in faccia lo segue e gli dice che deve tornare indietro e continuare il gioco quello sbianca butta per terra i soldi e riesce a fuggire via a gambe levate ridemmo ma io ero contenta che quel ragazzo fosse riuscito a scappare 

    Iniziai a fumare a prebndere anfetamine e pasticche che buttavo giù senza neanche chiedere cosa fossero bevevo vino e birra da pochi soldi attaccandomi direttamente alla bottiglia il passo successivo fu l’eroina il laccio emostatico stretto tra i denti mentre mi infilavo l’ago nel braccio Entravo nelle farmacie e senza alcun pudore chedevo  uno e uno  con la formula che usano tutti i tossici  una siringa e una fiala di acqua  per preparare l’eroina tornavo dalla zia quando mi cacciavano via dalle case dove chiedevo da dormire e una di queste volte che il bambino aveva già due anni e mezzo lei disse che avremmo dovuto svezzarlo dal pannolino disse cghe era estate ed era il tempo giusto disse che dovevamo avere molta pazienza e che al bambino gli ci sarebbe voluto un po’ di tempo per imparare a fare i suoi bisognini dentro il vasetto o dentro il water diceva pure che ogni volta che avrebbe fatto la pipì o la cacca per terra sul pavimento non avremmo dovuto sgridarlo ma che gli dovevamo indicare quello che aveva fatto e dirgli no no no e mostrargli il bagno dove avrebbe dovuto farla così gli levammo il pannolino e lui prese diligentemente a fare la pipì e la cacca dove meglio gli ispirava e la zia sempre a ripetergli no no no e a condurlo in bagno per fargli vedere il cazzo di cesso dove avrebbe dovuto già farla secondo i suoi calcoli ma il bambino sembrava non capire e a me sembrava perfino che ci prendesse un po’ di gusto a fare le sue cose lì per terra finalmente libero dall’ingomrante pannolino 

   Un pomeriggio che la zia si assentò e io rimaso sola col bambino lui fece prima la pipì e subito dopo quasi nel medesimo punto fece anche la cacca  mi arrabbiai così tanto che gli impiastricciai la faccia con i suoi stessi escrementi mentre gli gridavo no no no il bambino strillava e piangeva e io per non sentirlo mi chiusi in camerae con la testa rivolta al muro e quando la zia rientrò successe il finimondo trovò il bamnbino sporco che girovagava per la casa imbrattata di cacca non mi chiamò neppure prese il bambino e lo lavò da capo a piedi pulì e lavò per terra mise dentro la lavatrice tutti i capi sporchi e macchiati quindi gli preparò da mangiare e poi lo mise a dormire Quando ebbe fatto tutte queste cose aprì la porta della mia stanza e mi sibilò di prendere lo stretto neccessario e di andarmene

   Non ricordo bene dove passai quelle prime notti forse da qualche conoscente o giù alla stazione ricordo però che qualche giorno doèpo una ragazza lasciò il minuscolo monolocale in via salerno nel quale abitava e io le subentrai nell’affito Era una stanzetta di non più di venti metri quadrati a un chilometro dalla stazione con una piccola toilette occupata per intero da una enorme vasca da bagno ma priva del water che si trovava fuori nel ballatoio condominiale La stanza era sommariamente arredata con mobili rimediati da avanzi di altri appartamenti e metà dello spazio disponibile veniva occupato dal grande letto matrimoniale ribaltabile che i primi tempi tiravo giù la sera ma che poi rimase fisso sul pavimento Adiacente alla stanza c’erano due scale che davano silla porta col vetro smerigliato del bagno e che finivano dove poggiava il letto

   In questo appartamento misero ricevevo in quel periodo quelli con i quali mi facevo di eroina fumavamo e bevevamo e presto cominciai anch’io a spacciare quando i soldi per comprare le dosi quotidiane non bastarono più

   In quella situazione così poco adatta all’amore conobbi non ricordo più come un ragazzo di roma che ogni settimana si metteva sopra un treno e veniva a trovarmi Io gli confessai subito che mi facevo di eroina e mi sembrò incoraggiante dirgli che potevo smettere quando volevo gli parlai anche del bambino e lui disse che non aveva problemi a pprovarci disse che insieme ce l’avremmo fatta e che era innamorato di me e che pure io presto mi sarei innamorata di lui

   Non era male c’era qualcosa in lui che mi ricordava te magari era lo stesso che volevamo fregare con le tre carte giù alla stazione era pulito e veniva su da roma vcon regolarità svizzera Ogni venerdì sera lo anfdavo a prendere all’uscita della stazione e quando lui mi vedeva e ci abbracciavamo io facevo in modo che non mi guardasse direttamente negli occhi poi passavamo a casa dove lui lasciava il suo bagaglio e ce ne andavamo a scoprire le stradine meravigliose del centro e a mangiare in qualche ristorante carino tanto pagava sempre lui

   Diceva che presto mi avrebbe levato da quella topaia che mi avrebbe trovato un’altro appartamento piccolo ma più confportevole e carino gli piaceva fare progetti per me e per lui prlava del suo lavoro diceva che poteva chiedere un trasferimento qui al nord insomma era sicuro di se e di quello che proponeva io assentivo e gli dicevo sempre di si intanto che mi accendevo una sigaretta dopo l’altra

   L’ultima volta che si fevce roma torino per me commisi l’errore di farmi un buco un’ora pprima che scendesse da quel treno del cazzo e quando mi vide non alzò la mano come al solito ma mi venne sotto gli occhi e me li fissò vide le pupille dilatate e dovette vedervi anche l’appartamentino carino che aveva progettato con i fiori che appassivano e ci vide anche le serate al ristorante col posacenere pieno di mozziconi di sigarette vide il ballatoio col cesso dentro e le nostre tristi serate a letto e pensò che ne avesse avuto abbastanza 

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 14 (II.parte)

Post n°40 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

 

Ramble on  (2. parte)

 


   Mi guardò per un istante solo e capì tutto quello che c’era da capire ne nacque una discussione interminabile che proseguì a casa e per quella sera niente ristorante io mi ero fatta una pera per essere allegra e brillante ed ecco il risultato niente progetti niente coccole niente sol dell’avvenire lui mangiò quel che era avanzato nel frigorifero e io tirai giù il lettone dall’armadio non facemmo neppure l’amore e io mi voltai verso il muro

   Non ero arrabbiata mi sentivo solo molto stanca e avevo voglia di dormire ma lui no si rigirava continuamente cambiava posizione e sbuffava per il caldo soffocante della stanza era giugno e sembrava che avessero acceso un fuoco sotto il nostro appartamento lui si rigirava in continuazione faceva muovere tutto il letto e non riuscivo a prender sonno allora mi voltai come una vipera verso di lui e gli gridai  vuoi startene fermo stronzo 

   Lui rimase immobile ma dopo qualche minuto lo sentii alzarsi e dirigersi verso il ballatoio aprì la porta finestra e respirò a pieni polmoni grandi boccate d’earia dal cortile quindi trientrò prese coperta e cuscino e con un asciugamano si sistemò alla bellemeglio dentro la vasca da bagno Si adattò in quella scomoda posizione per qualche ora poi verso le cinque deòl mattino lo udii alzarsi e aprire piano la porta del bagno 

   Con la poca luce che filtrava dall’esterno cercò le sue cose si infilò i pantaloni si abbottonò la camicia e finalmente aprì la porta di casa se la richiuse piano alle spalle e lo sentii scendere le scale il suo passo mi sembrò leggero feci in tempo a sentire il portone del palazzo richiudersi con un tonfo prima di riaddoormentarmi.

   La casa non era molto distante dalla stazione prese il primo treno per roma e me lo immaginai rilassato nello scompartimento vuoto con i piedi gettati sull’altro sedile il giacchetto tirato su a dormire finalmente lontano da quella pazza non lo rividi mai più ovviamente

   Le cose andavano di male in peggio i soldi che riuscivo a tirare su con il mio piccolo giro di tossici non erano sudfficienti a pagare le mie dosi che aumentavano di prezzo e di frequenza rubavo qualcosa qua e la e le tue lezioni su come rubare nei supermercati senza essere sscoperti mi tornarono utili ma anche quello non era più sufficiente così mi ritrovai insieme ad altre ragazze nelle mie stesse condizioni a girare dalle parti del mercato nelle viuzze interne a cercare uomini disposti a pagare e una sera che uno di questi finiva di tirarsi su i pantaloni si presentò mia zia in mezzo a quello squallore e mi vide stanca e sporca Non disse niente mi prese per mano come si fa coi bambini e mi portò via verso la macchina che aveva parcheggiato poco più in la mi aprì la portiera e mi fece salire Mi riportò a casa come in quei filmamericani in bianco e nero che danno nel periodo di natale per far sembrare tutto una favola e i buoni hanno due ali bianche da angelo io ero strafatta e sporca e forse mi sbagliavo ma mi parve che a mia zia gliene spuntassero due sulle spalle e mi sembrò che mi parlasse in un inglrese dolce  come with me little mum your baby is waiting for you 

   Quando arrivammo a casa dovetti aggrapparmi alla ringhiera delle scale mentre lei apriva le ante del vecchio ascensore  good evening wich floor please  mia zia mi afferrò sottobraccio e mi spinse dentro richiuse le ante e schiacciò il pulsante thirth floor thank you io fissavo il pulsante di bachelite bianco con inciso il numero tre in un rosso sbiadito e sentivo la lettera z fissa nel mio cervello  zzzzzzzzzzzzzzzzzzzz  come nei tralicci dell’alta tenszione  vidi la zia riaprire le ante  thank you good bye happy christmas happy new year  e poi armeggiò con le chiavi di casa parlottò con una signora senza le ali dentro l’appartamento e quando questa se ne andò disse arrivederci e basta mi tolse la giacca a vento logora e la depositò come una reliquia sopra la spalliera della poltrona rivestita con una tela a fiori bianchi e rosa di una tristezza senza fine  La zia si avvoicinò mi appoggiò delicatamente una mano sulla spalla e mi guidò verso la stanza del bambino vittorio dorme disse vittorio  domandai io imbambolata il tuo bambino disse lei 

   Socchiuse la porta e fece filtrare una lama di luce mi spinse dentro e mi avvicinai al suo letto aveva il braccio sotto al petto e la testa voltata verso il muro  dormiva La zia richiuse la porta e ci abbracciammo e ci mettemmo a piangere insieme Quella sera dormii su un letto vero finalmeente senza siringhe e senza uomini ubriachi e vecchi con addosso quel puzzo di miseria e solitudine

   La zia mi portò in una comunità di recupero e li rimasei per oltre un anno mi fecero lavorare duramente e imparai a fare il pane e a cuocerlo a curare la vite strappando le erbacce che la soffocano Con le mani imparai a mungere qualsiasi animale da latte e a starmene in ginocchio per raccogliere a mano le olive Imparai ad alzarmi quando tuonava forte e pioveva improvvisamente per recuperare i panni stesi ad asciugare imparai l’arte di stare zitta e di ubbidire senza protestare quando mi veniva dato un ordine fu un anno duro cazzo e quando la zia venne a dirmi che mi aveva trovato un impiego e che presto sarebbe venuta a prendermi e portarmi via di lì le fui immensamente grata avrei avuto un lavoro vero fuori della comunità 

   Mi trasferii appena fuori torino in un centro dove curavano i matti e che era stato un manicomio ma che adesso i pazienti anzi gli utenti come mi insegnarono a chiamarli potevano muoversi liberamente mi assunsero in una cooperativa che si sarebbe dovuta occupare del loro reiserimento nel tessuto sociale e produttivo io dovevo solo svolgere un lavoro di sorveglianza stavo bene con loro con i matti intendo mi sentivo libera e completamente a mio agio Il nome della cooperativa non poteva essere più azzeccato Loisir che vuol dire gioia facevo dei turni li aiutavo a mangiare ad andare al bagnio a spogliarsi e a vestirsi li imboccavo e giocavo a carte con loro lo sai che i malati di mente barano sempre Mi occupavo anche della piulizia dei corridoi e delle camerate e una volta alla settimana facevo anche il turno di notte

    Lacvoravo per la cooperativa ma niente di gquel che guadagnavo mi veniva dato personalmente lo stipendio che mi spettava veniva versato su un conto corrente postale intestato a mia zia che provvedeva alle mie piccole spese e a quelle più impegnative del bambino che nel frattempo cresceva dove stavo io non avevo bisogno di soldi badavo ai matti e loro senza rendersene conto badavano a me

   Quando il bambino compì sei anni la zia organizzò una piccola festa con la torta le candeline e tutto quello che serve c’erano i suoi amichetti intorno che gli portarono dei pacchettini colorati la zia mi chiese se me la sentivo di partecipare e io le risposi di si così da quella sera tornai a casa lei mi parlò a lungo con voce ferma e dolce moi disse che il bambino aveva bisogno di me e mi chiese se volevo riprendere ad aver cura di lui Non saprei  le risposi  guarda che ormai la cacca la fa in bagno mi disse con una punta di ironia che ci fece ridere entrambe poi entrai nella sua sua cameretta e c’era una lampada accesa che proiettava sulle pareti figure colorate di cavalieri e astronavi 

   Lo vidi grande con le spalle ben formate e il profilo del volto che era il tuo e pensai a dove potevi essere in quel momento se dormivi anche tu nella stessa posizione Tuo figlio teneva la mano appoggiata sul cuscino e gli fissavo le palpebre e avevo paura che si svegliasse e che trovasse sua madre pazza che lo fissava si sarebbe spaventato certamente respirava emettendo un suono leggero e il suo sonno sapeva di buono come quel pane che avevo imparato a cuovcere

   Non tornai più a dormire dai matti solo qualche volta per i turni settimanali di notte Andavo da loro al mattino e nel pomeriggio stavo di nuovo a casa col mio bambino e con la zia che mi dava sicurezza e assoporai pienamente il modo disinvolto con cui vittorio pronunciava la parola mamma una parola che annulla in un colpo solo ogni tua certezza precedente   

   Lui intanto frequentava la prima elementare e bisognava stargli dietro per fargli imparare le prime regole dell’alfabeto a riconoscere le vocali e le consonanti a dividere le parole in sillabe e aiutarlo nelle prime semplici letture


La+ma = Lama  

Li+ma = Lima  

Me+le = Mele  

Ma Me Mi Mo Mu  

   

   Leggi disegna e riscrivi in corsivo lume mela mamma 


   Alla parola manmma abbinò un disegnio  che ti voglio mandare in allegato è la prima raffigurazione che ha fatto di me non compaio di fronte ma mi ha rappresentata voltata mi si vede la nuca e le spalle ma non il volto Era un bambino sveglio e imparava le regole grammaticali con una facilità sorprendente che mi lasciava senza parole 

      Gli anni della scuola elementare furono molto intensi e volarono via in in lampo ma il suo temperamento rimaneva chiuso e scostante sopratutto con gli altri bambini li teneva a distanza e non condivideva volentieri i suoi giochi con loro pretendeva di essere lui a dettare le regole  e quando qualcosa andava storto oppure qualcuno lo offendeva  reagiva bloccandosi si guardava intorno e rimaneva immobile poi ostentando indifferenza se ne andava

   Ricordo che una sera mi si avvicinò e mi chiese di dargli un bacio me lo chiese in modo diretto ed esplicito e mi resi conto che questa cosa di baciarlo io non l’avevo mai fatta cioè non l’avevo mai baciato capisci e lui mi chiese esattamente questo pose il problema a modo suo senza accuse senza giri di parole chiese il bacio che sapeva gli spettava come un diritto e io gli diedi un buffetto sulla guancia carico di imbarazzo accompagnato da un bacio frettoloso nettamente al di sotto di ogni sua minima aspettativa si staccò da me che cercai tardivamente di trattenerlo e non ripetè una seconda volta questa richiesta mi sembrava di sentire soggezione di quel bambino così chiuso 

   Una chiusura che però non esisteva anzi letteralmente crollava con la zia con la quale giocava e rideva liberamente mi accorgevo con dolore della complicità che li univa a volte esibita e ostentata come segnale di esclusività sentivo di non esserne parte e ci stavo male come potrai certamente immaginare ma non riuscivo a trovatre una via d’uscita così un giorno in preda alla gelosia dissi alla zia che mi sarei cercata un appartamento dobve andare a vivere col bambino lei mi guardò e trattenne le lacrime

   Trovai un monolocale dignitoso non lontano da lei mi feci trasferire su un mio conto presso una banca quel ridicolo stipendio che la cooperativa ancora mi dava e quello che mio padre mensilmente ancora mandava  per me  eper il bambino

   Dopo qualche tempo però alla cooperativa non rinnovarono il contratto e io persi il lavoro avevo da parte qualcosa e con quelli tirai avanti fino a che non trovai un’altro impiego che mi teneva impegnata solo per mezza giornata ricorsi alla zia parecchie volte lo devo ammettere e lei mi aiutò sempre anche quando non ce la facevo a pagare l’affitto di casa fu lei a darmi un consoiglio semplice quanto pieno di buon senso Non sprecare l’esperienza che ti sei fatta alla cooperativa mi disse un giorno e mi propose di iscrivermi ad un corso triennale per infermiera professionale fu una svolta ora lo posso dire perchè appena terminato il corso trovai subito un buon lavoro in ospedale come infermiera in sala operatoria e le cose iniziarono a girare per il verso giusto non immagini neppure la felicità immaensa che provai sentivo che la mia vita stava prendendo la giusta direzione l’orario di lavoro mi permetteva di passare molto tempo col bambino avevo un vero stipendio che ci permetteva di guardare avanti e fare dei progetti e il primo in assoluto era cambiare casa

   Trovammo un appartamento più grande dobve il bambino cioè vittorio che era ormai diventato più garnde potesse avere un a cameretta tutta per sè però non fu quello definitivo ne cambiammo diversi prima di trovare quello giusto questo dove vivo ora la casa della zia che ormai non c’è più 

   Vittorio non si affezionò mai a nessuna delle case dove andammo ad abitare si limitava a spostare le sue cose da un luogo all’altro e dopo averle sistemate in maniera identica alla stanza che aveva appena lasciato vi si chiudeva dentro come se l’avesse abitata da chissà quanto tempo  

   Appena traslocavamo ed entravamo per la prima volta in un nuovo appartamento lui non alzava lo sguardo per dare un’occhiata come fanno i comuni mortali non esplorava la nuova casa non mostrava segni di piacere o di fastidio o sorpresa per un particolare che potesse colpire la sua immaginazione rimaneva indifferente alla carta da parati come al muro color pesca conservava una esprezsione perennemente annoiata come di uno che conosca quella casa da sempre apriva il rubinetto dell’acqua e si riempiva un bicchiere  senza nessuna espressione come i pensionati alle quattro del pomeriggio

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 14 (III.parte)

Post n°39 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

 

Ramble on  (3. parte)



 

   Vittorio cresceva chiuso e a volte manifestava una aggressività estrema con scatti violemti e imprevedibili che mi spaventavano e mi lasciavano disorientata che gli mancasse la zia si capiva e qualche volta se ne andò per ritornare da lei si vergognava di me lo capivo ma non sapevo come reagire alle sue provocazioni sempre più palesi e dichiarate e in quei momenti anzichè essere paziente e ascoltarlo era la mia rabbia non risolta che veniva fuori e alla fine di questi violenti litigi lui si rincantucciava in un angolo e voltava la faccia contro il muro l’aveva visto fare a me fin dalla nascita non reagiva più e rimaneva come svuotato e io li a urlare come una matta allora lui si alzava di scatto prendeva due o tre cose e se ne andava dalla zia le cui porte erano sempre aperte per lui e per me Una volta prima di uscire con la porta aperta sulle scale  mi gridò

  tu non sei mia madre  tu mia hai abbandonato 

   Lo dovevi vedere mentre mi diceva queste cose orrende mentre mi rivolgeva lo sguardo i capelli gli scendevano sugli occhi che erano accesi aveva una maglietta e una camicia di flanella a quadri fuori dai jeans e scarpe da ginnastica logore  lo dovevi vedre com’era bello in quei momenti di furia impotente un’angelo sembrava piccolo e terribile mentre mi accusava di non valere niente come madre e io non potevo non accorgermi della sua bellezza e non essere d’accordo con lui 

   A quattordici anni finita la scuola media si iscrisse ad una scuola d’arte senza chiedere il mio parere e quando glielo feci notare durante una discussione se ne andò definitivamente dalla zia e non ebbi il coraggio di andare a riprendermelo  Tornò da solo dopo qualche tempo e trovò la casa in disordine e i piatti ammucchiati nel lavandino e sua madre in uno stato di degrado che non poteva immaginare ripulimmo casa e ricominciammo a vivere insieme e stavolta le cose parvero funzionare meglio Tra la sua scuola e il mio lavoro le occasioni per stare realmente insieme si limitavano al pranzo e alla cena poi quando fu più grande cominciò ad avere una vita propria con gli amici usciva regolarmente nei fine settimana e non rientrava mai prima dell’alba come tutti i ragazzi  del resto a me non creava problemi e io cercavo di non crearne a lui non mi trovò come tanti altri genitori sveglia ad aspettarlo non mi addormentai mai sulla poltrona aspettando il rumore della porta che si apriva avevo una totale fiducia in lui e non gli imposi mai degli orari per il rientro o cose del genere non mi azzardai neppure a dargli dei consigli o peggio a proibirgli qualcodsa nè mai lo misi in guardia dalle cattive compagnie l’avrei dovuto mettere in guardia da me stessa per prima 

   Torino è una città micidiale per lo spaccio ed il consumo delle droghe di qualsiasi genere si tratti non lo sapevo proprio io Non gli raccontai mai niente delle mie esperienze in materia nè del mio passato o della comunità ma qualcosa doveva aver capito anche se non fece mai domande dirette nè a me nè alla zia Mi chiese di te  una volta e buttò li la domanda mascherando l’imbarazzo con un tono di voce che voleva sembrare il più distaccato e indifferente possibile Io gli risposi in modo diretto e esenza tanti giri di parole che il padre non si sentiva pronto quando lui doveva nascere  la verità semplice e cruda  Vittorio non replicò nè insistette per avere altre spiegazioni incassò la cosa come se non gliene importasse niente finì li e tirai un grosso respiro di sollievo 

   A diciassette anni si iscrisse ad un corso in un centro sociale per imparare a suonare il basso elettrico che dal quel momento in poi divenne la sua grande passione e dopo qualche tempo con degli amici misero su un gruppo suonavano nirvana tutto il giorno e si lasciaraono crescere i capelli a lui spuntò una barbetta rada che gli dava un’aria rivoluzionaria e quando pigiava con le dita sulle corde si mordeva il labbro inferiore e mi veniva da ridere tirava su il ginocchio su cui posava la chitarra e la spostava da destra a sinistra facendole fare una rotazione breve e nervosa mentre i capelli gli cadevano sul volto  Era bello somigliava tanto a te alla sua stessa età  è terribile come i figli possano somigliare così tanto ai loro genitori assenti 

   Accantonò per un lungo periodo l’impegno scolastico e si concentrò tutto sullo studio del basso i suoi professori allargavano le braccia quando mi presentavo da loro per avere notizie sul suo rendimento  è intelligente   mi dicevano  ma non si applica è distratto da qualcosa e non stiudia più  Le solite cose dei professori quando non sanno cos’altro dire

  Non ne parlavo mai con lui mi mancava il coraggio di farlo in maniera diretta sapevo quanto fosse facile cadere nella trappola del litigio l’ho già detto mi sentivo la persona meno adatta per dare consigli e poi in quel periodo anche la zia venne a mancare 

   Vittorio venne bocciato e la cosa in se non parve sconvolgerlo più di tanto continuò imperterrito a pizzicare il suo basso elettrico se l’aspettava o forse se l’era cercata di proposito gli serviva una bocciatura per sentirsi più maledetto per avere di prima mano elementi di vita vissuta  per i testi delle canzoni che scriveva per la sua band mi annunciò la bocciatura mentre si arrotolava una sigaretta col drum sputando i fili di tabacco sfuggiti alla carta disse che se non avevo nulla in contrario si sarebbe riiscritto nella stessa scuola nella stessa sexzione con gli stessi professori ridacchiava mentre lo diceva e si immaginava sicuramente le facce di quellae  teste di minchia  come lui chiamava i suoi insegnabnti 

   D’accordo   gli dissi e mi lasciai scappare che neanche suo padre era stato una gran cima a scuola lui sollevò gli occhi mentre era impegnato a incollare  con la lingua la parte gommata della carta rizla.

    Ah no disse  e che altro non sapeva fare quel brav’uomo  

Accese la sigaretta e me la passò io gli diedi i primi due tiri profondi e lo fissai negli occhi  che c’hai messo qui dentro  gli chiesi volevo fare la voce arrabbiata e probabilmente lo ero per davvero ma quelle due boccate ne attutirono l’asprezza e ne uscì fuori una cosa che saopeva tanto di complicità non voluta  

    Niente niente  disse lui con un sorriso paraculo e mi chiamò Mamma con una tale dolcezza che avrei pianto 

 

    Tuo padre era imbranato  gli dissi e gli raccontai la storia della pompa di benzina e dei soldi che volevi ciulare a tuo fratello gli raccontai della tua fissazione per i led zeppelin e lui sottolinreò quel nome con uno schiocco della lingua mentre mi riprendeva la sigaretta e mi chiedeva con studiata indifferenza il tuo nome 

   Martino  gli dissi mentre facevo un gesto negativo con la mano lui ripetè il tuo nome poi mentre mi restituiva un’altro giro di sigaretta proteggendosi l’occhio da uno sbuffo di fumo che saliva aggiunse 

   Martino  che cazzo di nome è va bene per le donne ma per un uomo è ridicolo  allora mi affrettai a precisare che però tutti ti chiamavano Grigio cpome le nuvole del cielo quando minacciano pioggia 

   Gli passai la sigaretta ormai quasi finita e aspettai stavo bene li con lui a fumare e a parlargli di te di suo padre era la prima volta che accadeva e stavamo bene tutt’e due  

    Grigio mi piace di più  replicò lui  

   Dopo un po’ diede l’ultimo tiro alla canna  diciamo le cose come stanno e la spense sul portacenere già pieno fino all’orlo notai questo e feci per alzarmi per andarlo a svuotare ma ricaddi sulla poltrona non ero più abituata e glielo dissi ci mettemmo a ridere e lui mi chiamò ancora   

mamma  

     La conversazione finì li ma qualche giorno dopo nel disordine infinito che eterno regnabva su ogni cosa che gli appartenesse guardando sopra il tavolo dove lui teneva gli appunti i fogli sparsi degli spartiti musicali le cicche di sigaretta spente e altro ancora trovai due cose importanti il primo era un quaderno pieno zeppo di poesie alcune di queste tele manderò negli allegati poi trovai un foglietto piegato in due dove erano appuntate alcune frase che avevano tutta l’aria di una poesia o di una canzone a cui stava lavorando in basso a matita c’era scritto  alla mia dolce mamma ahahahahah  il testo lo conservo ancora dice

Le foglie kadono intorno a me

E’ tempo ke io vada.

Grazie sono molto obbligato 

x una kosì piacevole xmanenza

Ora x me è tempo di andare

La luna autunnale illumina la strada

Ma ora sento l'odore della pioggia 

E kon esso il dolore kosì komincia il mio kammino

Ah  certe volte mi stanko kosì tanto

Ma so ke c'è una kosa ke devo fare

Girovagare

E ora è tempo è tempo di kantare la mia kanzone

   Non capii a che cosa si riferisse pensai ad una poesia te l’ho detto mi sembracva così bella e ciò che c’era scritto gli somigliava tanto presi il foglio e lo conservai così come conservai le poesie contenute nei quaderni che riempiva e abbandonava senza più curarsenae aveva una calligrafia impossibile e facevo una fatica enorme a decifrare le parole ma proprio per questo filtravano dentro di me come gocce preziose e pazienti Ce n’è una che mi piace tanto dedicata ad un pittore che studiava e che ammirò moltissimo e che insegnò ad amare anche a me  compravamo tutto quello che riuscvamo a trovare su di lui  libri monografie documentari in VHS scrisse questa poesia per lui

Correggio dell'Arancio Dorato

Illusore di Spazi immensi 

ne Rinascimento fiorentino

ne korte papale

Antonio kolto provinciale

lontano da Roma

allegramente lontano 

dalla stessa Venezia dei sommi

Antonio neppure kolorista

abile disegnatore di fogli quadrettati

Correggio del verde karnoso

adeskatore di donne già xse

apritore di cieli da kapogiro

koronati da nubi dorate

sognatore di xgolati

kome vetrate di gotici rosoni

gioioso e tenero kol dio della fuliggine

a kui ninfe ridenti si abbandonano 

fingendo ritrosie da kommedia dell'arte

Antonio abile ruffiano di divinità dell'apokalisse 

mai sazie di vortici e graziosi mulinelli

Antonio ke baci tu Io

Io che ti amerà di più domani

con i tuoi okki ke tu con Io

ke noi ke tu da Io

   Dopo qualche giorno dalla nostra conversazione fumata e dopo aver trovato quel foglietto con la poesia lo sentii che suonava in camera sua  provava un giro di basso che non gli avevo mai sentito prima e mi parve di riconoscervi qualche cosa di familiare tra quelle note ma non avrei saputo dirlo con esattezza  La porta della sua stanza era chiusa come sempre quando provava  il rumore che proveniva dalla strada o il televisore acceso non mi fecero capire di cosa si trattasse  

   A scuola riuscì alla fine a rimettersi in sesto e ad essere ammesso al quinto anno morivo dalla gioia perchè questo lo avrebbe lòasciato maggirmente libero di seguire le sue inclinazioni musicali e di poter seguire la sua band nelle serate che riuscivano a rimediare in giro durante l’estate

 Una volta mi invitò esplicitamente ad andarli a sentire suonare in un locale all’aperto conoscevo praticamente tutto il repertorio dei nirvana che eseguivano erano una sorta di cover band ufficiale nel giro dei gruppetti che suonavano nella provincia avevano un cantante bravissimo ma incostante che imitava kurt cobain in modo quasi perfetto capelli barba jeans e maglietta bianca modo di muoversi e afferrare il microfono però alcune canzoni le lasciava cantare a vittorio e una in particolare che amavo tanto è intitolata Lake of fire non so se la conosci dice così

Dove va la gente cattiva quando muore 

Non vanno in paradiso dove volano gli angeli 

Vanno giù nel lago di fuoco e frittura 

Non li vedrai più fino al 4 luglio

Conoscevo una donna che veniva da Duluth 

È stata morsa da un cane con un dente rabbioso 

È andata nella fossa un po' troppo presto 

Ed è volata via ululando alla luna gialla

   Vittorio era bravissimo nel far girare il basso nel modo giusto in questa canzone e riusciva a tirare fuori una voce stridula che non avrei mai sospettato che potesse avere  Il pubblico era composto per lo più di ragazzi come loro bevevano birra ghiacciata dalle bottiglie ne bevvi qualcuna anch’io così e mi fece sentire più giovane e malandrina e mentre girava qualche spinello applaudivano e sottolineavano le canzoni più note cantando i brani che ricordavano a memoria pero nessuno conosceva il testo del brano che venne dopo lake of fire perchè non era dei nirvana e io quando lo riconobbi rimasi senza fiato  Vittorio la introdusse con il suo basso reso ancora più sporco da un riff scuro (vedi parlo già come te e come lui) poi entrarono una chitarra distorta e la batteria una chitarra acustica amplificata aggiungeva ubn leggero sapore di rock anni settanta  

   Quando iniziò a cantare mi cercò fra il pubblico e mi sorrisoe inchiodandomi con gli occhi e mettendoci una punta di malizia  Nelle prime parole riconobbi ramble on dei led zeppelin la traccia numero sette del loro secondo album 

Leaves are fallin' all around 

It's time I was on my way,

Thanks to you  I'm much obliged

For such a pleasant stay

But now it's time for me to go

   A casa il giorno dopo mi disse che era uno dei dischi rock più belli che avesse mai ascoltato mi disse che ce l’aveva nell’Ipod ma che gli mancava il contatto col disco di vinile nero con la copertina di cartoncino disse anche che noi eravamo stati fortunati a conoscere la musica in quel modo a piccole dosi conquistandocela a poco a poco disco dopo disco consumandone uno prima di poterne comprare un’altro e allora gli dissi che suo padre quel disco in particolare l’aveva proprio bucato a furia di ascoltarlo gli raccontai di tuo fratello che ti spaccò il disco in due e di come te lo ricomprasti rubandogli i soldi 

   Vov  disse ed era il massimo nelle sue manifestazioni du stupore non diceva wow  come tutti gli altri ragazzi mi faceva ridere anche così  

   Mi prese la mano e se la tenne dentro la sua era la prima volta che lo faceva ed era bello con quei ricci che gli cadevano sulla fronte spartiti in due da una riga spontanrea al centro della testa molto indisciplinata  Pensai a come dovevano vederlo le ragazze provai a immagimare di staccarmi per un attimo dal ruolo di madre per immedesimarmi in quello di una qualsiasi delle ragazze che frequentava  Provai una punta di gelosia come poteva un’altra accarezzargli i capelli guardarlo con tenerezza e lasciarsi toccare da lui  Non conoscevo questo aspetto della sua vita mi era sfuggito fino a quel momento e adesso me lo ritrovavo improvvisamente grande  uomo quasi come altri uomini pronto a dare bene e a dare male ad altri suoi simili  Com’erano le ragazze di cui si era imnamorato come parlava quando parlava d’amore com’erano i capelli e gli occhi delle sue ragazze come era stato amato e da chi 

   Gli raccontai di come rubavi dischi spartiti musicali e pantaloini nei grandi magazzini gli raccontai del nostromatrimonio improvvisato dei nostri amici di baldo di mariapia di tonuccio di anna di matteo vigliani di living loving maid dei laccetti e della polverina che ci versavamo sul palmo della mano gli raccontai della spiaggia e gli dissi anche che volevi svignarteala col tuo nuovo maglioncino colorato del cazzo gli dissi che ti importava più del tuo maglione che di me e allora vittorio mi chiese di continuare e io gli dissi che non potevo perchè non sapevo cosa ti era accaduto dopo che ti avevo detto che ero incinta e tu rimanesti li come un verme Gli dissi che l’ultima immagine che avevo di te era in mezzo ad un marciapiede che ti tiravi le maniche del maglione e non vedevi l’ora di andartene via preoccupato solamente di arrivare in orario per l’ora di cena voleva sapere cosa era successo a te capisci dopo che te n’eri tornato a casa ggli ripetei che non lo sapevo perchè non ti rividi mai più  Mi fermai su quel marciapiede con la nostra storia e quì mi fermerò anche stavolta  Mi rimane una curiosità stupida e senza senso ma quell’istante è l’ultimo che ho conservato di te è come un fermo immagine che mi ha seguito in tutti questi anni e ho bisogno di far ripartire il filmato  Cosa è successo dopo che ci siamo lasciati li su quel marciapiede?

Mia è la storia che non può essere raccontata

Tengo cara la mia libertà

Parecchi anni fa nei tempi antichi

Quando la magia riempiva l'aria 

Negli scurissimi abissi di Mordor 

Incontrai un ragazzo molto seducente

Ma Gollum e la sua metà cattiva

Si avvicinò strisciando e se la svignò con lui

Non c'era nulla che potessi fare

Girovagare

Ramble on

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 15

Post n°38 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

 

Allegati



     La lunga lettera di Grazia mi ha scosso, senza punteggiatura, senza interruzioni. L’ho inserita così come lei l’ha voluta e costituisce un capitolo importante di questa storia. Non è stato aggiunto nè tolto niente, nessuno degli errori di battitura è stato corretto, (ma sono poi degli errori?). A questa sua lettera ha aggiunto quattro allegati e Grazia, ho imparato, sceglie con cura le cose da mandarmi. 

     Allegato n. 1: la parola “Mamma”.

   L’allegato è composto da un foglio di quaderno delle prime classi della scuola elementare. Su carta a quadrettoni vi compaiono tre parole vergate a matita inserite in altrettanti riquadri, recanti sul lato destro tre illustrazioni realizzate con le matite colorate, relative alle parole scritte a fianco.

   La prima parola inserita nel primo riquadro è il sostantivo “Mela” e a destra, una mano infantile, ha disegnato a mano libera un cerchio colorato in rosso con due foglie verdi, che dovrebbe rappresentare, effettivamente, una succosa mela.

   Il secondo riquadro porta la parola “Lume”, accompagnata da un disegnino sulla destra, tracciato con matita nera che riproduce la parte ottonata, all’estremità di un filo elettrico, a cui si avvita una lampadina. Questa è ottenuta con due semplici cerchi concentrici colorati con un giallo acceso, da cui si dipartono una serie di raggi centrifughi color rosso vivo. Il disegnino vuole rappresentare in modo schematico ed essenziale una lampadina elettrica del tipo a pera. 

   La terza è la parola “Mamma”, inserita nel terzo riquadro e accompagnata da una freccia che le sta a fianco, indicante sulla parte destra una figura eretta, senza nessun piano d’appoggio, nè sedia, nè tavolo, nè pavimento alcuno. Nessuno sfondo colorato compare dietro la figura che si staglia isolata su un generico piano bianco e fluttua sospesa nel vuoto. Il disegno è infantile, il tronco della figura è costituito da un rettangolo di un arancio vivido, dato a campitura piatta, lasciando ampi spazi vuoti di colore. Tre pallini neri indicano i bottoni di quella che, si suppone, sia una camicia o una maglia aperta sul davanti. Nessuna indicazione sul sesso di appartenenza della figura ci è data, ma la possiamo identificare con quella di una persona di sesso femminile. Due rozzi cilindri di color rosso fuoco, anche questo campito in modo piatto, rappresentano evidentemente le gambe della donna che sono leggermente a “v” e appaiono divaricate. Due scarabocchi ovali, riempiti di grigio con una matita grassa, stanno a significare i piedi. Le braccia sono raffigurate con rapidi segni di graffite e portano, alle due estremità, come due sgraffi scuri a forma di pinze o tenaglie e dovrebbero rappresentare le mani. La testa è priva di collo ed è disegnata con linee profondamente incise sul foglio. I segni appaiono così profondi e insistiti che si intuisce, sul retro della carta, il rilievo lasciato dalla pressione della mano che li ha realizzati. I capelli sono corti e colorati di giallo sopra i solchi profondi della graffite scura. Si intuisce con disagio con quanta forza la mano del  bambino si sia accanita su quel dettaglio del corpo femminile. 

   Il volto non è visibile e appare ruotato verso lo sfondo bianco, eppure tutto il corpo è rivolto verso l’osservatore. E`come se il bambino avesse operato un ribaltamento arbitrario dei piani della figura rappresentata alla maniera dei pittori cubisti. Lo si deduce facilmente, ad esempio, da come sono inclinati i piedi che rivolgono le punte verso l’alto, lasciando intravedere degli accenni più scuri che sembrerebbero le forme dei tacchi. Inoltre i tre bottoni sulla camicia arancione indicherebbero chiaramente che la figura è voltata verso l’osservatore.  Solo la testa quindi appare girata dall’altra parte, mostrando la parte posteriore, cioè la nuca, che, come detto, è colorata di giallo. 

   Sembra evidente che il bambino abbia attribuito, a questo particolare del disegno, un valore simbolico, rifiutandosi di rappresentare il viso della propria mamma o, come è scritto nel lungo racconto di Grazia, il bimbo era abituato a vederlo sempre voltato altrove. Forse Vittorio non voleva disegnare la propria mamma e ha istintivamente trovato la soluzione grafica più semplice, ma anche la più inquietante. Inoltre la grafia delle tre “emme” che compongono la parola appare incerta, sono distaccate tra loro e hanno altezze e dimensioni variabili. Non credo che comunicherò queste mie osservazioni a Grazia.

     Allegato n. 2: “Nell’incubatrice” (foto jpeg) 

   Clicco due volte sull’icona della foto e si materializza sullo schermo del computer l’immagine di un neonato dentro un incubatrice. La foto appare virata in un verde che ricorda il colore dei camici indossati negli ospedali, ma forse è dovuto al riflesso della luce elettrica sul vetro combinata con lo scatto del flash della macchina fotografica. Sul lato lungo dell’incubatrice si aprono due fessure rotonde, chiuse da membrane elastiche, che permettono alle mani di entrarvi e stabilire un contatto fisico con il bambino. La sua pelle è scura e la testa è coperta da una rada peluria bagnata. Osservo il bimbo che se ne sta immobile col viso contratto in una smorfia. E` voltato verso di me, vedo il naso, le guance non ancora piene, gli occhi chiusi e le rughe sulla fronte, causate da chissà quale sforzo che sta compiendo per stare aggrappato a questo mondo, così nuovo per lui. Tiene una mano stretta a pugno e con l’altra pare che voglia strapparsi di dosso i sensori che porta attaccati al petto. Il pannolino che lo copre pare troppo grande per lui che sembra scomparirci dentro. Le gambette incurvate sono sollevate e fluttuano nell’aria, come le zampette di certi insetti quando stanno a pancia in su e non riescono a voltarsi e allora remano inutilmente nell’aria. Mi avvicino allo schermo del computer e cerco nel viso, nelle labbra, nella forma delle orecchie e degli occhi tracce di somiglianza, ma i neonati sembrano tutti uguali. Dovrei pensare che quel bambino verde-scuro della foto ha qualche relazione con me, dovrei forse commuovermi nel vederlo dentro quella scatola di vetro. Forse ha sofferto, magari lotta tra la vita e la morte, non saprei. Ho però  la strana impressione che dentro l’incubatrice si stia bene, meglio che in tanti altri posti che conosco. Mi pare che anche il piccolo li dentro non se la passi tanto male, asciutto e tranquillo con tante infermierine che gli stanno appresso. I sensori tengono sotto costante controllo i battiti del suo cuoricino matto  e i suoi piccoli polmoni crescono e si rafforzano per pompargli l’aria che gli serve. La scienza pediatrica sta facendo egregiamente il suo lavoro, tutto mi pare perfettamente igienico e sterilizzato. Un neonato prematuro non potrebbe desiderare niente di meglio. Conosco un sacco di persone che pagherebbero per infilarsi la dentro e non avere più responsabilità di niente. Questo bimbo invece se ne sta li tranquillo e fiducioso. Non è cosciente di quello che gli sta accadendo e quando sarà grande neppure le foto che sua madre gli mostrerà serviranno a convincerlo che quello dentro la scatola di vetro, era proprio lui. Lo osservo ancora a lungo e penso: - Ecco, è mio figlio. Gli ho voltato le spalle quando avrei dovuto prendermene cura. - Penso questo e mi dovrei sentire male.     

   Allegato n. 3: “Ramble-live” (durata 2,02 min.)

     Il titolo mi incuriosisce: Ramble-live, che vorrà dire? Lo scarico e lo trasferisco sulla scrivania del computer. Quando ci clicco sopra per aprirlo compare una luce e immediatamente dopo si sente un gracchiare di voci e un tintinnare di bottiglie e bicchieri. Confusamente, in sottofondo, si distingue un suono di chitarra e una voce che canta dentro un microfono. L’obbiettivo della macchina fotografica si sposta dalle persone verso il gruppo che suona sopra un piano di cemento rialzato. Si vedono molte teste e l’inquadratura riprende la band con un taglio sghembo nel tentativo di dargli un piglio da mtv televisivo, ma le riprese sono molto mosse e tutto appare precario e instabile. Ora si vede apparire il primissimo piano del bassista che tiene la testa leggermente all’indietro mentre contrae le labbra prima di liberare le note e la musica. I capelli che porta sono lunghi e ricci, di un castano chiaro, ma forse sono le luci del palco che ha addosso. Allenta la presa sulla chitarra e si distende in un rapido sorriso, noto che ha uno spazio che gli separa gli incisivi e sento un colpo forte che mi prende allo stomaco. Interrompo la proiezione e riporto indietro di qualche secondo, rimetto play e faccio ripartire il filmato. Lo vedo chiaramente ora, mentre suona contraendo le labbra, poi allenta la smorfia del viso e si apre in un sorriso che gli scopre i denti. Fermo l’immagine e osservo lo spazio vuoto tra un incisivo e l’altro, istintivamente mi porto le dita alla bocca e sento lo stesso spazio tra i miei incisivi. Il fermo-immagine trattiene quell’espressione sul volto del bassista mentre sento il cuore che accelera il battito.  Il musicista ha una barbetta rada e i ricci gli incorniciano il volto. Apro il programma che gestisce le foto e ne cerco una in particolare di quando avevo all’incirca l’età del ragazzo del filmato. La trovo, è quella dove anch’io avevo i capelli lunghi, neri e una barbetta appena accennata che, mi pareva allora, mi desse un’aria scaltra e vissuta. Metto a confronto le due immagini e mi sento male. Anche lui ha gli occhi tirati leggermente in su, simile il taglio della bocca, del naso, perfino una lieve fossetta sul mento che compare anche nel mio. Lascio ripartire il filmato, Vittorio si morde il labbro inferiore e stira le labbra digrignando i denti. Riconosco la musica che suonano è proprio Ramble on dei Led Zeppelin.  La macchina fotografica si allontana, allargando il campo visivo e riprende anche gli altri componenti del gruppo, tutti si danno un gran da fare. Hanno pantaloni strappati sulle ginocchia e camicie aperte fuori dai jeans. Vittorio tira su un ginocchio e fa ruotare il basso di novanta gradi, portando in alto la tastiera all’altezza delle spalle, poi riabbassa rapidamente la chitarra e si avvicina al microfono e canta:

"I gotta find the queen of all my dreams.

Got no time for spreadin' roots,

The time has come to be gone

An' though our health we drank a thousand times,

It's time to ramble on".

   La voce è stridula e si sente qualche incertezza nella pronuncia inglese. L’accompagnamento della chitarra acustica sembra buono e con una tastiera ricreano quel suono malinconico che da un’atmosfera particolare a tutto il brano, permeandolo di un’aria dal sapore medievale. Quasi alla fine del breve video Vittorio incolla la bocca al microfono e sussurra: 

"babe-babe-babe, my-my my

I listen to my bluebird it said.

But I, my my-yeah

I can't find my Bluebird".

   Su questa canzone si interrompe il breve filmato. Rimetto play e lo rivedo ancora e ancora, tante altre volte. I suoi denti bianchi, leggermente separati al centro come i miei; la barbetta rada e i capelli lunghi e ricci, babe-babe, my-my, dio come mi somiglia! Certo adesso sarà diventato ancora più bravo, avrà compiuto notevoli progressi nel suono e nel canto, magari avrà già messo su un’altra band, suonerà nei locali e lo chiameranno per brevi tournée in giro. Che tipo di musica suonerà adesso... mio figlio?

     Allegato n. 4: “Poesie”

   E` un file di solo testo, Grazia l’ha intitolato brevemente così. Trovo una lettera scritta da lei che lo accompagna e lo commenta.

    Vittorio non era solo un bravo bassista rock, era tanto di più. Disegnava molto bene, scriveva in continuazione e teneva sempre con se una piccola macchina fotografica, con la quale realizzava delle foto che avevano l’immediatezza del gesto quotidiano. Camminava per le strade, in pieno centro, in qualsiasi città si trovasse e, con la mano tenuta giù armata della fotocamera, scattava in continuazione senza guardare o inquadrare niente in particolare. Quando scaricava le foto sul computer si vedevano piedi, scarpe, gambe tagliate di tutte le specie e di tutte le età, mani, borse, buste della spesa che penzolavano. Emergevano cagnolini al guinzaglio tagliati a metà, buste di plastica e cartacce abbandonate, mozziconi di sigarette e marciapiedi obliqui. Si vedevano, nelle vie del centro, vasi di fiori finti di arredo urbano, gomme da masticare nere schiacciate a terra. Aveva comprato una macchinetta digitale con la quale poteva scattare foto automaticamente in rapida successione, ma ne possedeva almeno altre due, tra cui una Lomo compatta 35mm. di costruzione sovietica di cui era pazzo. Se la lasciava pendere dalla mano mentre camminava in mezzo alla gente o scendeva giù, in qualche metropolitana di Barcellona o di Berlino. Sono foto agghiaccianti, per freddezza e banalità dei soggetti, ma restituiscono il senso di una umanità caotica e disorientata. Viene da domandarsi dove siano dirette tutte quelle scarpe, quelle borse, quei cani al guinzaglio, cosa contengano quelle buste di plastica. Ti chiedi cosa muove tutte quelle persone, (che non si vedono mai nelle foto, ma che intuisci prese nei loro pensieri). Vittorio era bravo a spiegare tutte queste cose, sapeva dare un senso a quello che faceva e io rimanevo sconcertata di fronte a quelle immagini. Per un lungo periodo prese a fotografare  le strisce bianche che gli aerei lasciano nel cielo. Diceva che erano dei messaggi, come stelle comete che annunciano una nuova venuta. Chiamò quelle foto “Epifanie”. Siamo alla fine e voglio concludere con una poesia che, credo, abbia scritto per una ragazza di cui doveva essersi innamorato. Non ho mai scoperto chi fosse, non ha importanza, è solo il mio cuore che la comprende.

Donna in un angolo di stanza, 

silenziosa con sguardi loquaci. 

Scarpe di tela, di rosso acceso, 

mani con dita che stanno. 

Sedie che controllano la fermezza 

dei suoi pensieri. 

Hard disk di memorie sospese.

Angolo di stanza con donna che sta.

Buon compleanno Veronique!

   Veronique, cosa non darei per conoscerla! Bene Martino, ti ho spedito quello che che volevo che tu vedessi, leggessi e sentissi. Avrai molto su cui riflettere, forse vorrai farmi delle domande, ma non ora. Ti chiedo solo di raccontarmi cosa accadde dopo che mi lasciasti li, sola su quel marciapiede, l’ultima volta che ci vedemmo. Voglio riempire un vuoto che è durato troppo a lungo. Al resto, alle domande che vorrai farmi, penseremo dopo.  

Grazia.

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 16 (I.parte)

Post n°37 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

Moby Dick (1. parte)

 

 

 

    - Che mi hai fatto? Che cosa mi hai fatto?

   Quella domanda mi rimbalzava ossessivamente dentro il gulliver come una pallina da biliardo. Quale terribile malattia potevo averle mai attaccato? Non ero pienamente cosciente di quello che ci stava realmente accadendo. Vedevo me e Grazia come sospesi dentro una palla di vetro piena d’acqua, gigantesca e claustrofobica. Lei piangeva, seduta su quella panchina del cazzo, ma era come se stessi osservando un misterioso pesce degli abissi attraverso un oblò di vetro spesso quattro dita, appannato dal freddo delle profondità marine. Vedevo la sua bocca tirata e le mani strette attorno al corpo, come se dovesse ancora proteggersi da me, ma non udivo più la sua voce. Galleggiava dentro la sua palla d’acqua, come i pesci quando aprono e chiudono quelle loro bocche fredde, lanciando segnali inespressivi e muti. “Che mi hai fatto?” riuscivo a capire solo quella domanda. Cosa le avevo fatto? Non riuscivo più a ricordare esattamente “cosa le avessi fatto”, ricordavo però bene “cosa avevamo fatto”. Avrei voluto rompere quella palla di vetro dove nuotava Grazia. La vedevo rimpicciolirsi e appiattirsi, spariva quasi, quando passava dall’altra parte, poi con un guizzo improvviso me la ritrovavo di qua, da questo lato della pancia del vetro, ingrandita esageratamente. Quando mi arrivava di fronte vedevo che mi rivolgeva sempre la stessa domanda: “Che cosa mi hai fatto?”

     Mi si paralizzava il cervello, come ai tempi della mia temuta prof. di matematica quando, con voce da presa-per-il-culo, mi poneva una qualche cazzo di domanda sull’Infinito, se fosse di segno positivo o negativo (!), o sulla derivata di una funzione di funzione x che è l'argomento della funzione, ma anche valore della variabile indipendente, mentre y o f(x) è un valore della variabile dipendente della funzione (?). Era sicura che non sapevo rispondere, la troia. Mi si bloccava il gulliver; ogni mia capacità di ragionamento logico rimaneva interdetta fino a che lei mi fissava col suo sorriso da serpente. Mi veniva solo da dirle: 

- N-non lo so, ma-maestra- e poi farmi la pipì addosso. Era come ammettere di essere cretino, e lei voleva estorcermi propriamente questa dichiarazione: - Su, dillo a tutti che sei stupido. Ripeti piano con me, Martino-è-stupido.

- No-no ma-maestra, no-no-no. 

Rimanevo imbambolato davanti a lei e continuavo a fissarla con uno sguardo che le doveva apparire privo della luce di nostro signore; vuoto, come un barattolo di fagioli buttato in mezzo alla strada; stolido come quello di un bue, quando ti guarda fisso, mentre continua a masticare l’erba del campo. Lei aspettava con piacere questo momento per dare libero sfogo al suo delirio frustrato di domatrice di scimmie. Allora, vedendomi in difficoltà e godendone, mi sibilava con ironia cattiva:

- Non lo sai eh?- e, vedendo che continuavo a fissarle addosso uno sguardo ebete, si alzava in un grido: - Non mi guardare con quegli occhi da bue! Verranno a prendere la tua zucca col trattore, vedrai!

   Guardavo ora Grazia con la stessa espressione bovina che faceva eccedere in escandescenze la prof. e avevo persino il sospetto che lei mi vedesse masticare erba. Non afferravo esattamente il senso di quello che stava accadendo: - Che cosa le avevo fatto? 

L’unica cosa di cui mi rendessi conto era che indossavo un maglioncino troppo caro, con un numero esagerato di colori che strideva nettamente con l’espressione da bue che avevo.  Avrei voluto rompere la vasca rotonda dove vedevo nuotare quel piccolo pesce che avevo davanti e fuggire via, lontano. Non volevo rispondere a quella dannata domanda senza senso, non volevo più rispondere a nessuna domanda, via, via.

     Dum-dum, du-dum-ru-du-dum

     Dum-dum, du-dum-du-du-dum

   Sentivo l’attacco di Moby Dick, i primi colpi dati sulla batteria e poi la chitarra di Jimmy Page.

     Dum-dum, du-dum-ru-du-dum

     Dum-dum, du-dum-du-du-dum

   Bonzo dava l’avvio al suo momento di gloria personale, un assolo di batteria che è diventato il suo pezzo più famoso, nonchè uno dei brani-simbolo di questo album memorabile. Da li in poi tutte le rock-band inserivano un assolo come quello nei loro concerti live. A volte il pezzo di batteria occupava metà della facciata dell’ellepì e nelle esecuzioni dal vivo quando iniziava il primo rullare di tamburi la gente ballava freneticamente e si tirava addosso le lattine di birra e di coca. John Bonham diede un colpo violento ai piatti, chitarra e basso tacevano. Nei concerti, con migliaia di persone accalcate davanti al palco, quando arrivava questo momento, gli altri membri del gruppo si allontanavano e andavano a bere e a fumare. Sapevano che Bonzo sarebbe andato avanti a pestare sui suoi tamburi fino a che non gli sparavano. Sul palco si portava appresso due baffoni da sindacalista che gli incorniciavano una faccia buona. Lo si sarebbe detto più un contadino o un meccanico di motori imprestato momentaneamente al rock. Aveva l’aria di quello che va nelle case a riparare l’impianto elettrico o a ritinteggiare gli appartamenti. Invece lui se ne andava avanti per la sua strada con il rullante, il charleston e la grancassa sbattuti ben bene. Picchiava sui suoi tamburi con le bacchette o con le mani nude, con la bocca seguiva e imitava i suoni che produceva. Poteva andare avanti per ore, dopo quei primi colpi secchi sui piatti.

     D’sshhh, d’sshhh

     Dum-dum, du-dum-ru-du-dum

     Dum-dum, du-dum-du-du-dum

      Grazia si alzò in piedi e rimase ferma con le gambe che sfioravano la panchina: - Allora, che facciamo?- mi chiese.

- Non lo so - le risposi e le dissi la prima cosa che mi venne in testa: 

- Puoi abortire.

   Non avevo la più pallida idea di cosa stessi dicendo, nè cosa significasse abortire e neppure come venisse praticato un aborto, non sapevo niente di niente. Da qualche parte dovevo aver sentito dire che era un sistema estremo di interruzione della gravidanza, ma non sapevo quanto potesse essere doloroso e duro. Non avevamo nessuna informazione sulla contraccezione, non capivamo nemmeno il significato di questa parola che rimaneva confinata nel mistero e nelle nebbie delle curiosità adolescenziali. Entravamo dentro le nostre ragazze, privi delle informazioni più elementari sull’igiene e sulla pulizia. Ce la cavavamo frettolosamente, convinti che fosse una cosa da consumare in fretta, perdendoci così il meglio dell’amore. Le ragazze non erano molto più informate di noi e se la facevano sotto dalla paura di rimanere incinta. Scopavamo in fretta, cercando di finire prima possibile, prima che arrivasse qualcuno, prima di capire e realizzare tutta la delusione per quella cosa sognata e temuta. Facevamo l’amore spaventati, con gli sguardi da cani rivolti a destra e sinistra, per avvertire in tempo i rumori sospetti, col pisello dentro che cercava di arrangiarsi come poteva. Era un angoscia, non un piacere, non cercavamo neppure di costruire le situazioni giuste per essere liberi e tranquilli, niente. Pensavamo che scopare fosse quella cosa li e cosi lo facevamo. D’estate al mare, dietro le dune con gli aghi della pineta che ti si infilzavano dappertutto e il sudore che incollava il tuo ventre al suo. Ne uscivamo fuori esausti e delusi, allibiti dalla nostra stessa inadeguatezza.

   - Abortiamo - le dissi, col mio nuovo maglioncino benetton colorato. 

Grazia continuava a piangere e tirava la cosa per le lunghe e io le dissi che mio padre non tollerava che si facesse tardi per la cena e che, insomma, “dovevo” proprio andare. - Ne parleremo domani - le dissi, e lei mi chiese di accompagnarla almeno a casa. - Non posso - le risposi con voce da stronzo - farò tardi per la cena. Domani parleremo di tutto, domani e troveremo una soluzione. - Ma allora non hai capito un cazzo di niente di quello che sta succedendo? - gridò lei esasperata in mezzo al marciapiede, dove nel frattempo ci eravamo fermati. - Domani, ti prego - la supplicai e le diedi un bacio frettoloso prima di scappare senza neppure voltarmi.

   Avevo parcheggiato la cinquecento-senape in una viuzza del centro, in direzione opposta alla casa di Grazia, accompagnarla avrebbe significato altri pianti e altre accuse di irresponsabilità che non avrei sopportato. Mi incamminai dritto, con le mani ficcate in tasca. Aborto, che ne sapevo io di queste cose qua, riguardava le donne. Mi immaginavo vecchie vestite di nero, che trafficavano in mezzo alle gambe di Grazia che piangeva e voltava la testa dall’altra parte. Mi proiettavo dentro il cervello un film a tinte fosche, con immagini molto confuse e sfocate, la cui trama non mi era chiara. Si era già fatto tardi e a casa, tra pochi minuti mia madre avrebbe scolato la pasta e il mio piatto sarebbe stato coperto con un altro piatto, poi mio fratello avrebbe chiesto se poteva mangiare anche la mia parte. Quando raggiunsi la macchina aprii lo sportello e mi sedetti posando le mani sul volante, senza riuscire a trovare la forza per mettere in moto. Vedevo donne nere attorno alle gambe di Grazia che gridava il mio nome e diceva: - Griigioo, stroonzooo figlio di puttanaa, me la pagheraaiii!

   Quella domanda mi rimbalzava in testa, era un pesce che si fermava e mi fissava con i suoi occhi addolorati mentre mi chiedeva: “Che cosa mi hai fatto?”

     Dum-dum, du-dum-ru-du-dum

     Dum-dum, du-dum-du-du-dum

   Bonzo picchiava forte sui suoi tamburi e dava grandi colpi di pedale contro la cassa. Rapide rullate venivano frenate bruscamente da secchi colpi di bacchette.

     - Puoi abortire, no?

     Non lo volevo quel figlio, ero io ancora un figlio. Guardavo il volante della macchina e non volevo decidermi a mettere in moto e tornarmene a casa. Non volevo vedere nessuno, ma non avevo neppure voglia di starmene da solo. Presi il pacchetto da dieci di Diana che stava sul cruscotto, cercai i fiammiferi e accesi, chiusi lo sportello e diedi profonde boccate alla sigaretta che si consumò con troppa fretta, riempiendo l’abitacolo di fumo. Il parcheggio dove mi trovavo stava a pochi metri da un alto e brutto viadotto di epoca fascista, sotto cui, nella valle che si formava, c’era una fontana lasciata nella più nera desolazione. La sera era frequentata da tossici e pederasti e, a garantire che i loro traffici si svolgessero nella più totale tranquillità, l’amministrazione comunale collaborava lasciando quell’area illuminata da una luce fioca e discreta. Senza pensarci su richiusi a chiave lo sportello e presi per la discesa che portava verso la fontana, sotto quell’orrendo viadotto squadrato. La strada era invasa dalle erbacce e il mattonato era sconnesso in più punti. Andai a sedermi su una grossa lastra di trachite buttata di fronte alla fontana e, pur non avendone voglia, sentii il dovere di accendermi un altra sigaretta. Il fumo mi diede un senso di nausea che accentuò il freddo che sentivo. Afferrai le maniche del maglione mentre davo le ultime boccate di fumo e osservai con più attenzione la fontana. Era bellissima, non lo avevo mai notato. Il rumore dell’acqua era potente, producendo nelle vasche un rombo continuo, come un tuono che non decida di allontanarsi. Bonzo lo avrebbe usato come base per costruirci sopra la sua ragnatela di rumori sincopati, per raccontare quel lungo, continuo, sciabordare di acqua che scorreva tumultuante sopra il corpo, pieno di antiche fiocine e vecchie cicatrici, di Moby Dick, la balena bianca.  

     Dum-dum, du-dum-ru-du-dum

     Dum-dum, du-dum-du-du-dum

   Il suono che produceva era di percussioni, ripetute e continue, la piccola valle, già immersa nel silenzio, ne amplificava il volume. Dal cavalcavia arrivava il rumore soffocato degli pneumatici delle automobili che ci passavano sopra e ripetevano:

      Tum-tum, tu-tum-ru-tu-tum

      Tum-tum, tu-tum-tu-tu-tum

   John Bonham inseguiva la sua balena, la tempestava di bestemmie, la insultava, come il capitano Achab che non riusciva ad ucciderla. Produceva un ronzio di tamburi che dovevano disorientare il grosso cetaceo, ma che otteneva il solo effetto di creare una grande confusione dentro la mia testa.

     Dum-dum, du-dum-ru-du-dum

     Dum-dum, du-dum-du-du-dum

     D’sshhh, d’sshhh

     La fontana era a pianta rettangolare, marmi policromi lo rivestivano creando disegni geometrici dall’aspetto severo. Agli angoli ospitava quattro grandi statue di ninfe o allegorie delle stagioni. Ai lati otto mascheroni di teste leonine gettavano acqua che produceva quel particolare suono difforme, così somigliante ai tamburi di Bonham che, anzichè far combattere la sua balena contro il crudele Achab, la lasciava libera a gorgogliare di un piacere impetuoso, dentro gli otto càntari della fontana di marmo. Le sculture e i mascheroni erano stati deturpati dalla violenza delle persone che, invidiose di tanta bellezza, gli avevano rotto le braccia, sbreccato i nasi e le orecchie, accentuato con la vernice i capezzoli nudi delle quattro figure femminili poste agli angoli. Tutte le pareti raggiungibili della fontana recavano un manto caotico di scritte, graffiti, messaggi e disegni osceni. Mi alzai dalla panchina e mi avvicinai alla fontana. La sua acqua era veramente buona, ma dentro le vasche, dove le donne tanti anni fa immergevano i loro panni da lavare, ora galleggiavano buste di plastica e siringhe sporche dei tossici. 

     Dum-dum, du-dum-ru-du-dum

     Dum-dum, du-dum-du-du-dum

   Tutto il set dei tamburi di Bonzo esplose dentro il mio cervello. Si stava facendo rapidamente scuro e iniziai a sentirmi inquieto. Ripercorsi la salita, mentre pensavo ai colpi secchi con cui, John Bonham, annunciava la fine del suo memorabile assolo di batteria. La chitarra di Page aspettava nervosamente di essere suonata, non era abituata a così lunghi momenti di inattività. Le due corde più basse eseguirono il riff del rientro, lasciando ancora sprazzi di baruffa alle percussioni di Bonzo, poi accompagnarono il brano, l’unico senza parole in tutto l’album, verso la sua monumentale conclusione. Arrivato in cima alla salita mi infilai dentro la cinquecento-senape, girai la chiavetta del quadro e azionai la levetta dell’accensione del motore. Tossì gravemente e si assestò su una tonalità di Fa maggiore; misi la prima, azionai la freccia e con uno strappo partii. Tornavo a casa, era già buio e un vago presentimento di quello che stava per accadere mi assalì, ma non me ne curai, non mi importava più di niente, nada de nada. Gli occhi carichi di lacrime di Grazia non smettevano di pormi sempre la stessa domanda: “Che cosa mi hai fatto?” Non potevo immaginare che non l’avrei più rivista. 

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 16 (II.parte)

Post n°36 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

 

Moby Dick (2. parte)


   In quel preciso istante, mia madre e mia sorella, stavano finendo di sparecchiare. Avrebbero lasciato un piatto coperto, una forchetta, un coltello e un bicchiere. Dieci minuti dopo mio padre si sarebbe alzato dalla sua sedia per togliere anche quelle cose, la cena per lui era finita. Il motore della piccola automobile tossiva contrariato, mentre attraversavo la città diretto verso la periferia e quando mi lasciai dietro le ultime luci un buio fitto mi avvolse. Affrontai le strette curve della provinciale che mi riportavano a casa e quando vi arrivai il motore dell’auto si spense spontaneamente, senza che io avessi neppure girato la chiavetta. Entrai e, come mi aspettavo, trovai mio padre da solo in cucina che ascoltava la radio. Il tavolo era sparecchiato e vuoto, c’erano solo una bottiglia di acqua e un bicchiere. In soggiorno guardavano la televisione. Quando gli restituii le chiavi della macchina mio fratello mi guardò come per dire: - ... testa di cazzo che sei. Mia madre mi chiese dove ero stato fino adesso: - abbiamo finito di cenare un’ora fa... 

- Avevo da fare - risposi - sono stato con Grazia e abbiamo fatto un po’ tardi-, ma questo lo dissi con gli occhi che guardavano altrove. 

- Hai mangiato qualcosa con lei? chiese, sperando in una risposta affermativa che allontanasse i suoi presentimenti negativi. 

- No, ho fame, mi preparo due uova, così non sporcherò niente e non dovrò riapparecchiare.

- Vengo io e te le preparo, - disse lei, 

- No, lascia faccio da solo. 

Mia madre mi guardò con una grande pena negli occhi buoni che aveva, sapeva che certe cose sono inevitabili. Voltai le spalle e ritornai in cucina.

     Dum-dum, du-dum-ru-du-dum

     Dum-dum, du-dum-du-du-dum

    Comprendevo il motivo della sua preoccupazione, bisognava sperare nell’umore di suo marito. Non ho mai capito quale particolare significato  

avesse per lui la cena in famiglia, ma assentarsene senza una adeguata motivazione, costituiva motivo di litigi che mia madre era stanca di sopportare.  La regola imposta da mio padre era ferrea e non ammetteva trasgressioni. Un’altro comandamento imponeva che quando si mangia non si parla. Ingurgitavamo il brodo preparato dalla mamma, oppure succhiavamo gli spaghetti in religioso silenzio e per tutto il pranzo domenicale o la sera per cena, a casa nostra si sentiva solamente il rumore prodotto dalle posate sui piatti, nient’altro. Il momento della cena assumeva i contorni gravi di una solenne liturgia, di un rito sacro e misterioso da celebrare con tutta l’ecclesia familiare riunita. Assentarsi voleva dire offendere il sacerdote di questa religione, ed egli non conosceva motivazioni tali da poter giustificare un atto così grave. Non scusò neppure sua moglie che, una sera che lui era tornato dal lavoro, ebbe la sfrontatezza di non farsi trovare a casa, rientrando ben cinque minuti dopo di lui. Quando ritornava a casa, mio padre amava trovare tutto in ordine, pulito e profumato, moglie e figli, ognuno al proprio posto che lui aveva assegnato secondo un suo disegno misterioso e imperscrutabile. Gli piaceva sentire le grida innocenti dei propri bambini, mentre il fuoco acceso in cucina garantiva una buona cena. Allora faceva scorrere l’acqua calda nel lavandino, lasciava aperta la porta del bagno e con soffi e sbruffi d’acqua, sapientemente ostentati, si mostrava a tutta la famiglia nell’atto di lavarsi. Osservavo queste operazioni incuriosito e affascinato, intuivo vagamente che tutto quello che vedevo era creato a nostro uso e consumo, con una regia sapiente. Fascino che subivo ancora di più quando, due volte alla settimana, lui si mostrava nella nobile operazione di radersi la barba. In queste due occasioni il programma di sala prevedeva una rapida esecuzione il mercoledì, con replica in matinèe la domenica  alle otto. Lui si esibiva in questo semplice atto, come un lanciatore di lame affilate che richiedesse l’attenzione e il sostegno del pubblico silente, ma pronto a scattare nell’applauso non appena la pericolosa performance fosse stata completata con successo. I suoi muscoli, tesi sotto pelle, guizzavano discreti mentre compiva questi semplici gesti. Ma quella sera, quando tornò, non ci fu niente di tutto questo, trovò la porta di casa, della “sua casa”, incredibilmente chiusa. La spinse piano, con sospettosa delicatezza, ma constatando che non si apriva non si scompose affatto. Rimase un po’ soprappensiero e poi, per la prima volta in tanti anni, frugò dentro le tasche in cerca delle chiavi di casa che, lui, non aveva mai avuto bisogno di utilizzare. Aprì l’uscio con fare guardingo ed entrò. Tutto appariva normale, come sempre. Si levò la pesante giacca di fustagno scuro, riempì il catino di acqua e iniziò a mettere in scena, per un pubblico assente, lo spettacolo della sua maschia potenza. Stavolta però non c’erano grida di bambini adoranti, nè alcun fuoco crepitava gagliardo riscaldando casa in attesa di una buona cena, aspettò.

   Cinque minuti dopo, sua moglie, con il fiatone e il cuore in gola, aprì la porta spingendo dentro mia sorella e me, ancora piccolo, ed entrò, sperando di non udire nessuna risposta, quando, con voce strozzata gridò: - Sono io. Le arrivò lo sciabordare dell’acqua nel lavandino e le si paralizzò il pensiero. Quando si riprese, corse in cucina  e mise su la pentola grande della pastasciutta. Mio padre le apparve a torso nudo, mentre si asciugava plasticamente le braccia con la faccia madida d’acqua. - Ho fatto un po’ tardi - disse mia madre, con la testa che le faceva bum-bum, - sono stata da mia sorella con i ragazzi e non mi sono accorta che era già tardi. - Allora puoi tornatene da tua sorella. - Replicò lui con tono asciutto. - Come?- disse lei incredula. - Se tua sorella viene prima di tuo marito e della tua casa, tornatene da lei. Esci! - gridò. Mia madre tentò di dire ancora qualcosa per giustificarsi, ma era goffa  e intimidita e mio padre vedendola così spaventata e sottomessa prese sul serio il suo stupido gioco e la cacciò via per davvero. Le aprì la porta e la invitò a tornarsene da sua sorella. La mamma lo guardò instupidita e lui ebbe perfino la delicatezza di porgerle lo scialle nero con cui si copriva per uscire, prima di intimarle: - Fuori! e lei se ne andò, senza fiatare. Noi rimanemmo in casa e mio fratello con tono di sfida gli disse: - Io vado con la mamma. Il babbo lo fissò negli occhi fino a piegargli la volontà e gli soffiò in faccia: - provaci, - mentre spegneva l’acqua della pasta. Mia sorella e mio padre prepararono sommariamente la tavola, tagliarono pezzi di formaggio a tocchi, poi preparò grosse fette di pane con un coltello a serramanico di osso di bue che non avevo mai visto, quindi affettò la salsiccia. Da un barattolo di vetro tirò fuori le olive nere, le sgocciolò e le dispose su un piatto, formavano una piccola montagna di luce che ci fece venire subito l’acquolina in bocca. Quella sera mangiammo così, ci permise di bere il suo vino rosso: - in via del tutto eccezionale, solo per quella volta - disse e ci fece sentire tutti più grandi, come lui. Eravamo presi da un misto di curiosa allegria, per quella cena così strana che somigliava tanto ad una festa improvvisata, per il vino bevuto, ma eravamo anche spaventati per quello che era successo alla mamma. Quella sera il babbo si mostrò allegro e disponibile e ci accompagnò a letto. Recitò a memoria persino delle poesie allegre che diceva di aver scritto lui stesso. Rimase con noi finchè non ci addormentammo e fu la prima e ultima volta.

   La mattina dopo, di buon ora, uscì per andare a lavoro tirandosi dietro la porta con un tonfo. Quando ci svegliammo  sentimmo in cucina il passo svelto e leggero della mamma che, come sempre, preparava la colazione. Era sorridente e ci abbracciò con un trasporto insolito: - era buono il vino? ci chiese e io mi domandai se i fatti della sera precedente erano accaduti veramente o se me li fossi semplicemente sognati. Questa domanda me la pongo ancora oggi e non so davvero dare una risposta certa. Il pomeriggio tardi quando il babbo tornò dal lavoro, si sentiva per casa un odore buono di sardine fatte alla griglia, ripassate in un condimento caldo, fatto di acqua, sale e aceto aromatizzato col rosmarino, il suo piatto preferito. Di quello che era successo la sera precedente nessuno in famiglia parlò mai, nè mai più accadde, (ammesso che accadde veramente), che mia madre si facesse trovare fuori di casa quando suo marito rientrava dal lavoro. La cena era molto importante per lui, assentarsene senza una buona ragione era una dichiarazione di guerra intollerabile.

   Dopo cena mio padre se ne stava da solo in cucina, con la radio accesa ad ascoltare qualche programma d’intrattenimento. Gli piaceva ascoltare le voci senza però vedere i volti, motivo per cui non amava il cinema e tantomeno la televisione, che non guardava mai insieme a noi. Diceva che le voci non hanno bisogno delle facce:- Una grande voce vale mille facce, - diceva, ed aveva ragione. Quindi se ne stava li dopo cena, incollato alla radio a sentire le voci del mondo, sterilizzate dalle valvole e rese innocue e familiari dal filo elettrico, attaccato come un guinzaglio alla presa a muro ai suoi piedi. Se ne stava così, assorto in un suo particolare silenzio, immobile, con i piedi allungati sotto al tavolo e con le mani intrecciate sulla pancia ad inseguire chissà quali pensieri o quali rancori non ancora sopiti. Teneva gli occhi ben aperti e rimaneva fermo e immobile, come certe iguane dei documentari o come un asceta induista. Aveva tutta l’aria di pensare cose profonde e, si sarebbe detto, che le pensasse veramente, se non fosse stato che, a questo punto, mia madre entrava, gli spegneva la radio e si andava a sedere su una sedia posta di fronte a lui. Allora sollevava un piede, fingendo di fare un leggero sforzo che accompagnava con una smorfia della bocca e lo metteva nel grembo accogliente, formato dalla lunga gonna nera di mia madre. Lei lo aspettava con un sorriso, come un dono, come la polverina frizzante che Grazia mi offrì sul palmo della sua mano. Lui chiudeva gli occhi e lei, con studiata lentezza, gli scioglieva i lacci delle scarpe, prima una, poi l’altra. Le poggiava con attenzione sul pavimento e quindi gli sfilava piano le spesse calze di lana, scoprendogli i piedi bianchi e infreddoliti. Allora incominciava a fargli un massaggio circolare, prima sulle piante, poi sulle dita che toccava una per una e infine risaliva piano fino alle caviglie, scaldandogliele con un movimento delicato delle mani. Ogni tanto lui lasciava emergere un sorriso e tratteneva un sospiro indecente dilatando impercettibilmente le narici. Quando questa operazione era conclusa si alzava e si dirigeva verso la camera da letto, dove lei dieci minuti dopo lo raggiungeva. A questo punto le luci della casa venivano spente, rimanevano il brusio e le risate soffocate di noi figli, ma ancora per poco. Il giorno era ufficialmente concluso col massaggio dei piedi di cui il babbo era l’unico beneficiario. Così tutte le sere, i rituali della cena, della radio, del televisore in soggiorno, del massaggio dei piedi, venivano ripetuti seguendo sempre la stessa scaletta, rituali. Non si poteva trasgredire a questa liturgia, per nessuna ragione al mondo.

   Quella sera io trasgredii alle regole assurde di casa mia, imposte da un padre padrone, da un piccolo cesare da commedia, da un ridicolo duce di campagna che se ne stava, comodamente e gratuitamente, seduto in una cucina non sua, da solo. Con mani da profittatore intrecciate sulla pancia, ad ascoltare un programma a quiz, trasmesso dalla radio e condotto da un presentatore, i cui messaggi all’allegria cadevano drammaticamente nel vuoto. Quella sera io avrei avuto bisogno di un padre vero, che mi sapesse consigliare e dirigere e invece, questo, mi osservò entrare in cucina e non si mosse dalla posizione dell’ iguana. Sembrava perduto in un mondo lontano, nella galassia X dell’anno Ottantamila. Pensai che sarebbe andato tutto liscio e spinsi la mia temerarietà fino al punto di aprire un’anta della dispensa per prendere un padellino. Temevo le sue reazioni e lo tenevo sotto controllo con la coda dell’occhio. Tutto sembrava andare tranquillamente, ma quando aprii un pensile per prendere la bottiglia dell’olio, lo vidi che si spostava dalla posizione dell’induista per portarsi una mano all’altezza del mento. Ve lo appoggiò sopra e tenne le dita aperte coprendosi il volto. Seguiva ogni mio gesto con l’unico occhio col quale potesse guardarmi, senza dover essere costretto a ruotare completamente il capo. Notai questi suoi piccoli movimenti con allarme e cercai di fare più in fretta che potevo. Versai un po’ d’olio nel tegame, accesi la fiamma e aspettai qualche secondo, quindi presi due uova dal frigorifero e ne ruppi i gusci sull’orlo del padellino, rovesciandone il contenuto nell’olio bollente. In quel momento il presentatore alla radio ammoniva una distratta concorrente che la risposta che aveva dato era sbagliata: - Eppure era facile facile, eh! Ahi, ahi, signora... 

Dal tegamino si alzarono brevi scoppiettii dalle uova che friggevano, stavo voltato quando sentii, improvvisamente, una sedia spostata con violenza e una mano che mi afferrava per il braccio. Come in un film col flash-back una voce fuori campo mi diceva: - Ecco, ci siamo. 

Vidi il padellino con l’olio bollente e tutto il resto volare verso di me e sbattere contro il maglioncino benetton a colori nuovo di zecca. Sentii un bruciore alla mano sinistra e feci appena in tempo a vedere le due uova che si staccavano, cadendo a terra. In un lampo vidi l’olio che mi colava dal maglione e mi macchiava i Levi’s appena scoloriti. Vidi la faccia rossa costipata d’ira di mio padre che urlava che - non dovevo permettermi di cucinare, perchè quello era lavoro di femmine - e che, - se volevo fare la femmina, potevo andare a farlo fuori da casa sua, fuori dai suoi stramaledettissimi coglioni. Osservavo incredulo i colori sul maglione nuovo, bruciati dall’olio bollente e pensavo - che no, non era possibile. E mentre lui gridava e mi strattonava forte per farmi voltare e colpirmi in faccia, sentii montare una rabbia sorda. Lo afferrai per la gola, sollevai un ginocchio e glielo piantai con forza sul petto, spinsi forte e lo gettai a terra. Gli montai sopra e quello che vide nei miei occhi e nei miei denti digrignati dovette fargli paura, perchè lo vidi per la prima volta con l’incredulità dipinta in faccia. Lo vidi vecchio, con le rughe che gli segnavano il volto e arrivato a due centimetri dal suo naso gli gettai addosso tutta la melma scura che avevo dentro e gli gridai, con quanta voce avevo in gola:- Stronzo, non lo fare mai più, per dio, o ti uccido! Il maglione mi hai rovinato, pezzo di merda, il mio maglione nuovo. Tenevo la mano ancora ben serrata attorno alla sua gola e il pugno sollevato in aria che stavo per calargli in piena faccia, quando sentii una stretta forte che me lo bloccava. Mio fratello mi teneva saldamente e cercava di allontanarmi dal babbo, mentre io tiravo calci dove capitava. Riuscì finalmente a tirarmi su buttandomi addosso al muro: 

- Cazzo, cazzo, fermati scemo! - Lasciami - gli gridavo - lo uccido. Accorsero la mamma e mia sorella, gridavano e piangevano. Mia madre si dava dei pugni sulla testa e urlava. Mio fratello mi mise una mano sulla faccia coprendola totalmente e mi gridò: - Non provare mai più ad alzare le mani su nostro padre, mai più o non uscirai vivo da questa casa. Qualsiasi cosa faccia, non t’azzardare mai più. Alzò il pugno e lo scaricò sull’intonaco del muro, a un soffio dal mio occhio. Dentro la mia testa esplosero tutti i tamburi che Bonzo-Bonham non riusciva a tenere a freno. La sua Balena dava grandi colpi di coda sopra l’oceano finchè, dato un ultimo grande soffio e lanciato uno spruzzo di vapore contro il cielo di piombo, si inabissò nelle sue acque nere, laddove il buio si fa  oscurità. La mamma aiutò il babbo a rialzarsi e lo fece sedere sulla sua solita sedia, mentre mio fratello mi portava di la continuando con le sue minacce, ma già i colpi che mi dava sulla spalla si erano alleggeriti e adesso avevano il solo scopo di calmarmi e rassicurarmi. Soffiavo e respiravo forte dal naso e avevo bisogno di calmarmi. Avrei voluto raccontargli di Grazia e del problema che avevamo. Avrei voluto che mio fratello mi tenesse stretto e mi ascoltasse per dirmi cosa dovevo fare. Avrei avuto bisogno che qualcuno mi spiegasse che cos’è veramente un aborto. Avrei voluto dormire e risvegliarmi l’indomani mattina, come in quella pubblicità dell’olio Sasso  di qualche anno fa, dove il protagonista sognava di avere una pancia enorme e poi si svegliava e scopriva con gioia che si era trattato di un incubo, la pancia non c’era più e tutto era tornato normale. In cucina mia madre scioglieva ancora una volta delicatamente i lacci delle scarpe di suo marito, gli parlava a bassa voce e gli diceva: - Sshh, va tutto bene, - per calmarlo e fargli dimenticare che uno dei suoi figli, il più piccolo, l’aveva appena affrontato, gettandolo a terra e stava per colpirlo con un pugno in pieno volto. Fra poco si sarebbero spente le luci e domani nessuno avrebbe più parlato di questa cosa orribile che era successa a casa nostra. Io mi sarei risvegliato come quell’attore della pubblicità, senza più quella pancia orrenda e avrei gridato:- La pancia non c’è più, la pancia non c’è più! La radio era rimasta accesa, nessuno aveva pensato di spegnerla. Discretamente era iniziata una musichetta gracchiante che doveva introdurre l’argomento per la prossima domanda del quiz. 

 

   Ho voluto bene non a mio padre, ma all’idea che ho dell’essere padre. Ho ascoltato con le lacrime agli occhi una canzone che Peter Gabriel ha dedicato a suo padre, una canzone struggente e vera, fra le più belle che un figlio possa scrivere.  La sua voce è calda e potente, il suo ricordo così vivo che ho inevitabilmente fatto il confronto col mio, ancora troppo pieno di rancore. Padre e figlio abbracciati come una cosa sola in questa stanza vuota. Con mio padre dalla mia parte; Spine against spine, schiena contro schiena; Yours against mine, appoggiati l’uno all’altro; I could hold back the tide, with my dad by my side, avrei potuto reggere alla marea con mio padre vicino. Non abbiamo parlato molto noi due, We couldn't talk much at all; e adesso queste lacrime significano che sono ancora il tuo ragazzo, And now these tears guess I'm still your child.

      Quando mio padre invecchiò e si ammalò, lo portarono d’urgenza all’ospedale, io rimasi tutta la notte, da solo, al suo capezzale a vegliarlo.  Aveva la barba lunga, rada e bianca, un velo opaco negli occhi gli impediva una visione chiara delle cose, ma era pienamente cosciente di quello che gli stava accadendo. Il terrore della morte si era impadronito dei suoi lineamenti. Allungò una mano per cercarmi, chiunque io fossi, per trovare conforto. Osservai quella mano che brancolava sopra la coperta dell’ospedale, lo sentivo mugolare nel suo buio profondo, nella nuova notte che stava conoscendo. La sua mano cercava sulla coperta la mia. La mosse verso di me in una richiesta muta e fiduciosa, io non accolsi la sua sofferenza e gli negai il mio conforto, lasciandolo da solo con la sua difficile pena. Alle sette venne mia madre a darmi il cambio, alle undici telefonò a casa dicendo che il babbo era appena morto. Proprio in quel momento era iniziato sul mio giradischi, l’ultimo brano del secondo dei Led Zeppelin, Bring it on home.

  " With my dad by my side, got my dad by my side... with me", "con mio padre dalla mia parte, ho mio padre dalla mia parte... con me". 

“Quando a mio padre si fermò il cuore, non ho provato dolore.”

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 17

Post n°35 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

 

Cancellarsi da fe’zbuk?



     Credo che farei bene a cancellare la mia iscrizione a Facebook, valanghe di pubblicità sempre più invadente lo intasano. Troppi  messaggi futili e infantili lo inquinano. C’è troppa gente in giro che non trova nient’altro da fare che starsene per delle ore  a leggere e scrivere vera roba da immondezzaio e niente che ti appartenga veramente.

   La finestrella di stato mi rivolge il suo annoiato invito a condividere con tutta la comunità quello a cui sto pensando in questo momento e io senza pensarci su scrivo: - Martino pensa a Vittorio, suo figlio, che ancora non ha conosciuto. Do invio e pubblico il mio messaggio rivolto a tutta la comunità, ma lo scrivo in particolare perchè lui e Grazia lo leggano. Dopo una decina di minuti appena ecco arrivare un primo messaggio:

- Che scherzo è questo, Martino? Chi è questo figlio che ancora non conosci? Ci hai nascosto questo segreto per tutti questi anni?

- Ma no, - replico con un botta e risposta- è tutto uno scherzo.

- Ehi Grigio, ma sei diventato padre su fez’buk? - mi grida un altro, - ma il tuo non era solamente un romanzo di fantasia? Oppure è tutto vero e tu sei veramente il protagonista del racconto,  Grigio, alias Martino?

Un collega di lavoro, azzarda: - Ho letto tutte le puntate che hai pubblicato su facebook, per me non puoi essere tu Grigio. E` troppo diverso da come ti conosco, però non si può mai dire di conoscere veramente le persone. ‘Mazza, quante cose ti frullano per la testa quando non lavori!

Sulla finestrella di stato, alla voce: “a cosa stai pensando”, scrivo un messaggio chiaro e forte:

- Non sono io Grigio, sia chiaro una volta per tutte!

La finestrella della chat si materializza sulla destra in basso. Entra con discrezione, quasi al rallentatore, come una piccola ferita rosa che si apre sulla pelle luminosa dello schermo del computer. La osservo affascinato e incuriosito e trovo la prima, semplice, domanda: - Martino?

- Si Grazia, sono qui. - Attendo a lungo la sua risposta, forse starà scrivendo un testo lungo ed elaborato. Forse non ricorda che nelle chat bisogna essere rapidi ed incisivi. Alla fine però arriva qualcosa che contrasta con la velocità del  pensiero, creando uno slittamento e un a-sincrono che contribuiscono, come in un film giallo, ad aumentare la suspense. - Anch’io, come gli altri, non capisco se quello che hai scritto e pubblicato rappresenta fatti e personaggi che sono realmente accaduti ed esistiti, oppure se è il prodotto di un mescolamento di realtà e immaginazione. 

- Può anche essere come tu dici - replico sospettoso.

- Nei capitoli che hai pubblicato ho trovato parti che riconosco e che ho realmente vissuto con te, intrecciate però ad altre che hai manipolato e forzato a tuo piacere. 

- Per esempio?

- Mio padre, - dice Grazia - non ha mai fumato, anzi era contrario anche al fumo passivo.

- Legge del contrappasso per opposizione, - replico con una battuta di spirito.

- Lascia perdere. Non so perchè, ma ti serviva un padre fumatore, con qualche vizio su cui inanellare una serie di considerazioni tue. E visto che ho citato mio padre, parliamo un po’ anche del tuo. Nell’ultimo capitolo che ho letto l’hai lasciato morire all’ospedale, negandogli la tua mano e il tuo sostegno.

- Non ero sicuro se era il caso di raccontare un’esperienza così dolorosa per me.

- Martino, quella notte all’ospedale a tenere la mano di tuo padre e ad assisterlo in quel difficile momento non c’eri tu, ma tuo fratello, lo sai.

- Tu come fai a sapere queste cose?

- Te l’ho già detto un’altra volta, l’ho cercato e ci siamo incontrati. 

E` stato lui a raccontarmi cosa era successo quella sera a cena e a dirmi della morte di tuo padre. Tu non eri a casa e non sapevano dove rintracciarti. Tuo fratello dovette fare il primo turno di sorveglianza e l’indomani mattina alle sette tuo padre morì.

- Non potrebbe essere che abbia mentito mio fratello?

- Martino! Provi almeno un minimo di vergogna? Dopo tanti anni, ti vergogni almeno un po’?

Non so cosa replicare al tono di Grazia che ora si fa risentito e accusatorio. Un avviso mi dice che Grazia si è disconnessa. La finestrella rosa della chat si chiude e dopo qualche secondo squilla il telefono cellulare.

- Martino?

Premo il tasto col telefonino verde, ma non rispondo, attendo qualche istante.

- Lo so che mi ascolti. Perchè senti ancora il bisogno di mentire, di mistificare la realtà, di costruirti un mondo irreale e parallelo dove tu possa modificare e distorcere i fatti a tuo piacere? Non è sufficiente la “realtà” così com’è, con il suo carico di crudeltà quotidiana e col suo ordinario orrore? 

- Scrivere non è il mio lavoro, ho creduto di poterlo fare per te, per ritrovarti, mi sono lasciato prendere la mano e adesso non so più se è solo per scaricare il vuoto che mi circonda e mi opprime, o per  questa inadeguatezza a vivere che mi sento addosso come un vestito stretto.   Quello che tu hai scritto nel tuo capitolo corrisponde esattamente alla realtà delle cose? I fatti drammatici di cui hai  parlato si sono svolti realmente in quel modo? Non hai ecceduto in qualche punto? Non ti sei lasciata andare a sottolineare la particolare drammaticità della tua situazione? Non hai premuto il pedale dell’autocommiserazione per assolverti un pochino?

- No Martino, non l’ho fatto.

- Veramente ti facevi di eroina come una tossicomane da film-verità? Veramente ti vendevi per strada per una dose? Veramente hai abbandonato tuo figlio per bucarti meglio?

- ... Martino, ti prego...

- Hai fatto la troia, hai spacciato droga, eri alcolizzata e ora sei una signora?

- Si, veramente ho fatto tutte queste cose e ora sono una signora. Volevo credere alle cose che scrivevi, ma l’età mi ha resa dura e ora bado all’essenza delle cose, alla loro verità. L’altro giorno riflettevo sul fatto che, grazie a questa prodigiosa tecnologia che ci è piombata in testa così rapidamente, io e te sono già diversi mesi che ci sentiamo con una certa regolarità, dopo tanti anni di silenzio. Sono diventata una signora, anche se non mi credi, e tu non mi hai ancora chiesto un appuntamento, neppure per un invito a cena. Eppure di cose di cui parlare, guardandoci dritti in faccia, mentre fingiamo di intenderci di vini rossi, ne avremmo avute tante. Ho aspettato che tu mi rivolgessi questo invito, ma non è mai giunto e adesso penso che sia stato meglio così. Magari avresti avuto il cattivo gusto di chiedere conti separati al cameriere, credo che saresti capace di finezze del genere.

- L’avresti potuto fare anche tu questo passo, - replicai infastidito.

- Oh no, sono gli uomini che portano i fiori alle donne. Quando una donna porta dei fiori ad un uomo è un brutto segno per l’uomo. Sono gli uomini che aprono gentilmente le porte alle donne e accostano loro le sedie quando si mettono a tavola. Sono gli uomini che devono fare queste cose, gli uomini veri, quelli che hanno il dono raro e prezioso della loro consapevolezza e non conoscono l’arroganza. Non hai più molto tempo ormai per rimediare, sei arrivato all’ultimo capitolo del tuo racconto. Manca solo l’ultimo brano, la traccia numero nove, quella che chiude l’album. Un blues meraviglioso, con quel basso incedente e ritmato, privo di inutili illusioni, così vicino al battito del cuore. Si apre all’armonica con un invito dolcissimo eppure inquietante. L’atmosfera generale è scura e prevalgono i toni caldi del perdono e del ritorno a casa.

"I gonna bring it on home to you.

I've got my ticket, I've got that load,

Got up, gone higher, all aboard".


- Non hai nessun ricordo legato a questa canzone? Dai, sforzati, vedrai che con un po’ di immaginazione qualcosa riuscirai a tirare fuori, inventa, se non trovi nient’altro.

"Bring it on home to you.

Watch out, watch out"

- Grazia?

- Si Martino?

- Pensi che mio figlio potrà perdonarmi?

- No Martino, non è più in grado di perdonarti.

- E`in difficoltà? Ha bisogno... avete bisogno di aiuto? Posso aiutarvi, anche se credo di essere io ad avere bisogno di voi. Non ho una famiglia, in questi anni ho vissuto come un lupo. Vivo in questa casa troppo grande, dove nessun ricordo, nessuna voce di donna ha mai attecchito.

Se tornaste qui, sarei felice.

- Ehi, sembrerebbe una proposta molto seria, o fa parte del tuo racconto? Che hai previsto per noi a questo punto, un rientro in grande stile? La mamma drogata che rientra a casa col figlio illegittimo? Non mi chiuderai la porta in faccia come hai fatto recitare a tuo padre, spero.

- Vittorio, sta bene? E tu?

- Vuoi un vero colpo di scena? Come lo presenterai ai tuoi lettori, saprai  scegliere le parole più efficaci?

- No, nessun colpo di scena, nessun racconto, quello non è ancora concluso. 

- Allora Martino, preparati perchè il colpo di scena lo troverai fra non molto, nella tua casella di posta elettronica. Direttamente a casa tua, dal produttore di disastri al consumatore di tragedie in formato html. Il prezzo di copertina è già scontato. Addio Grigio, ascolta questo bellissimo blues:

"Tried to tell you baby,

What ya tryin'a do?

Try to love me baby,

Love some other man too.

Bring it on home".

   Grazia alza al massimo il volume dello stereo e sento in sottofondo le parole di Bring it on home. Esce di scena così, lasciandomi sconcertato. Io grido al telefono, la chiamo, ma lei chiude di colpo e rimane solo il silenzio della casa, che scava e cresce come un cancro.

   Fra non molto, ha detto. Immagino quello che sta facendo in questo momento, riordina foto, copia, incolla, scrive qualcosa. Forse è davanti al computer e i suoi occhiali ne riflettono lo schermo illuminato.

"Ho fatto una passeggiata in centro

Mi sono confuso e sono tornato tardi.

Ho trovato un biglietto diceva: 

Papà, non posso proprio aspettare".

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 18 (I.parte)

Post n°34 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

Bring it on home (1. parte)
     Sto pensando di chiudere il mio account su facebook. Gli amici, quelli veri, non li trovi li, non ti abbandonano e non lasciano passare tanti anni per chiamarti. Facebook serve ai nostalgici, ai deboli di spirito,  serve ai ragazzini per comunicare rapidamente e in maniera superficiale i loro piccoli pensieri. Serve agli esibizionisti di tutti i generi che pubblicano le loro foto sgranate e con le smorfie tutte uguali. fb è utile ai gruppi neonazisti, agli estremisti di ogni credo e ideologia, alle mafie e alle camorre di ogni parte del mondo. Serve agli artisti ingenui, che pubblicano le loro opere sperando che qualcuno scopra il loro talento frustrato. fb non serve a nessuno e non serve a niente. I social network sono la frontiera più avanzata e subdola della pornografia gratuita. Rappresentano il più efficace e legale strumento di controllo di milioni di persone sparse in tutto il mondo. fb e affini conoscono i nostri interessi e sanno dei nostri gusti in fatto di cibo, cinema, televisione. Sanno delle nostre malattie, conoscono le nostre debolezze. Sanno dove trascorriamo le nostre misere vacanze, possiedono milioni di foto che noi, gratuitamente, mettiamo in rete. Hanno notizia degli alberghi e dei ristoranti che frequentiamo. Sono informatissimi riguardo ai nostri orientamenti politici, religiosi e sessuali, non gli facciamo mancare niente. Gli confessiamo allegramente quanto spendiamo per l’abbigliamento e per i nostri gadget elettronici. fb conosce l’ammontare del nostro conto in banca, conosce i debiti che abbiamo contratto e sa suggerirci, con discrezione, a chi rivolgerci quando non riusciamo più a pagare il mutuo della casa o dell’automobile. Scriviamo tranquillamente tutte queste informazioni, convinti che è ad un amico che ci stiamo rivolgendo. Gli amici non stanno su fb, sono altrove, nella vita reale, quella vera, quella che ci mette sempre più paura. Provate un po’ ad incrociare tutti questi dati e metteteci sopra la vostra faccia, vi renderete conto che nessuno di noi appartiene più alla ristretta cerchia di parenti ed amici. Siamo il popolo dei Condivisi. Dovrebbero disegnare una bandiera e scrivere il testo e la musica dell’inno della “Nazione Trasversale dei Condivisi”. Dovrebbero realizzare un musical, un serial televisivo, una sit-com, un movimento politico che abbia come slogan: “Condivisi di tutto il mondo disconnettetevi”. I social network vendono al miglior offerente tutte le informazioni che  noi forniamo e le agenzie di marketing costruiscono messaggi e promozioni personalizzate, “fit-4-u”, col nostro pieno ed incondizionato consenso e noi non possiamo farci niente. Chiuderò il mio account su fb e non lo riattiverò mai più. Anche Grazia l’ha già chiuso.

     L’avevo chiamata a lungo quella notte, dopo l’ultima telefonata.
- Grazia, Grazia, - gridavo, ma non rispose. Non si fece più trovare e non ricevetti più sue notizie. Sparita, persa per sempre. Aveva pesato bene ogni parola che mi aveva detto; calcolato e previsto con cura ogni mia reazione; aveva misurato l’effetto che avrebbe avuto su di me ogni immagine che mi avrebbe mandato. Una regia perfetta aveva guidato ogni sua azione, una regia semplice ed efficace, primitiva, dritta al bersaglio. Mi aveva cercato dopo tanti anni, ma in realtà non mi aveva mai perso di vista e sapeva quasi tutto di me. Era al corrente riguardo al mio lavoro e al tipo di vita che conducevo, sapeva della mia solitudine e della mia fragilità. Mi aveva incoraggiato a scrivere queste pagine per spingermi ad uscire allo scoperto. Poi, con calcolato tempismo, prima una foto, poi un filmato, mi aveva mostrato un bambino, un ragazzo, un giovane con la chitarra. Mi aveva detto: ”guarda i denti, lo vedi quello spazio vuoto tra gli incisivi? sono i tuoi; guarda i capelli ricci e lunghi, non ti ricordano qualcuno? Suona il basso elettrico, gli piace la musica rock, la stessa musica che piace a te; è come te; potrebbe essere tuo figlio; 
è tuo figlio, non lo vedi?”
   E io avevo ascoltato quella canzone, avevo iniziato a osservare quel volto. I lineamenti della fronte, il profilo del naso, il taglio degli occhi, il disegno della bocca, gli anelli scuri dei capelli che scendono fino al collo. Avevo creduto di scorgerci me stesso e l’inquietudine per quel ragazzo dai tratti così familiari e così facile da amare subito, si era fatta largo. Poi con la stessa determinazione me l’aveva tolto, così come io avevo tolto a lei il mio sostegno su quel marciapiede, improvvisamente, creando un vuoto che non si può più riempire. A conclusione di quella telefonata, con un tono di voce duro e definitivo, Grazia mi aveva preannunciato un “colpo di scena”. Cercai nella mia posta elettronica, ma per quella sera non accadde nient’altro. Spensi il computer e me ne andai a dormire. Non fu un buon sonno quello che ebbi e l’indomani mattina mi alzai ancora più stanco. Al rientro dal lavoro mi preparai qualcosa da mangiare, mi concessi un bagno caldo e dopo mi sedetti davanti al computer. Osservai a lungo il monitor spento del computer. “Pericolo!”, mi diceva: “ Non mi accendere stasera. Esci se puoi, vai al cinema, telefona ad un amico, ma non mi accendere stasera. C’è molta posta per te, ma è bene che tu non la legga. Ho un comando speciale, segreto, che rivelerò solo a te per rilevare i contenuti pericolosi delle e-mail, le posso distruggere per non causarti dolore. Vuoi che distrugga il contenuto di questi messaggi? Premi comando+esci e tutto sarà risolto. ” Guardavo come ipnotizzato lo schermo nero del computer e non mi rendevo conto che stavo proiettando su di esso una paura folle che mi stava prendendo.

   comando+esci! comando+esci! comando+esci!

- No! - dissi allo schermo nero e premetti forte il pulsante di avvio. Lo schermo si illuminò riluttante producendo un suono morbido. Quando comparve l’immagine del desk-top e tutto era pronto, cliccai sul browser della posta elettronica e i miei occhi corsero a cercare notizie di Grazia. 

   comando+esci! comando+esci! comando+esci!

   Il download fu lento e laborioso. Molti erano i documenti di foto in un formato ad alta risoluzione, insieme ad altri di testo che lei aveva caricato. Non esisteva un ordine preciso, tutto appariva messo così, alla rinfusa, come di chi aprisse uno scatolone polveroso nascosto a lungo e ne rovesciasse il contenuto sopra un tavolo. Spettava a me ora aprire tutti quei documenti, dargli l’ordine e la collocazione giusti.

"Sweetest little baby
Daddy ever saw.
I'm gonna give you lovin'Baby
I'm gonna give you more.
Bring it on home.
Bring it on home to you".

   “Dolcissimo ragazzino, papà vedeva sempre. Ti darò l'amore. Ti darò di più. Lo porto a casa. Tutto a posto. Lo porto a casa per te.”

Stavo davanti al computer e osservavo disorientato tutto quel materiale.
Era notte e per la strada ronzavano le ultime automobili. 
“Non toccare quelle cartelle, - ripeteva la vocina meccanica del pc, - non costringermi ad aprirle. Ricordati del comando salva-tranquillità: comando+esci, penserò a tutto io. Lascia perdere e vai a dormire.”
   Non diedi retta al mio computer naturalmente e diressi il puntatore verso una delle tante foto che Grazia aveva caricato. Non compresi subito la scena che apparve davanti ai miei occhi. Una grossa autocisterna giaceva rovesciata sul fianco destro, adagiata col suo enorme peso fuori strada. Un gruppo di persone osservavano la scena dell’incidente voltando le spalle alla macchina fotografica. Il cielo era azzurro e portavano pesanti giacche a vento e cappelli di lana in testa. Concentrai a lungo la mia attenzione su quell’autocisterna adagiata lungo il fossato, come un grosso animale appena cacciato.
- Che vuol dire questo camion rovesciato, - pensai. Grazia aveva sempre avuto una passione morbosa per scene di questo tipo. Le piaceva  fissarle sulla pellicola per poi mostrare le foto e darsi arie da reporter   Una volta, accompagnandola a casa, la polizia ci fermò per un incidente avvenuto pochi metri più in la. Una delle due automobili aveva lo sportello aperto e una gamba di donna ne fuoriusciva, poggiando il piede nudo sull’asfalto. Grazia aprì la sua sacca ed estrasse la macchina fotografica, inquadrò la scena e fissò quell’immagine. Il lampo del flash fece intervenire un poliziotto che ci ordinò irritato di andare via.
Dal mazzo di foto che mi aveva spedito ne scelsi un’altra e ci cliccai sopra. Mostrava il grosso muso dell’autocisterna ribaltata sul margine della strada. Sembrava il viso tumefatto di un boxeur dopo un incontro finito male. Ben visibile sotto il camion appariva un’automobile bianca, rimasta schiacciata tra l’autocisterna e la cunetta. La carrozzeria dell’auto era completamente distrutta, il parabrezza era accartocciato e ridotto ad una fitta ragnatela di linee concentriche. La vettura bianca spuntava da sotto il pesante automezzo, come un timido animale che cercasse di sfuggire disperatamente al suo destino di preda. 
- Dio, no, no, - mi ritrovai a balbettare, mentre fissavo quell’immagine. 
Sull’asfalto, in controluce, giacevano gettati alla rinfusa flaconi di detersivi. Un camion vi passava sopra schiacciandoli e facendone uscire fuori il contenuto che formava uno strato scivoloso sopra il manto stradale. Non si vedeva nè un poliziotto, nè un’ambulanza, solo persone che osservavano la scena e chiamavano qualcuno con i telefoni cellulari. 
   In preda ad una angoscia che sentivo crescere sempre più forte  e alla nausea che iniziava a prendermi, aprii il contenuto delle altre foto. Erano diciotto in tutto e avevano per soggetto lo stesso incidente. Le osservai facendole scorrere una ad una, in preda al panico e ad un malessere, come uno stordimento, causato da un capogiro improvviso. Una ritraeva la pancia dell’autocisterna, nera di tubi, di cavi elettrici, di piccoli serbatoi di plastica e di metallo e di ingranaggi misteriosi. Tutti uniformemente imbrattati dalla fuliggine del tubo di scappamento e dallo sporco raccolto dalla strada. Un’altra foto si concentrava sul particolare del parabrezza dell’auto bianca schiacciata sotto l’autocisterna, isolandone la fitta trama di linee formate dal vetro esploso. Un’altra mostrava però un terzo automezzo coinvolto nell’incidente. Non compariva nelle immagini precedenti. Sentii come un tonfo secco dentro al cervello, mi dovetti fermare e respirare a pieni polmoni. Un furgone giaceva rovesciato fuori strada sull’altro lato della carreggiata. Le sei ruote ormai non poggiavano più da nessuna parte, sembrava un terribile animale, impotente e vinto, con le sue grosse zampe per aria, il parabrezza era distrutto. Bagnoschiuma, flaconi di sapone liquido, detersivi di ogni marca e colore, erano stati catapultati fuori dal furgone, sfondando il vetro che era esploso in mille frantumi. Un’altra immagine ancora inquadrava una ragazza con i jeans e un paio di scarpe da ginnastica. Indossava un piumino rosso, stretto da una cinta, i suoi capelli erano neri, corti. Si sporgeva verso il parabrezza del furgone rovesciato e con una mano, da cui usciva del sangue, si aggrappava al vetro disintegrato. Si chinava in avanti come per chiamare qualcuno e sollecitarlo ad alzarsi. - No, no, no, - pensai. Grazia non poteva aver fatto questo. Mi voltai, distogliendo gli occhi dallo schermo del computer, cercando un punto d’appoggio nella stanza dove scaricare la tensione che stavo accumulando. Cliccai su un’altra foto e rimasi paralizzato. In questa si vedeva lo stesso furgone bianco rovesciato, della ragazza col piumino rosso si intravedeva solamente un braccio alzato che entrava nell’inquadratura tagliando tutto il resto. Il punto di vista era lo stesso della foto precedente, ma chi l’aveva scattata si doveva essere avvicinato al furgone. Si vedeva meglio il vetro sfondato del parabrezza e si poteva distinguere l’interno della cabina. Il furgone sembrava simile ai tanti che si incontrano sulle tutte le strade intorno alle sette del mattino. Viaggiano carichi per raggiungere i mercati di paese e, a volte, eseguono dei sorpassi azzardati per arrivare in orario nelle piazzole dove vendono la loro merce. Questo genere di furgoni ha ante laterali ribaltabili e possono tirare giù delle tende per proteggersi dal sole e dalla pioggia. Era datato e vecchio, con numerosi ed evidenti rattoppi, forse acquistato di seconda o di terza mano, la targa aveva la sigla di Siena. Il paraurti appariva completamente divelto, era rotto e poggiava con un angolo per terra, mentre l’altro stava ancora attaccato al muso del camioncino. I tergicristalli erano piegati e uno di essi aveva perso la spazzola. Il tetto era inclinato e ammacato sul lato del guidatore, segno che il colpo più forte  era stato ricevuto proprio in quel punto. La guarnizione di gomma nera del parabrezza era staccata e ciondolava all’ingiù. Scaffalature e banchi pieghevoli in metallo erano stati scaraventati verso la cabina e tutta la merce si era abbattuta sui passeggeri e sul vetro davanti sfondandolo. La frenata doveva essere stata brusca e improvvisa e l’impatto con l’autocisterna, che proveniva dal senso di marcia opposto, violento e devastante. Detersivi, carta igienica, barattoli e flaconi di ogni forma e dimensione, pacchi di pannolini, salviette inumidite, bombolette spray, centinaia di scatoline di cotton fioc e quintali di altro materiale erano volati, con la frenata improvvisa, come roccia che si stacchi di colpo finendo addosso ai passeggeri. 
   Nella foto, sepolto sotto questa montagna di oggetti, c’era qualcuno, l’autista del furgone... sembrava un ragazzo...

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 18 (II.parte)

Post n°33 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

 

Bring it on home (2 parte)



   Sembrava un ragazzo. I capelli erano lunghi e ricci e la nuca era appoggiata ad una parte del parabrezza rimasto attaccato, non si sa come, all’intelaiatura del furgone. Un braccio, ormai disarticolato, girava intorno al corpo abbandonato, senza più vita. Ancora un’altra immagine, ed ecco la ragazza coi jeans e le scarpe da ginnastica. Aveva le mani ricoperte di sangue e piangeva piegando le ginocchia e stringendosi alla pancia, mentre un uomo la sorreggeva con entrambe le braccia. 
- Vittorio, Vittorio, oh dio, no, no, ti prego, alzati.
Per terra, sull’erba misera in prossimità di un campo e sull’asfalto, buste, pezzi di lamiera e di plastica volati via dalle carrozzerie, vetri rotti, giacevano inerti sull’asfalto, reso scivoloso da una marea di liquido cremoso. Feci un’altra pausa e mi imbambolai davanti al computer che mi mostrava quelle immagini.
- Vittorio, Vittorio, Vittorio, Vittorio, - mi ritrovai a dire, dapprima come un suono inarticolato e flebile, poi sempre più forte: - Vittorio, Vittorio, Vittorio, Vittorio, dio, no... non...

"Ho fatto una passeggiata in centro
Mi sono confuso e sono tornato tardi
Ho trovato un biglietto
Diceva: "Papà, non posso proprio aspettare."

   Mi misi a camminare a grandi passi dentro casa. La percorrevo in lungo e in largo, battevo i piedi sul pavimento, incurante del silenzio della notte e dei vicini. Mi guardavo attorno smarrito, come se mi trovassi dentro casa mia per la prima volta e non riconoscessi niente. I mobili, le sedie, il tavolo della cucina, il salotto elegante, tutto mi appariva  nuovo ed estraneo. Come se niente di quello che vedevo mi appartenesse, come se nulla fosse stato mai realmente mio. Vedevo le pareti che si aprivano lasciandomi nudo e indifeso davanti agli sguardi curiosi e maligni dei vicini. Tornai a sedermi davanti al computer e cliccai sui due documenti che Grazia aveva allegato. Erano copie  delle pagine di cronaca locale di due giornali di Torino. Davano un resoconto dell’incidente che avevo visto nelle foto. Il primo articolo era accompagnato dall’immagine dell’autocisterna rovesciata, mentre il secondo riportava la foto-tessera del conducente del furgone.

“Schianto, muore mentre va al lavoro” 

   Ennesimo incidente sulla tangenziale sud. Perde la vita un commerciante di Torino
 
   Torino - Vittorio Raspi, 29 anni, venditore ambulante di Torino, è morto in un incidente stradale sulla tangenziale sud, tra Torino e Chieri. Ferita in modo lieve la donna che lo accompagnava al lavoro. La strada è stata chiusa in quanto un’autocisterna con cui si è scontrato il furgone condotto dalla vittima ha perso parte del gasolio che trasportava. La tangenziale è stata riaperta soltanto nella tarda serata di ieri. Vittorio Raspi aveva ventinove anni, viveva con la madre e il lavoro di sempre che alternava con l’impegno in un gruppo musicale col quale si esibiva al basso elettrico nei club della provincia. La fidanzata, al quarto mese di gravidanza, è ancora sotto shock. 

   Il secondo articolo,  ha uno strillo:

   “Frontale, muore ambulante di Torino.”

   Incidente mortale nelle prime ore di questa mattina sulla tangenziale sud all’uscita verso Chieri. La vittima è Vittorio Raspi, ventinove anni ambulante di Torino, alla guida del suo furgone carico di detersivi. In compagnia della fidanzata, al quarto mese di gravidanza, si recava al lavoro come ogni mattina. In un lungo rettilineo ha incrociato un’autocisterna carica di gasolio che viaggiava in direzione opposta. Secondo i rilevamenti della Polstrada i due mezzi si sarebbero agganciati. Il furgone è stato trascinato per alcuni metri poi il camion è finito in cunetta. Morto sul colpo il conducente del primo mezzo. Nell’incidente è rimasta coinvolta una terza auto, ma fortunatamente senza gravi conseguenze per il conducente. Sul posto sono giunti i vigili del fuoco che hanno provveduto a rimuovere i mezzi e pulire l’asfalto dal liquido fuoriuscito dalla cisterna e dai detersivi trasportati dal furgone. Ferita lieve e sotto shock la fidanzata che accompagnava la vittima al lavoro.

   - No, no, noo! 

   Respiravo forte col naso e l’aria che entrava mi bruciava i polmoni.

   - No, no, no, no.

    “E`uno scherzo orrendo”, pensai. Grazia non poteva essersi spinta così in avanti con la crudeltà. Afferrai il telefonino e provai a chiamarla, volevo sentire la sua voce, volevo sapere la verità. Cercai il suo nome nella rubrica e digitai il numero. Attesi un istante e quando sentii una voce che mi rispondeva gridai: - Come hai potuto farmi questo, io...
- ... il numero da lei composto è inesistente, si prega di riagganciare. Grazie.
La voce registrata e meccanica dell’annuncio  aveva il sapore della perentorietà. Riagganciai e tornai a sedermi davanti al computer a riguardare le foto, una per una, ancora e ancora.
   L’enorme autocisterna che trasportava gasolio, adagiata di lato lungo il bordo della strada, come un gigantesco bestione ferito; l’erba piegata e i paletti catarifrangenti della strada spezzati dall’urto violento; l’automobile bianca schiacciata dal camion che spuntava appena come preda ghermita e indifesa; l’asfalto coperto da quella poltiglia immonda, reso viscido dai detersivi cremosi che si mescolavano come nella tavolozza di un pittore impazzito. 
   Sulla sinistra il furgone rovesciato e vinto opponeva le sue ruote a quelle dell’autoarticolato dall’altra parte della carreggiata. La ragazza con i jeans e le scarpe da ginnastica si avvicinava al parabrezza e con le mani insanguinate scuoteva il suo ragazzo per svegliarlo dal quel sonno innaturale. Lo scuoteva per levarlo da quella posizione scomoda che aveva assunto da qualche momento. Fra pochi minuti sarebbe iniziato il mercato e avrebbero fatto tardi:- Basta con questo scherzo, alzati. - Sembrava dirgli. E lui, attaccato a quel parabrezza in frantumi; i suoi capelli lunghi e ricci, impastati nella crema dei saponi liquidi esplosi; lui schiacciato dai detersivi in polvere, vinto dagli scatoloni dei pannolini in offerta; lui abbracciato ai rotoloni regina, sommerso dalle pellicole avvolgitutto e dai tubi di carta stagnola; lui inanimato e sommerso dal domopack per il forno; lui così bello, con i suoi denti leggermente divaricati che gli danno un’aria malandrina e buona; lui senza un padre che gli indicasse la strada giusta da prendere, massacrato dalle tonnellate di benessere crollategli addosso alle sette di mattina, mentre faceva progetti per il suo bambino.
- Vittorio, Vittorio esci di li, basta andiamocene via.
Così sembrava dirgli la sua ragazza mentre un signore anziano impietosito cercava di strapparla via da quella scena orrenda. Sulla strada intanto continuavano a saltare i tappi dei flaconi di plastica colorata, producendo piccoli scoppi sordi che rendevano quella situazione irreale. Vittorio, Vittorio...

With my dad by my side, 
got my dad by my side. 
With me.    

   Aprii un file di testo e vi trovai una lunga lettera di Grazia.

   “ Grigio, permettimi un ultima volta di chiamarti così. Quando leggerai questa lettera avrai già visto la crudeltà e l’orrore di quelle foto e penso che sarai sconvolto, così mi auguro per lo meno. Da qualche tempo Vittorio aveva abbandonato i suoi studi universitari, diceva che li avrebbe ripresi più avanti, ma io non ci speravo più. Con il mio aiuto aveva acquistato una licenza di venditore ambulante per la provincia di torino. Aveva comprato anche quel furgone: - una vera occasione, - mi aveva detto, - lo danno via praticamente per niente insieme alla licenza.
Era tutto in perdita. I primi tempi aveva avuto dei grossi problemi a capire quello che doveva vendere, come dovesse fare gli ordinativi delle merci. Ultimamente l'esperienza che andava facendosi lo aiutava a compiere delle scelte mirate e la sua ragazza era incredibile nel consigliarlo e guidarlo. E`stata lei a fare un piano ragionato delle piazze più convenienti dove andare a fare mercato. Iniziavano appena ora a vedere i primi frutti del loro lavoro, un lavoro come un altro, fatto di sacrificio e di fatica. Ma quando hai dei progetti in testa tutto sembra più semplice e loro due avevano intenzione di trovare un appartamentino dove andare a viverci insieme, aspettavano un bambino sai. Da qualche tempo lei si era trasferita da noi e forse questo aveva fatto più piacere a me che a lui. Si alzavano presto la mattina, li sentivo ridere in cucina mentre facevano colazione. Partivano subito dopo, per raggiungere in tempo i mercati. Rientravano intorno alle tre, facevano l'inventario del venduto e caricavano il furgone per il giorno dopo. Io li osservavo meravigliata da tanta sapienza. Nel pomeriggio lui andava alle prove col suo gruppo che iniziava già ad essere conosciuto anche fuori dalla provincia. Lei qualche volta lo accompagnava, ma più spesso preferiva passare il pomeriggio a casa e qualche volta ci inventavamo qualcosa per uscire insieme. Vittorio Raspi stava diventando un "bravo ragazzo", metteva la testa a posto. Avevano delle date per un loro piccolo tour. Aveva gli occhi rivolti verso il futuro, verso il sole che iniziava a distinguere chiaro e luminoso anche lui, tutti noi. Fino a quel mattino, era il quattordici Marzo di due anni fa. Mi stavo preparando il caffè, mentre sparecchiavo le loro tazze e le infilavo nel lavandino. Sentii il telefono squillare, ma non gli prestai attenzione e non risposi. Pensai che chiunque fosse stato a chiamare a quell’ora poteva aspettare per altri dieci minuti. Il caffè venne su e il telefono riprese a squillare con insistenza. Fu a quel punto che iniziai ad avere paura, mi tremarono le mani mentre lo versavo nella tazzina. Risposi lentamente e dall’altra parte del telefono una valanga di parole e di grida mi investirono in pieno. Cristina, la ragazza di Vittorio, urlava qualcosa, poi qualcuno si inserì e con voce più calma mi disse che dovevo stare tranquilla, che non era successo niente di grave, ma che era meglio se raggiungevo la tangenziale sud, in direzione dell’uscita per Chieri. Il cervello mi esplose in mille pezzi, mi vestii in un lampo e, mentre stavo per tirarmi dietro la porta, tornai dentro casa e frugai in un cassetto dove tenevo una macchina fotografica. Non so perchè lo feci, ma afferrai la macchinetta e volai fuori. Quelle che hai ricevuto sono solo alcune delle foto che ho scattato io stessa, appena arrivata sul luogo dell’incidente, urlavo e fotografavo, gridavo il nome di Vittorio e lasciavo che le mie dita corressero sul pulsante della macchina fotografica. La impugnavo come un’arma che potesse tenere lontana la sventura e la maledizione. Ero stranamente lucida e folle, ipnotizzata dall’intensità dei colori saturi dei flaconi che esplodevano sull’asfalto. Quando arrivarono le ambulanze caricarono me e Cristina e ci imbottirono di sedativi. L’ago che penetrava nel mio braccio fu un antico piacere che ritornava e lo accolsi come si accoglie un ospite a lungo atteso, che non si deve più abbandonare. Dell’ospedale non riesco a ricordare altro che la penombra della stanza al risveglio. Una penombra che non riesco a levarmi ancora dagli occhi, come un velo perenne da indossare, come un lutto dello sguardo. Quando mi lasciasti sola su quel marciapiede e vidi le tue spalle voltarsi, il mio cervello fece tilt e andò in cortocircuito, saltò in un colpo solo tutto quello in cui credevo fino a quel momento. Compresi il un attimo il ragazzo che eri e il genere di uomo che saresti diventato. Alcune donne hanno di questi strani poteri. Pensavo che ti avrei, semplicemente, reso partecipe della morte di questo tuo figlio sconosciuto. Pensavo di risparmiarti la crudeltà della descrizione della sua morte orrenda. Volevo certamente raccontarti la verità, ma senza entrare nei particolari di quel martirio atroce. Però dopo aver letto con quanto piacere narcisistico ti descrivi accanto al capezzale di tuo padre morente; con quanta cura scegli la luce giusta e la posa migliore, mi si è rivoltato qualcosa dentro. Ancora una volta ha prevalso il tuo senso dell’estetica, la cura per la bella ed elegante descrizione. Quando descrivi il tuo rifiuto di accogliere la mano di tuo padre, di quell’uomo che hai piegato alla necessità del tuo racconto e che hai fatto recitare nella parte ingiusta di colui che ti aveva sempre umiliato, non mi è sembrato giusto non farti conoscere ogni aspetto della morte di tuo figlio. Su quel marciapiede vidi il tuo passo svelto che si allontanava da me e capii che non ti avrei più potuto rivedere. Avrei anche accettato l’idea di abortire, non ero contraria per principio, ma quel maglioncino troppo colorato che si allontanava e sbiadiva, confondendosi con altri maglioni, con altre giacche anonime e sconosciute di altri passanti, mi fece male. Cambiai idea e decisi di affrontare tutte le conseguenze di una gravidanza vissuta da sola. Dopo molti anni volli cercare tuo fratello e portai con me Vittorio. Parlammo anche di quella sera, che in parte coincide col tuo racconto. Ricordò il vostro litigio e il pugno alzato sul volto di tuo padre, ma le motivazioni che lui diede non coincidono con le tue, furono ben altre. Credo anche che la toccante storia di tua madre, lasciata da sola fuori di casa da quell’uomo cattivo, sia un’altra tua bella invenzione. Riconosco che l’effetto funziona a meraviglia, ma è un altro tuo esercizio di stile, un altro specchio in cui ammirarti vanitosamente, mentre ti detergi una lacrima troppo facile. Mentire è quello che sapevi fare magnificamente. Giocavi con la descrizione minuziosa dei dettagli, dentro cui mescolavi con abilità verità e invenzione. Sai scegliere l’angolazione più efficace dove sistemare il tuo punto di vista e sai collocare le luci per illuminare bene il tuo racconto. Conosci la profondità di campo e hai capito come far muovere i tuoi attori, ma il ciak ancora sei costretto a dartelo da solo.
   Ti ricordi quando arrivavi tardi agli appuntamenti e io ero costretta ad aspettarti da sola anche per mezz’ora? Arrivavi col tuo sorriso, dal quale mi sarei dovuta tenere alla larga e con una punta di innocente malizia, mi dicevi che avevi tre spiegazioni da darmi, tutt’e tre plausibili. Mi dicevi di sceglierne una, quella che mi sembrava più credibile e quella sarebbe stata la verità. Inventavi, inventavi e io ridevo e non sapevo cosa fosse il rancore. Martino, non riesco più a provare simpatia per te sai, per questo ho deciso di essere così dura e di lasciarti da solo con lo strazio di queste immagini. Sarà la tua coscienza a decidere che cosa fare. Io te le ho messe li, come su una tavola imbandita, come un piatto avvelenato. Cristina mi chiamò al telefono, gridava e non capivo quello che le parole dicevano, ma capii bene cosa significavano. Urlava: - Mamma, mamma, - e allora iniziai a comprendere. Mai mi aveva chiamata così, mai aveva voluto confondere i ruoli. Allora dentro di me crollò tutto, venne giù come una roccia che avevo tenuto in piedi in tutte le maniere. Si sgretolò in un attimo e travolse tutto, casa, lavoro, vita, sogni, tutto se ne andò giù con un gran boato. Non ero pronta a ricevere una botta di quelle proporzioni, ma pare che non sia consuetudine della morte farsi annunciare. Cristina urlava e qualcuno mi diceva di correre li. Mi infilai come una pazza dentro la mia automobile e quando arrivai vidi l’autocisterna rovesciata che schiacciava la macchina bianca. Vidi il furgone, con le ruote in aria, adagiato su un fianco e vidi Vittorio dentro, accartocciato contro il parabrezza, sepolto sotto i detersivi. Il mio cervello non ebbe la forza di resistere, si rintanò nel buio nero e si guastò per la seconda volta.

- Si guasterà anche il tuo?

   “Bring it on home,
bring it on home to you.” 

 

 
 
 

IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN Cap. 19

Post n°32 pubblicato il 01 Febbraio 2012 da alex.canu

 

Chiudere fez’buk




    ho chiuso fez'buk... gli ho scritto una lettera nella quale mi sono scusato per la cancellazione del mio account ma gli impegni di lavoro e una nuova casa più piccola dove abito da poco tempo non mi hanno permesso di... spero che non se ne abbiano a male so benissimo che non è stata certamente una azione corretta da parte mia... lo so mi avevano accolto fin da subito come uno della grande famiglia mi avevano dato fiducia immediata e incondizionata e io... ultimamente mi sento più teso e preoccupato sarà il cambio di stagione ma le stagioni cambiano sempre e allora sarà che ... il lavoro da qualche tempo non va come dovrebbe andare mi metto all’opera però mi confondo con i dati e non capisco più l’utilità delle obbligazioni e dei buoni fruttiferi e... dovrei acquistare i titoli sicuri di alcune banche solide ma la variabilità del tasso non ricordo più cosa sia nè se sia più conveniente il tasso fisso o... i miei clienti li sto perdendo come i capelli che ho in testa ne rimangono sempre di meno per cui... ho mandato un messaggio agli amici ma nessuno mi ha risposto allora li ho eliminati tutti uno dopo l’altro con un clic clic clic... non mi ha risposto la mia amica psicolabile non potrà più contare su di me e si perderà anche lei come tutti noi annegherà nel gran mare tempestoso del mondo e la sua vita non varrà più un soldo bucato via per sempre clic... non ha risposto neppure la mia lontana parente dark che continua a mandare messaggi e baci a tutti con tante kappa e centinaia di punti esclamativi e quando ride fa ahahahahahah... clic non si è fatta viva neanche la moglie del mio amico quella col decollète favoloso però mi ha mandato le fotografie del loro primo bambino giace paraculo sul passeggino e guarda verso l’obiettivo della macchina fotografica con espressione sapiente clic... ho chiuso fez'buk l’ho detto? non credevo di poterlo fare e invece è stato semplicissimo si va su impostazioni e si disattiva l’account facile certo se la sono presa un po’ mi hanno mandato una lettera dal loro avvocato pregandomi di non farlo hanno detto che mi sarei pentito sono arrivati persino a rivolgermi delle minacce esplicite che avrei perso tutti i contatti che avevo e che ad ogni modo se avevo tanti amici era merito loro non certamente mio e che avrei dato loro un grosso dispiacere non se lo meritavano... clic una donna che dice di avere avuto una relazione con me mi ha fatto sapere che si sarebbe gettata fra le braccia del proprio padre se io non... non le ho creduto naturalmente c’è n’è tanti di matti in giro di questi tempi non so chi sia questa persona dev’essere una dei tanti mitomani di cui è pieno il mondo e ora anche le donne fumano e pare che per numero abbiano già sorpassato gli uomini e se continua così... clic una signora vestita come una domatrice di scimmie mi chiama alla lavagna e mi chiede la tabellina del 39 balbetto numeri che la fanno arrabbiare e allora urla e la stanza si trasforma in un acquario e lei ride e guarda fuori dalla finestra dove un camion dice è venuto a prendere la mia inutile zucca... clic un prete in tonaca nera fischia una canzone e parla con un uomo che detta una nota alla domatrice di scimmie... e assentandosi senza appavente motivazione vientvavano in classe tvanquillamente dopo essevsi sposati senza le autovizzazioni neccessavie e senza documenti compvovanti il... clic per un periodo ho ricevuto degli strani messaggi che mi sollecitavano a concludere una strana storia ma non so bene a quale storia facessero riferimento forse ai racconti d’amore quelli a puntate sui giornali che leggo ma quelli quando mai... clic una signora non più giovane ma ancora avvenente mi ha rivelato che ho chiuso il mio account su fez'buk porta una gonna bianca al ginocchio e un gilet blu me l’ha detto mentre alzava in aria una siringa voleva ferirmi con questa notizia ma io non ho reagito... ieri mi ha legato ad una sedia e oggi non voglio certo fare la stessa fine se... stia tranquillo non sentirà niente  mi dice tutte le volte  io sto tranquillo e non sento niente ma dopo scivolo giù come al luna park come l’altro ieri che mi sono ritrovato dentro una stanza dove c’era un giradischi usato acquistato non so da chi di seconda mano ne usciva fuori una musica assordante poi... clic sulla porta un tizio alto e magro mi offre compassi e penne da comprare sorride mostrandomi un dente d’oro e accortosi che lo guardo mi dice che può vendermi anche quello se solo glielo chiedo al mio rifiuto si guarda intorno e mi sussurra all’orecchio ho qui un disco straordinario un vero affare lo vendo per poco ma appena posso me lo ricompro... mi da un oggetto strano enorme nero lucido e brillante mi costringe a prenderlo io lo afferro con le mani e vedo che sopra c’e la foto di un grande dirigibile lo sollevo sopra la testa e lo calo con violenza contro il ginocchio sinistro che tengo sollevato... osservo i due pezzi che ho fra le mani e i frammenti sparsi per terra ma il senso del gesto che ho appena compiuto mi sfugge come se... rischio di brutto a stare ancora in quella stanza col tizio dal dente d’oro ma avevo paura di precipitare ancora non sento più niente di consistente sotto ai miei piedi tento di aggrapparmi ma tutto è immerso in un buio profondo e denso e le mie mani brancolano nel vuoto quando... sento improvvisamente una stretta forte che mi afferra impedendomi di cadere guardo in su e vedo mio fratello che mi dice a bassa voce... ridammi la cinquecentosenape sennò ti lascio andare nel buio... mamma mammaaa  grido forte e allora lui mi lascia andare sempre più giù giù ... un furgone giace accartocciato sul ciglio della strada e centinaia di flaconi di detersivi colorati esplodono colorandolo in modo fantasioso come in una pubblicità hippie... come as you are as you were as I want you to be... poco più in fondo nell’abisso nel quale sto precipitando vedo mia madre che bussa ad una porta e un uomo in maniche di camicia con la faccia nascosta da una densa schiuma da barba gentilmente le apre e con un sorriso la invita ad entrare... allora lei si scusa con l’uomo e lui la rimprovera amabilmente come un dio comprensivo dicendole che non è il caso che... la voce della donna con la gonna bianca e il gilet blu mi dice che mi sto comportando come un vero ometto dice che il mio papà sarà orgoglioso del suo bambino ma non so perchè non credo alle sue parole mi sembra come se quella donna e mio padre fossero d’accordo per... brum brum bgnè bgnè che bella macchina che m’ha comprato papà... poi la donna con la siringa mi canta una canzoncina come una ninna nanna che forse avrei dovuto cantare io tanto tempo fa non mi ricordo più a chi... ne perchè... when you are down and out when you are on the street when evening falls so hard I will comfort you I’ll take your part when darkness comes and pains is all around like a bridge over troubled water I will lay me down... quando sarai triste e assente quando ti troverai su una strada quando la sera scenderà così pesante io ti conforterò io sarò dalla tua parte quando sopraggiungerà l'oscurità e il dolore sarà tutt'intorno come un ponte sopra acque agitate io mi distenderò per te... precipito trasformandomi in una figurina di carta in un origami che volteggia nell’aria spessa in una base che non compare in nessun manuale con tante pieghe difficili da comprendere...  cado dentro un pozzo di san patrizio sbattendo contro le pareti e la mia figura di carta si sfilaccia e le piegature si aprono... quando arrivo giù in fondo trovo un’altro origami che giace a terra è un fiore di loto semplice appena macchiato di rosso gli cado a fianco con una piccola virata. Due lembi si sovrappongono.  

 

 
 
 

I RACCONTI DEL LABBRO LEPORINO Salto con l'asta (storia di Abel Sky)

Post n°31 pubblicato il 29 Gennaio 2012 da alex.canu
 

 

 

 

      Abel Sky era un uomo alto, nero di pelle, con due spalle larghe quanto un olmo e una ferita che, fin dalla nascita, gli divideva in due parti nette il labbro superiore e che metteva paura a chiunque fissasse il suo sguardo su quella bocca rotta. Per questo, e per tanti altri motivi ancora, era un tipo taciturno che se ne stava seduto sulla sua poltrona, foderata di stoffa gialla, a guardare la televisione. Una mano sui braccioli e l’altra penzoloni nel vuoto, le gambe distese, leggermente divaricate, con i talloni delle sue grosse scarpe che sembravano inchiodati sul pavimento, quella volta guardava con la bocca dimenticata aperta le gare di atletica leggera. Nessuno aveva mai pensato che quella sua ferita, con la crescita, potesse essere curata, tanto meno lui, il lavoro dei campi aveva assorbito ogni sua energia e tutto il resto era passato in secondo piano. In TV trasmettevano le gare dei campionati del mondo di atletica e Abel non si perdeva una competizione, aveva interrotto il lavoro per questo, lasciando il suo trattore a languire, abbandonato ai bordi del campo arato per metà. Non si era mai allontanato dalla sua terra e viveva in una solitudine da orso che preoccupava i vicini, coi quali non intratteneva alcun raporto di lavoro o di amicizia. Abel Sky non rivolgeva la parola a nessuno, non frequentava la chiesa battista e nessuno osava chiedergli il benchè minimo favore o parere su qualunque argomento. Il taglio che si portava incollato al labbro, come una ferita procuratagli da una coltellata, pareva un segnale per dividere se stesso dagli altri, una linea di confine che madre natura aveva deciso di porre per separare un mondo dall'altro.

    Abel se ne stava disteso sulla sua poltrona quando arrivarono le gare di salto con l’asta e vi si appassionò così tanto da non riuscire più a distaccare gli occhi dal suo nuovo televisore a colori. La grazia con la quale gli atleti inarcavano l’asta, la leggera rincorsa che prendevano, il rumore secco quando questa si infilava nella buca e poi il salto, quel volo nel cielo che Abel Sky osservava con l’incanto tipico dei bambini. Il lungo attrezzo in carbonio che si fletteva fin quasi a spezzarsi e il volo d’angelo che portava quegli uomini lassù, così in alto da costringerlo a trattenere il respiro. Vedeva l’asticella ondeggiare sui terminali senza cadere e poi fermarsi miracolosamente  ad osservare l’atleta che ricadeva in giù, sui materassi che accoglievano il suo trionfo. Abel sentiva l’urlo del pubblico, rimasto fino a quel momento in silenzio, esplodere in un boato liberatorio ed esplodeva anche lui in un grido di gioia che risuonava per tutta la campagna facendo sollevare la testa ai contadini che, intanto, aravano rumorosamente i loro campi. Fra quegli atleti, Abel Sky, ebbe l'impressione di riconoscere se stesso in un gigante d'ebano come lui e, come lui, portava inciso sul labbro superiore quel taglio che gli dei, per gioco, lasciano in dote a chi gli pare a loro. Il sorriso del gigante lasciava uno spazio libero per i denti bianchissimi, appena coperti da due baffi, com'era la moda in quel momento e a un sorriso sprezzante rivolto all'asticella. Durante un'interruzione pubblicitaria Abel Sky si alzò dalla sua poltrona gialla per prendersi una birra ghiacciata  e li, appoggiato al suo frigorifero, fasciato dentro una elegantissima tuta da ginnastica, rossa con tre bande bianche verticali,  gli apparve il diavolo in carne e ossa. Superato il primo spavento, Abel osservò con diffidenza la strana creatura, pensando ad uno scherzo dei vicini e, solo allora, l’infernale ospite gli rivolse il suo sorriso più rassicurante, chiedendegli quale fosse il suo più vivo desiderio, perchè lui lo avrebbe aiutato a realizzarlo. “Tutto però ha un prezzo, anche il tuo Soffio Vitale, cedimelo e io ti darò quello che vuoi, senza limite alcuno”.  Il gigante nero si appoggiò dall'altro lato del frigorifero e, dopo una lunga pausa di riflessione, fissò il diavolo negli occhi, abbassò lo sguardo di qualche centimetro e si accorse che il ghigno del demonio era tal quale il suo, spaccato al centro e con i denti bianchissimi in evidenza. “Voglio saltare come quel grosso negro che mi somiglia tanto, quello che sta in televisione, ma voglio saltare piú in alto di lui, più in alto di tutti”, disse Abel Sky, dopo averci pensato un istante, indicandogli il televisore dove ancora si svolgevano le gare. “Cosa intendi dire?”, replicò il diavolo, sottolineando con il suo sorriso la domanda che gli aveva appena posto. “Voglio essere il più grande campione di salto con l'asta che sia mai esistito, voglio saltare così in alto da confondermi con le nuvole del cielo e le stelle e voglio che la ferita che mi taglia in due e annienta il mio sorriso sparisca per sempre. Puoi fare questo per me?”.  “Certo, posso fare tutto questo e molto altro per te”, rispose il diavolo, sorridendo divertito per quella singolare richiesta, “ma tu mi darai in cambio il tuo Soffio Vitale?”. “Te lo concederò immediatamente, di questo soffio non so proprio che farmene”, rispose il gigante nero con una alzata di spalle.                                                                                                                          

   Per qualche tempo i contadini videro Abel Sky correre da solo in mezzo ai boschi, lo osservarono saltare i fossati che dividevano i campi ordinatamente arati e seminati. Lo osservarono salire sopra gli alberi e lasciarsi cadere di schianto sopra mucchi di foglie secche. Rimanevano pensierosi, con i gomiti appoggiati alle vanghe e ai forconi, a guardare il loro strano confinante che allisciava col coltello, forti rami di frassino per ricavarci delle aste, con cui prendeva lunghe rincorse per saltare i muretti divisori. Le loro mogli lo videro mangiare tutti i giorni pesce bollito, condito con un filo d’olio appena. Poi all’improvviso sparì e nessuno ne seppe più niente. La porta della sua casa era chiusa, il campo appariva misteriosamente arato e seminato, il trattore era stato portato nella rimessa, tutto sembrava in ordine e ogni cosa era al suo posto, ma di Abel Sky non v’era più traccia. Chi poteva aver fatto tutto questo, in un tempo così rapido? Chi poteva aver lavorato di notte, in totale silenzio, senza che nessuno si accorgesse di niente? Tutti si domandarono dove Abel fosse finito. Si rivolsero persino allo sceriffo della loro contea, ma nessuno aveva notizie del misterioso, enorme uomo nero. Comparvero delle foto affisse ad ogni angolo di strada, nelle quali, un faccione d’uomo tutto scuro mostrava una ferita sul labbro superiore che lasciava scoperti due incisivi bianchissimi. I suoi increduli vicini lo riconobbero in televisione, un paio d’anni dopo, cambiato, magro, asciutto, bellissimo, atletico nei suoi calzoncini color rosso, con tre bande verticali bianche e le scarpette dorate con i chiodini. Lo osservarono con stupore, gareggiare da pari con muscolosi atleti di tutto il mondo e dissero, “Ehi, non è il vecchio Abel Sky quello li, che mi venga un colpo se quello non è proprio il nostro strambo vicino”. Le mogli accorrevano davanti al televisore e gridavano anche loro, “E`proprio lui, e non ha più quel suo orrendo ghigno stampato in faccia, non sapevamo che fosse così bello”, e ridevano inquiete, asciugandosi le mani  bagnate sugli strofinacci della cucina.    

 

   Abel Sky partecipò a tutte le gare di salto in alto. Prendeva una lunga rincorsa, fletteva la sua asta, curvandola fino allo spasimo e saltava su, più in alto di tutti gli altri. Volava in alto, verso il cielo nero delle riunioni di atletica leggera e nessuno sapeva spiegare come riuscisse  a fare ciò senza alcuno sforzo apparente. Indagarono sulle sue scarpette chiodate, ma erano in tutto simili a quelle degli altri atleti. Presero di nascosto un campione dalla sua asta e lo analizzarono in laboratorio, sperando di trovare traccia di qualche nuovo materiale fino ad allora sconosciuto alla scienza dello sport, ma non trovarono altro che i soliti componenti di fibra di vetro e carbonio delle altre aste, insomma niente di niente. Risultava negativo a qualsiasi test anti-doping e la sua vita privata appariva irreprensibile, un mistero, fitto e inspiegabile. Come poteva un essere umano saltare così in alto? Se lo chiedevano ormai in molti, tutto il mondo dell’atletica leggera era in subbuglio. Si scatenarono gelosie, ripicche, riaffiorarono vecchi rancori. Alcuni giudici di gara chiusero un occhio per casi di corruzione e di doping di vecchi campioni. Ne parlavano i programmi sportivi e quelli di approfondimento scientifico, i tabloid della sera e quelli scandalistici.  “IL MISTERO ABEL SKY” titolavano i giornali. Si presentava alle gare e faceva man bassa di tutti i premi. Divenne ricco, ma pareva non curarsene affatto. Le richieste di interviste in televisione e sui giornali fioccavano, inutilmente, Abel Sky non parlava e non interveniva in nessuno dei talk show dove veniva inutilmente invitato.

    Una sera però si ripresentò il diavolo, ma questo non era lo stesso che aveva conosciuto quel giorno appoggiato al suo frigorifero. Questo nuovo era un diavolo meno sorridente e loquace. Abel se lo ritrovò davanti quando aprì la porta del bagno, se ne stava davanti allo specchio a osservare il suo profilo, ma la sua immagine non vi appariva riflessa. Aveva il corpo interamente coperto di una peluria fitta e lucida  ed emanava un forte odore pungente e muffo che ad Abel non piacque affatto. Come non gli piacque che avesse uno sgarro proprio sopra il labbro superiore, del tutto simile a quello che un tempo aveva avuto anche lui. Il diavolo lo osservò a lungo e poi lasciandosi andare a un sorriso malato gli ricordò con voce brusca la parola data. Abel promise di non mancare al patto che aveva stretto, chiese soltanto di poter partecipare all’ultimo meeting di atletica, il più importante di tutti, quello che ogni atleta sogna per tutta la vita, le imminenti Olimpiadi. Il diavolo atteggiò il suo ghigno osceno ad una pessima imitazione di un sorriso, aveva sentito delle bizzarre richieste di quell’uomo.

    Abel sparì per qualche tempo ancora e quando venne il momento giusto  si presentò in campo, in uno stadio gremito all’inverosimile. La gente ammutolì di stupore quando lo vide presentarsi in pista completamente nudo, come certi eroi delle antiche leggende. Non indossava neppure le scarpette chiodate, era scalzo, niente altro che il suo corpo nero, lungo e magro, lucido come legno d’ebano levigato. Si era completamente rasato i capelli e sbarbato con cura, ma le telecamere inquadrarono una piccola imperfezione in quel corpo da divinità greca. Una ferita gli oscurava il sorriso sereno che fino a quel momento aveva sempre avuto. Quando venne chiamato dai giudici di gara Abel prese una corta rincorsa e saltò prima l’asticella posta a 19,70 piedi. quindi eguagliò il suo stesso record di 20, 50 piedi, poi chiese di portare l’asticella sui ritti fino a 32 piedi. nessuno dei concorrenti poteva più seguirlo. Tutte le altre gare in corso vennero sospese e gli atleti di tutto il mondo si portarono ai bordi del campo per seguire quel gigante nero, completamente nudo, volare come un angelo, sopra l’asticella che da quaggiù sembrava così lontana e inarrivabile.         I network televisivi di tutto il mondo puntarono i loro obiettivi sull’asticella posta a quella altezza da capogiro. Abel Sky respirò forte, a lungo, come se volesse bersi tutto lo stadio intero in un solo fiato. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa o di qualcuno e quando sembrò averlo finalmente individuato in mezzo alla folla in attesa, gli indirizzò un sorriso con le labbra e un grazie appena sussurrato. Il diavolo gli rispose indicandolo con un dito e accavallò le sue magre gambe di capro. Prese una rincorsa di soli 20 passi e superò l’asticella con una facilità che sbalordì il pubblico.  

Abel chiese di alzare l'asticella fino a 42,65 piedi, il massimo, non potevano alzarla di più.    I giudici di gara furono costretti a far venire un camioncino con un braccio mobile per arrivare lassù, dove Abel aveva chiesto. L’asticella in vetroresina appoggiata sui terminali in gomma, tremava agitata dal venticello leggero che soffiava in uno stadio ammutolito. Abel la osservava lassù in alto e sorrise come un bambino che abbia visto il suo giorno più bello. Strinse forte l’asta, impugnandola saldamente in cima e la pose in verticale, salutando il pubblico con un lieve cenno del dito portato verso le labbra, dove il taglio sembrava ora più ampio e arrossato. Nello stadiò calò un silenzio irreale carico di attesa. Abel Sky puntò l’asta indirizzandola verso l’ostacolo, liberò il suo Soffio Vitale con un leggero mugolio che i microfoni gli rubarono, facendo gelare il sangue a tutti i presenti, arretrò di un passo e prese una leggera rincorsa di appena 22 passi, tese in orizzontale la lunga pertica in fibra di carbonio e la piantò  con sicurezza nella buca. L'asta si flesse così tanto che il pubblico dello stadio gridò per la paura che si potesse spezzare e Abel schizzò in alto, così in alto che nessuno lo vide più. Volò lontano, superò le luci dello stadio e attraversò il cielo nero stellato della notte dei campioni. Per terra lasciò l’asta che ricadde, come abbandonata, ai piedi dei materassi, dove rimase leggermente sbilenca, come un’ inutile shangai. Di Abel Sky non c’era più traccia, gli spettatori rimasero inutilmente in attesa della sua ricaduta sui materassi azzurri, ancora disposti a tributargli un ultimo applauso. Abel Sky non ridiscese più nello stadio, nè in nessuna altra parte della terra. Il diavolo stesso, che era fra gli spettatori, non seppe dove andare a riprenderselo. Si mise a rincorrere ora questa ora quell'ombra che muovendosi, gli facevano credere che fosse lui, il gigante nero, caduto da qualche parte dentro quello stadio enorme, impazzito dallo stupore. 

    Dio in persona, infinitamente generoso e paziente, lo afferrò al volo con le sue mani, per non farlo ricadere sulla terra e non farsi del male. Lo accolse così, nudo e nero, come gli era arrivato. Gli restituì il suo sorriso di uomo buono e gli diede un posticino accanto a sè in paradiso. E li deve essere ancora oggi e per l'eternità.

 

 
 
 

FRAGILE Spread

Post n°30 pubblicato il 29 Gennaio 2012 da alex.canu

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     " Ma proprio non capisci?", mi disse alzando improvvisamente il tono della voce, "le agenzie di rating, hanno declassato il nostro paese di due “A”, Francia e Germania conservano le loro tre belle “A” e noi scendiamo di due posti. La tripla “A” garantisce la stabilità dei titoli e i poteri forti, le banche, come caimani sparsi nel mondo, saltano addosso alle economie in recessione come la nostra, con i loro titoli tossici, e azzannano direttamente al collo, strozzando il prodotto interno lordo di ogni stato che non riesce più a pagare il debito, riducendolo a dichiarare il default. Gli portano via persino le mutande. Le piccole e medie aziende chiudono, licenziano gli operai e l'economia di una nazione intera che si era indebitata per comprare case,  frigoriferi e televisori al plasma va a puttane. Guarda a quello che è successo al Portogallo o all'Irlanda, alla Spagna e ora alla Grecia. Scioperi, manifestazioni in tutto il paese, vetrine delle banche spaccate a martellate, supermercati presi d'assalto e derubati." Fece una lunga pausa, si versò un bicchiere d'acqua e io pensai che avesse finito. Rimase in silenzio, pensierosa. Ormai, già da qualche tempo, i nostri discorsi erano bloccati e centrati su quest’unico argomento. Seguiva con accanimento qualsiasi talk show trattasse questo genere di dibattito, cioè ormai tutti. Poi riprese con maggior foga. "I rendimenti dei titoli di stato, quelli a tre anni, sono schizzati al 6,75 per cento e quelli decennali, i più rischiosi, sono già al 7 e sessanta per cento. Lo spread rispetto ai Bund tedeschi ha superato il 5,60 per cento e si allarga la forbice tra i paesi ricchi, che diventano sempre più ricchi e si mangiano il 70 per cento delle risorse energetiche dell’intero pianeta e quelli più poveri, che se ne vanno in malora e ci mandano le carrettate di disperati dal mare. Qui nessuno è più al sicuro e si parla già di una Europa a due velocità, quelli dentro e quelli fuori dalla moneta unica. La Cina sta comprando il debito di intere nazioni, quelli crescono con un incremento del pil annuo pari al 12,8 per cento, mentre noi ci dobbiamo accontentare di un misero 0,5”. “Mi ascolti?", mi gridò in faccia, congestionata dalla rabbia. " Si che ti ascolto", le risposi seccato. "La BCE ha deciso di acquistare i nostri BTP per bloccare gli attacchi speculativi delle borse, ma ormai il Dow-Jones ha sempre un segno negativo fisso e le banche non si fidano più investendo in oro e immobili. "."Ma tu davvero non mi ascolti, a che cosa stai pensando mai?"

"Al mare, sto pensando al colore del mare. Al blu intenso e profondo che prende quando il sole cala dietro il suo orizzonte, infuocandolo per un attimo di rosso. Sto pensando alle sue onde, costanti e regolari, come una partitura musicale barocca segnata dal canto e dal contrappunto. Sto pensando alla precisione da metronomo della risacca sulla spiaggia di sabbia dorata e alla spuma bianca che si forma quando si frange sugli scogli di granito scuro di casa mia".

 
 
 

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