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tre del mattino, sala d'aspetto di un pronto soccorso

Post n°98 pubblicato il 19 Settembre 2013 da andrea_firenze
 

tre del mattino, sala d'aspetto di un pronto soccorso. Leggo il diario di Stendhal, pescato a caso su uno scaffale dove la gente prende in prestito e restituisce libri senza proprietà come resti di una civiltà da cui trafugare. Me lo immagino appena dopo il risveglio, mentre fa la toilette ed arriccia e lucida i boccoli neri di fronte allo specchio, attento a non farsi sfuggire un'impercettibile vanità stretta fra le labbra. Probabilmente sta pensando che sarà una qualunque delle giornate mondane in cui sfregarsi coscia a coscia con una delle ben educate e linde signorine dell'alta società. Sono passati due secoli. Non è rimasto niente di quei gesti, se non queste poche e semplici parole sul mio corpo posato a gambe incrociate su una sedia. Se mi figuro un mondo, posso essere migliore di Dio, libero dalla sua pignoleria. Provo pietà e rabbia verso queste persone così poco frivole, entusiaste e prigioniere di tali frivolezze, schiave della passione e degli scherzi della vita. Mentre rifletto mi domando se stia parlando del signore o del grande scrittore; non so, forse di entrambi, perché infondo nell'intangibile non c'è differenza. Un silenzio surreale ha preso vita in questa sala; c'è la stessa incapacità di sentire e la stessa perfezione che si svela ad un incrocio dopo uno schianto, nel vuoto che segue ad un rutto, in un secchio rovesciato. Ci sono lingue che ondeggiano nella vibrazione del calore delle fiamme in un incendio. Somiglia ad una grande anima narcotizzata, fuoriuscita dalle teste spaccate di questi giovani sequestrati, dai graffi sui loro visi, dalle contusioni sui bracci. È la pace di quando tutto è già successo. E mentre scartabello fra i libri e volto le pagine, sento una meravigliosa intimità con i barboni stesi sulle sedie, con la testa sui sacchi e le camicie sbottonate. Sbircio dentro le loro bocche aperte, fra i denti gialli; mi sembrano lampade su comodini, teste di giraffe a brucare l'aria. È come se dormissimo insieme ogni sera, rifugiati in cima ad una torre, o su una scialuppa di salvataggio, scampati ad una inondazione. Rivolgiamo gli sguardi giù nella corrente dove passano lettighe cosparse di corpi insanguinati, occhi in cui alberga la sorpresa e lo smarrimento di riconoscere la propria violenza. Non posso fare a meno di sentirmi sollevato; lo so che maturiamo come frutti sui rami e che poi cadiamo giù, ma per ora avverto la realtà di una provvisoria incolumità. Trascorreremo, senza trovare la nostra Alessandria dove essere rigenerati da un'origine divina. Non siamo diversi in questo da bislacchi articoli da cartoleria che facciano bella mostra di sè sulle strade del mondo come vasi sui davanzali. Siamo valige piene d'acqua in cui galleggiano organi e idee, manichini impassibili come larve che non si schiudono mai o durano il tempo di una incisione. Ci consumiamo piano, come l'inchiostro su queste pagine. Qualcuno ci comprerà come noi infondo compriamo noi stessi e, prima o poi, quando il tempo avrà la meglio sulla moda, finiremo nel buio di un sottoscala o nella solitudine di una soffitta. Progresso, evoluzione, procreazioni e neonati nelle culle sono apparenze di vita, come le cinque falangi di una mano. E sempre, ciò che ne notiamo, è la bellezza, il colore, il disegno, il suono o l'aberrazione; e se penso a Stendhal non lo so riconoscere se non in un nome o nella carta tagliata per questo libro, e ne soffro. Per quanto sia difficile e doloroso, per quanto disprezzi la mia persona, sono orgoglioso di avere delle emozioni che non svaniscono come acqua di colonia al raggiungimento di uno scopo. Mi vanto di non saper sostituire, di non essere capace di arraffare pur di avere la pancia piena, e che ciò che ho provato non finisca mai, comunque vada. Sono fiero di essere un perdente e non dirò parole gentili e non colpirò, perché moriremo. Giro un'altra pagina: ci sono giorni stesi su fogli che non rispettano le ventiquattro ore. Raggruppiamo e compiliamo, selezioniamo perché non possiamo fare altro, perché le uniche conquiste che ci sono permesse affondano le radici nella perdita. È assurdo e, allo stesso tempo, è una legge della fisica che ci sia sempre meno spazio per le cose che vorremmo tenere vicine. E quanto m'infastidisce e mi tortura la consapevolezza di come, nella vita umana, ciò che serve sia sempre figlio di una riduzione, un'induzione da qualcosa che rimane misterioso: gli oggetti dalla materia, le sensazioni dalle idee che ce ne facciamo; e se queste ultime sono di tutti e di qualcuno, le vite di nessuno, ma dovrebbero essere di tutti. Vorrei ogni volta toccare storie e non parole, intricate e limpide coscienze e non stupidi corpi stremati dal grasso o dalla fame.

 
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