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« settimanale puntata alla...vene che affiorano »

avevi gli occhi molli di lumaca

Post n°138 pubblicato il 13 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

avevi gli occhi molli di lumaca, lucidi di foglie e miele; i capelli pesanti, a ciocche, come la pioggia continua d'Araucania; la pelle salata, le scapole fatte di palle di neve scagliate alla schiena, gli occhi pieni di allegria. Il rossore s'infrangeva come un'onda sui piccoli peli del tuo viso. Di te ricordo una tazza per la colazione, e gli angoli della bocca e il mento appena sbaffati di latte. Passo di fronte alla Madonna del giglio sfiorando la Misericordia e Dolce. Le piante nei vasi di terracotta sul mio balcone non somigliano a quel giglio secco che si dice sia rifiorito di fronte al piccolo affresco quattrocentesco che si intravede dietro la grata di protezione del tabernacolo. I loro steli e le foglie, tonde o lanceolate, ormai sono come capelli arruffati, tutto ciò che rimane all'interno della bara di qualcuno morto tanto tempo fa. Non sono capace di farli resuscitare, di ravviarli come saprebbe il gesto di una ragazza un po' civetta nel pieno della sua gioventù. Continuo a provare perché con esse ho tante occasioni da perdere; altre invece non ne ho più. Era difficile fare l'amore con te; lo consideravi un compito da svolgere per averne gratificazione, affinché gli altri sentissero di doverti qualcosa; lo facevi solo in parte per gratificare. Non amavi il sesso; non per le mie stesse considerazioni estetiche, per quei corpi così snaturati dall'adattamento all'immagine che ne viene offerta, per le caviglie divaricate come aquiloni al vento e la fica molle e granulosa come lo yogurt o l'interno di un melone; tu non amavi il sesso per un motivo apparentemente meno evidente: non credevi che le cose brutte, come infondo pensavi di essere oltre la maschera del narcisismo di quell'affermazione, potessero dare piacere. Temevi di non soddisfare gli altri, e non perché ci potesse essere l'eventualità che il tuo dono sembrasse cosa da poco, ma perché forse avrebbero potuto dirti che tu eri una cosa da poco. Nominare le cose è un po' farle succedere. Qualcuno mi ha detto un giorno che il sesso è un affare violento, un traffico da disprezzare. In astratto aveva ragione. Era una ragazza bionda, con i capelli lisci; era molto intelligente. L'ho amata per questo; l'ho amata come si ama, solo per un po'. Ma era anche una ragazza piena di violenza e cercava di conservarla per se stessa entro il limite del dolore, senza rendersi conto che il sesso è l'unico mezzo di fare un velato commercio di ciò che ci opprime facendolo sembrare un regalo. Avrei voluto che la tua tortura non finisse mai; saresti stata bella, una tragica eroina; ma era solo una posa, un vizio che chiunque avrebbe potuto curare. È bastato superare un piccolo scoglio, la paura che nasce da una insicurezza, per dimenticare ciò che si è inflitto agli altri, per amor proprio, per la gelosia verso un corpo inconsolabile. Non ci vuole niente a commettere o subire una violenza, è la lotta per farlo ad essere faticosa, che fa paura. Adesso passi il tempo indaffarata fra le pentole, con le mani sporche di farina, incolpevole, e a volte le tue dita sono bagnate di vagina. Ti farai una famiglia, genererai dei bambini dai piedi piccoli: certo è un modo degno di impiegare il tempo, di saperlo apprezzare. Indegna resta la vita. Ed è giusto così; altrimenti che ne sarebbe di tutti gli scarti, dell'argilla d'avanzo caduta ai lati del tornio che gira, di fronte alla sedia su cui non è seduto nessuno, ai piedi della forma che continuamente si sforma. Coloro che sono vissuti, che potrebbero affermare di aver vissuto, anche chi avresti detto sarebbe riuscito a dire o fare qualsiasi cosa, hanno facce cancellate ed a conti fatti non hanno potuto far altro che scegliere di varcare in silenzio la porta dell'esistenza, quella che si apre con il pene nella fica, l'unica chiave che s'incastra bene nella toppa.

 
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