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« ho aperto questa casa e ...le bolle di mota »

ti ascolto

Post n°134 pubblicato il 06 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

ti ascolto mentre mi racconti di quando hai sentito la mano ruvida da lavoro di tuo padre morto da dieci anni sulle tue spalle, una sera d'inverno. Scendevi il sasso forte affrettandoti fra le case di campagna scoscese e ben piantate sulla pietra che nonno avrebbe voluto ma non ha potuto comprare, e avverto i cipressi che fischiano dove ti sono caduti i denti; e mi faccio forza per farlo anch'io quel gesto papà, perché so essere l'occasione di un ricordo che non svanirà mai e perché così forse riesco a rafforzare in te l'idea che quella impressione sia stata un fatto reale o forse, egoisticamente, affinché un giorno non abbia anch'io come te quella stessa illusione di una azione che non sia stata compiuta. Infondo ogni accadimento è appena un bisogno dalla vita breve e la natura è a posteriori; ogni ripetizione solo in un secondo momento acquista un senso, come respirare; è astratta come la musica alle dita, ma più magnifica in rapporto ad un ordine di grandezza della cui base non sai stabilire le dimensioni. Ed è una infamia ed un oltraggio che la maggior parte delle cose non siano più prima del tempo, prima di quando è necessario che cessino per sempre. Così oggi non ho rimandato e ho subito acconsentito alla richiesta di accompagnarti, come avrei fatto da bambino, entusiasta, perché allora ogni motivazione non si era ancora trasformata in una giustificazione; ed ho continuato a raccogliere gli asparagi selvatici insieme a te, nel prato, a pochi metri di distanza dai calzoni di jeans consumati e larghi sul tuo culo secco, nonostante il caldo e la febbre. È come essere lì anche adesso: ascolto i rumori gentili che fai pestando gli sterpi secchi e le pietre ricoperte di muschio, la borraccina che raccoglievamo per il presepe quando si avvicinava il Natale, su cui premevamo con piacere, bocconi, i palmi delle mani; e ti guardo di soppiatto spuntare, fra i rami, fra una balza e l'altra, con la testa piccola e nera, un po' canuta, come le orecchie di una lepre, e gli occhi verdi come l'olio, leggermente appannati. Ti vengo vicino mentre scendiamo il pendio con le scarpe affondate nella terra sudata e grassa; ti scuoto l'erba secca dalla maglia, lungo la schiena, appena inclinata, con la stessa cura e leggerezza che ci metterebbe mamma. Mi sembra incredibile che il tuo corpo non mi appartenga, spesso l'ho sentito come mio; e non mi sorprende che quando siamo soli riusciamo anche a parlare perché è quasi come fossi solo e non avessi difficoltà a confessarmi con me stesso: no, non discutiamo della vita, che per te è un principio ed un contenitore di valori e non capiresti quello che ho da dire; ma delle cose della vita sì, se faccio un piccolo sforzo; cose importanti per te, cose così belle e bastarde ed ingannevoli per me. E lo so che ogni parola che dici è una specie di saluto. Mi stai lasciando giorno dopo giorno, e con i tuoi rari, per colpa di entrambi, racconti consegni te stesso a me: le rape tenute a due mani, rubate nei campi, mangiate crude a morsi i giorni in cui a casa c'era la fame; la polla d'acqua piovana sopra alla cava e la fantasia dei maialini sani pasciuti a ghiande che sgambettano rosa fra i fiori di campo viola; Gano sbronzo sulle scalette ripide di pietra che portano al gatto nero, tenuto a braccia; e Giuliano, l'amico d'infanzia, quante volte l'ho visto sfumacchiare; che sale il viottolo in affanno, e saluta senza suono e apre la bocca indicando col dito un tumore, come un bimbo che mostri le tonsille, col sorriso e gli occhi che gli brillano e parlano, come tenesse sotto la lingua una ghiottoneria contesa; e il sedere mitragliato per errore della mamma di tua cugina pel di carota, quando su questo poggio, invece delle case, al tempo della guerra, sibilavano gli spari della contraerea, non ricordi bene se fossero tedeschi o americani; la cugina rosso malpelo con gli enormi nei sulla faccia malsana e la sigaretta lunga e fine, sbiascicata e macchiata di rossetto sul filtro, stretta con i denti posticci nella bocca larga, che sbuffava come un soffione boracifero ma che non ha mai mancato di inviarci del denaro ad ogni nostro compleanno, sigillato in una busta bianca. Anche lei è morta; come tutti gli altri. Dei tanti che se ne sono andati, nella carne o nella presenza, non mi sono accorto. Eppure facevo caso ad alcune loro particolarità ed abitudini che avresti detto assai comuni e banali. Sono sempre stato un osservatore silenzioso, svogliato di raccontare per timore di sciupare il piacere che quei dettagli mi facevano nascere dentro. Ed è così. Dalla vita alla morte, è un tonfo sordo, con un tempo di riverberazione brevissimo; è lo spazio aereo in un tuffo, una pausa fra due parole, un momento di distrazione riguardo a ciò che avevi da dire. E forse è normale e naturale ma dal mio punto di vista inaccettabile che sia questo ciò che rimanga di un'esistenza: il di più, l'essudato del contenuto che sei stato sempre, sciolto e disfatto dall'abrasione di ogni superficie come un po' di gesso sulle mani. Le persone piangono i ricordi, gli oggetti rimasti, appartenuti a qualcuno a cui hanno voluto bene. Lo fanno con lacrime vere, non d'amore o nostalgia; ma di rabbia verso la pochezza di ciò che riusciamo a conservare, i cimeli delle cose che abbiamo lasciato perdere e ucciso come i trofei di un serial killer o il dente di un leone. E non si tratta di volontà, ma di incapacità di forma d'espressione che non si limita ad un linguaggio fatto di parole, ma si estende ad ogni sistema di segni, ai fabbricati delle case, alle parti del corpo umano. E le interruzioni sono l'esserci che dismettiamo per consentirci di scorgere l'essere allontanarsi inaffrontato e riproporre copie della materializzazione di ciò che reclamano le figure che nel corso dell'esistenza ci hanno insegnato a riconoscere e che ci hanno rese familiari al punto da confonderle con noi stessi. Ma noi non siamo la nostra progettualità; e tutto questo è solo un inganno per non dare altra scelta che andare avanti, e avanti, ubriacati, inebriati dagli aromi zuccherini, dalle mille fragranze, in bilico sull'orlo dell'ascidio digerente che si restringe fino alla bocca dello stomaco, a senso unico come i peli che ti crescono in faccia, e poi giù, tirati dalla pressione dell'apertura larga di quando la vita era giovane e forte, ingobbiti su noi stessi, intrappolati senza rendersene conto dalla legge di Bernoulli. E c'è un'unica via d'uscita: prendersi la vita, come dicono gli inglesi 'to take your own life', e portarsela via.

 
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Commenti al Post:
gufonotturno01
gufonotturno01 il 06/11/13 alle 16:11 via WEB
Trovo che sia il post più bello che hai scritto, ricco di riflessioni acute e profonde...c'è come in tutti i tuoi scritti uno stato d'animo inquieto e di consapevole rabbia per uno stato, comune, di impotenza di fronte agli eventi naturali della vita. a stessa sensazione l'ho sempre avuta anche io, pensando a me stesso vedevo la figura di mio padre."Mi sembra incredibile che il tuo corpo non mi appartenga, spesso l'ho sentito come mio". Un saluto
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