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di nuovo il mattino sbarra gli occhi su di me

Post n°141 pubblicato il 18 Novembre 2013 da andrea_firenze
 

di nuovo il mattino sbarra gli occhi su di me, svogliato, mentre chiuso come un'oasi aspetto il deserto. Il mattino, un gatto, accovacciato fra le lenzuola calde come una minestra, ronza e fa le fusa, bisbiglia come la risacca, frigge piano come il silenzio di una chiesa. La sua solennità ci contiene e l'ampio spazio ci concede l'occasione di stare un po' insieme. Sono capace di sistemare abbastanza bene le persone in queste pause, dopo averle rese mute ed avergli sciacquato la bocca di parole. Ci sarà mai qualcuno in queste stanze? O mi sto solo prendendo in giro? Il turbamento sale nei polmoni come caffé che sbotta, qualcuno sbatte le posate, una fuga di vapore passa veloce nella testa. Le persone: più ci penso e più mi sembrano come maniglie, prese per tirare a sé il mondo in qualche modo, per cercare di partecipare all'essere umani. Ma che cos'è essere umani se io stesso, che lo sono, ho la sensazione di non possederne gli attributi? È come se avessero per tutta la tua vita continuato a dirti di andare a scavare per un tesoro che non ricordi di aver sepolto e tu, che hai titubato per molto tempo, un giorno prendessi la decisione di recuperarlo e ti accorgessi che là il tesoro non era rimasto poi a lungo poiché ti era stato portato via appena lo avevi appoggiato sul fondo della fossa. Così è per la nostra umanità. La nascondiamo appena nati, la copriamo di vestiti tutti i giorni e poi la dimentichiamo; alla fine, quando ne sentiamo il bisogno, quando vorremmo regalarla a qualcuno, la cerchiamo sicuri che sia là vicino ad aspettarci, ma non la troviamo più. Siamo angeli fatti di sacro e poi sacrificati, bianchi alla nascita come i palmi delle mani di un lottatore di sumo, gamberi infarinati, vergini come la naftalina nell'armadio. Guardo fuori, seguo l'orlo della spiaggia punteggiata dagli sdrai gravidi di vento alla Helliott Erwitt, pinne di delfini al di là della vita immaginaria: la caccia al cervo, l'aquila e i quattro fiumi della collina del paradiso, Orfeo che addomestica gli animali selvaggi, le musicanti, ed Alfio ed Aretusa, i fossili dei dinosauri nella valle della luna, e l'abitudine all'invisibile guerra che ho dentro. Sono stato accecato dalla bellezza e non è stato diverso da esserlo per la bellezza, come Orione, come l'encausto della battaglia di Anghiari; sono entrambe punizioni; e quanto è triste che io muoia per lei e non per la vita che muore; lei che mi sostituisce ogni giorno perfino nel ricordo. Non dovrebbe essere così, che ogni cosa sia resa misera in ciò che decidiamo e si accompagni alla consunzione di tutto ciò che le sta intorno e che muore con noi. Forse lo senti anche tu il rimorso del già successo e allo stesso tempo la gradevole, rassicurante sensazione di sapere che ciò che è finito non ha più possibilità di cambiare e lascia spazio ad altro. Non c'è tempo per riconoscersi: ne saremmo schifati. E quanto è difficile rendersi conto che questo è questo e non, come al supermercato, questo e questo, e che hai a disposizione una miriade di lettere da incidere sullo spazio angusto di una lapide e che non è facile scegliere le parole davvero importanti e riempirle di significato, in tanta confusione. Una mosca spira, incollata all'incerato della tavola, impiastricciato del succo dell'anguria che avrebbe voluto gustare. Eccola lì, è ovunque la lingua lunga della dea Khali che le buca la faccia nera, come un topo nella tana; arriva con i suoi occhi bianchi, quelli dei morti. La felicità degli imprigionati consiste nella prigionia e per godere della libertà dovremmo essere prima liberati: dai bisogni da espletare, dalle cose da mangiare, dai sogni da sognare; renitenti alla vita, al carcere, alla morte; ai limiti che contengono altri limiti, finti traguardi per noi, pronti a gareggiare come closers frenetici, che si avvicinano sempre più, presi a scudisciate, ma che sanno già che saranno battuti. Ho anch'io un buco in faccia ed è la tana dove nascondo me stesso, l'unico posto dove può essermi concesso di essere felice. Ho il viso tirato, come la corteccia di una quercia, ed occhi pieni d'anima, occhi di canna, infiammati dalla luce di epifanie incomprensibili. Muscoli, inessenziali, fuori contesto, affetti da distonia per la riflessione in uno specchio. Cos'è che affiori, cosa ci sia là sotto, inumato e orbo, in gattabuia. Chi si irriti in pancia: emorroidi o lacrime d'intestino, un nonsoché birroso che gira nella testa e la smania nervosa di correre, di correre. Chi, che cosa; verso chi, che cosa. Un'eruzione è tutto ciò che resta un mistero.

 
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Commenti al Post:
SexAndTheCitydgl
SexAndTheCitydgl il 18/11/13 alle 11:18 via WEB
complimenti! :)
(Rispondi)
 
 
andrea_firenze
andrea_firenze il 18/11/13 alle 12:06 via WEB
:)
(Rispondi)
 
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